Un calderone di intuizioni, un insieme di elementi combinati in maniera sapiente dalle mani di Lindley, Feldthouse, Darrow, Crill e Vidican, veri e propri artigiani e cesellatori musicali.
I Kaleidoscope attingono alle radici dell’America dell’800 fino a quella degli anni ‘30, riuscendo a inserirci contaminazioni tzigane, cavalcando a pieno l’ondata musicale-spirituale indiana, ammiccando in maniera convinta al mondo arabo, senza apparire sopra le righe o fuori contesto.
Side Trips dimostra di essere uno dei primi esperimenti (assolutamente ben riuscito) di world music, una fusione distinta e democratica di diversi stili, manifesto del pensiero e del comportamento della band stessa, priva di un leader per garantire ai 5 membri un apporto eguale e senza patemi – come in un caleidoscopio, che divide immagini che si armonizzano vorticosamente – la musica è un complesso di elementi che si fondono tra di loro pur rimanendo distinti.
Ogni brano rappresenta uno schema molteplice, con cambi di ritmo e una potenza emotiva che avvolge l’ascoltatore e lo diverte, Please il loro primo singolo, parte con un arpeggio ripetitivo, sfociando in uno stile dylaniano classico, con incedere deciso sincopato e crescendo di voce, batteria incazzata, cori-controcori tipici dell’epoca e uno xilofono che a mo di carillon regge la struttura, un po’ alla Sunday Morning per intenderci.
Hesitation Blues, Oh Death, Come On In e Minnie the Moocher sono classici della tradizione americana ripresi in mano dalla band con piglio tale da renderle proprie, il canto di Feldthouse è avvolgente e disperato.
Keep Your Mind Open è l’esempio più lampante del tentativo di riprodurre la raaga music, vittime delle mode psichedeliche del tempo, riescono a svolgere un tentativo più che degno di musica indiana. Qui si apre anche una diatriba ideologica, i Kaleidoscope vengono considerati psichedelici, ma di psichedelia scorgo ben poco rispetto ad altri gruppi ben più quotati dell’epoca, se poi per psichedelia si intende cercare di riprodurre le atmosfere esotiche dell’India, c’è proprio una falla nel sistema.
Egyptian Garden ti prende e ti porta di forza in piazza Tahrir, è talmente trascinante e ritmata che riesci ad immaginare l’odore delle spezie e del mercato arabo, a differenza di Why Try che risulta una piena combinazione tra musica orientale ed occidentale, si cerca di tenere forte la presenza nel mondo arabo, con accelerazioni e frenesia crescente.
La bravura dei Kaledoscope è quella di trasformare poi le sonorità degli strumenti tipici del folk americano in orientaleggianti, come per il banjo, l’autoharp e la chitarra dobro. Si ricorre anche all’utilizzo di strumenti folk europei come mandolino, dulcimer e bouzouki, ma anche a strumenti esotici come vina, oud, doumbek, baglama. Anche se su tutti spicca la capacità al violino di Darrow che ricorda molto l’approccio musicale di Bobby Notkoff.