Vade Retro Satanasso!
Quant’erano fighi i White Stripes? Hanno fatto tante cosine interessanti dal mio punto di vista, poi non significa che uno le apprezzi tutte eh! Però molte intuizioni sono state intriganti e Get Behind Me Satan è uno dei dischi pescati dalla discografia loro che ne raccoglie di belle.
Voi direte “che c’entrano i White Stripes con questo ciclo di pubblicazioni?”… cazzo ne so, mi piaceva buttarli dentro però.
Prima di tutto possiamo notare come in questo disco sia cominciato il processo di lievitazione naturale e dilatazione di Jack White, sempre più imbolsito e col capello unto alla Johnny Depp (più sozzo), ma comunque dobbiamo dire che all’epoca manteneva ancora una dignità (nonostante le unghie sporche). Poi ha cominciato a inserire fica su fica nei videoclip e – con la ciccia che cresceva – ha perso un po’ di credibilità, soprattutto perché non gli cresce la barba come Cristo comanda e cerca di farla crescere comunque… io odio un po’ questa gente che ha tipo dei peli pubici sul mento, brutti e spettinati, lasciando poi le guance nude a mo’ di culo di bambino pingue. Vabè chiudo la polemica tra me e il sottoscritto.
Entriamo nel merito del disco, un lavoro che assume una dimensione differente rispetto ai precedenti lavori, l’uso di differenti strumenti offre uno spettro di sonorità più ampio, esempio lampante è la sorpresa che Jack e Meg White ci riservano al proprio interno, una citazione del più grande successo, quella Seven Nation Army inno multinazionale, ri-arrangiata alla marimba per l’occasione in una nuova canzone: The Nurse.
Get Behind Me Satan ha tutti i limiti esposti bene in vista, questo mettersi a nudo consente di apprezzare il lavoro in toto, senza soffermarsi troppo su dettagli o imperfezioni (figlie dell’approccio dei White)… nel pieno spirito arruffone della band, il disco è stato registrato tra le scale ed il foyer di casa di Jack White – all’epoca già separato sentimentalmente da Meg White) – e Little Ghost sembra richiamare le atmosfere dell’America rurale a cavallo tra ‘800 e ‘900 dove il banjo ed il whiskey regnavano sovrani tra le spighe di grano.
Il riferimento all’America di inizio XX secolo non è casuale, l’uso del pianoforte da un tocco di ragtime in molti dei brani nel disco come nel brano che prediligo dell’album, lo splendido spot di Passive Manipulation (interpretato timidamente da Meg), quasi in controtendenza con la magnifica Blue Orchid, primo singolo estratto dall’album e dalle sonorità pesanti (con lo splendido e visionario video diretto da Floria Sigismondi) o con il blues di Instinct Blues (altro ammiccamento alla cultura americana nonostante le derive di zeppeliana memoria come per Red Rain).
Sì perché nella maggior parte dei casi ci troviamo dinanzi un disco da sonorità che incidono con decisione, dettate da un ritmo compassato, “sono stato in tour per un anno e mezzo e non ho avuto modo di scrivere nulla, a due mesi dalla registrazione di Satan non avevamo ancora nulla in mano. Semplicemente giro per casa, vado al piano, mi siedo e la prima cosa che viene fuori cerco di trasformarla in una canzone”, questo spiega in parte la presenza massiccia del piano all’interno del disco, così come spiega il legame di tantissime canzoni con la cultura Americana, negli stilemi di quegli stati del sud fortemente connotati dal gospel e dal ragtime.
E come sempre giungo alla fine che dimentico qualcosina, sarebbe delittuoso a questo punto non citare la splendida The Denial Twist, con l’assurdo videoclip girato da Michel Gondry – che vede la presenza di Conan O’Brien – dove ci sono dei continui cambi di prospettiva (basata sul concetto della stanza di Ames) cercando di interpretare visivamente quanto la canzone stessa intende: ovvero che ciò che la gente crede sia vero il più delle volte è distorto dal contesto, da chi comunica il messaggio e della sua credibilità, dalla situazione in cui si trova il ricevente ed il mittente, dal metodo di comunicazione, oltre che dai vari agenti esterni alla comunicazione stessa. Così il cambio repentino di prospettiva vuole indicare che la percezione è soggettiva e varia a seconda di come la si interpreta.