Radiohead – Hail To The Thief

Radiohead - Hail To The Thief

La guerra è pace. 

La libertà è schiavitù. 

L’ignoranza è forza. 

Questi i concetti imposti dall’Oceania e combattuti strenuamente da Winston Smith, anche se poi purtroppo si trova ad accettare una verità imposta, quel 2+2=5. 

Per chi non avesse letto 1984, vi ho praticamente spoilerato il libro, ma ve lo meritate, perché avreste dovuto leggerlo.  

Hail To The Thief è la frase che viene nominata durante la canzone di apertura dell’album 2+2=5, si vocifera sia un sasso tirato in direzione dell’amministrazione Bush e delle sue discutibili politiche, difatti ai comizi George Dabliu veniva accolto al grido di Hail To The Chief 

Yorke ha smentito questa chiave di lettura, salvo riabilitarla in seguito. “Ho provato ad evitare di vestire le parole di un senso specifico, ho cercato di spostarmi lontano da ciò che accade. Anche perché brani come I WillMyxomatosis sono stati scritti circa 3-4 anni fa [rispetto all’uscita dell’album naturalmente ndr]. […] Quando stiamo registrando, cerco di tenere fuori tutta la merda che ci circonda”.  

Sì, però Tommasino se lasci appese le parole, è facile poi che vengano estrapolate delle interpretazione a comando, suvvia! 

Questo lungo lungo cappello introduttivo mi da il là per presentare Hail To The Thief in maniera acchiappona, un disco registrato per catturare il sound live dei Radiohead in 2 settimane di sessione – con il ritmo di una canzone al giorno – negli studi di Los Angeles (luogo che ha influenzato in qualche modo il sound e l’artwork sempre a cura di Stanley Donwood [ha annotato parole riportate nei cartelloni pubblicitari a bordo strada e li ha distribuiti in una mappa ideale]), evitando il riproporsi di mesi agonizzanti in studio come per i precedenti lavori, portando i simpaticissimi membri dei Radiohead più volte vicini alle mani. 

I tempi di registrazione risultano rapidi anche a seguito del fatto che Thommy e compagnia bella (come anticipato poche righe sopra) avevano gran parte del materiale – 12 dei 14 brani presenti in Hail – già rodato da anni di concerti o lasciato maturare. 

Hail To The Thief esce dai canoni stabiliti con Kid A ed Amnesiac, ha un’impostazione differente, porta dietro l’esperienza e un po’ del sound dei precedenti ma risulta più estroverso. La peculiarità risiede nel doppio titolo che ogni brano ha, anche il disco ha un sottotitolo ovvero Gloaming (il crepuscolo) che ne lascia trasparire il messaggio (oppure no Thom?) 

L’album è stato leakato 10 settimane prima dell’uscita effettiva, con un paio di brani incompleti di mixaggio. La delusione da parte della band è tangibile, lo stesso Jonny Greenwood puntualizza a proposito “ci siamo incazzati ad essere onesti… un lavoro che non avevamo terminato è stato rilasciato in questo modo […], non ce l’ho con chi ha scaricato, ma per la situazione. […] Comunque sono felice che sia piaciuto”. Probabilmente quanto accaduto ha spinto i Radiohead alla pubblicazione di In Rainbow con il download ad offerta. 

Un po’ di curiosità in pillole? TIpo che la scaletta dei brani è stata ordinata da Ed O’Brien e Phil Selway, e che Wolf At The Door (ispirata all’immaginario fiabesco dei fratelli Grimm) posizionata alla fine è come se rappresentasse il risveglio dopo un incubo (ovvero l’ascolto di un album dai temi angoscianti).  

Ah, dimenticavo, Wolf At The Door è stata riproposta in italiano da Dolcenera con il titolo di Il Luminal D’Immenso (L’ombra di Lui)… con il senno di poi, direi che questa canzone ha rappresentato l’inizio di un incubo. 

 

 

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Radiohead – Amnesiac

Radiohead - Amnesiac

Ciao, oggi avrei voluto raccontarvi di un disco, ma sinceramente non ricordo bene quale… devo avere avuto una leggera Amnesiac……………………….. 

Siete liberi di non seguirmi più, lo accetto di buon grado.  

Dopo avermi dato del coglionazzo (a ragione), possiamo addentrarci in quello che Giovanni Verdelegno definisce il gemello di Kid A ma con una gestazione un po’ più lunga. A differenza del fratello maggiore, Amnesiac non sorprende così tanto, anzi … i Radiohead continuano a percorrere quel sentiero, senza la paura del buio, della nebbia che scende e dei compagni che piano piano abbandonano la retta via per tornare verso lidi più confortevoli.  

La critica – acida di natura – etichetta Amnesiac come la raccolta di b-sides di Kid A, ma il tempo si rivelerà galantuomo ed il disco subirà una riscoperta più che meritata, rivelandosi una delle opere sicuramente meglio assortite della band di Oxford. 

Lo ripeto: registrato durante le stesse sessioni di Kid A [forse è per questo che sto scrivendo l’articolo di Kid AAmnesiac contemporaneamente, dedicando un paragrafo prima all’uno e poi all’altro ndr], in Amnesiac persistono i loop spettrali prodotti dal Roland MC-505 e l’elettronica, ma si fanno più evidenti le influenze blues (saranno miraggi uditivi, ma in alcuni casi mi sembra di sentire i paesaggi sonori di Ry Cooder) e jazz di Charlie ParkerChet Baker. 

Ad esempio Pyramid Song è ispirata a Freedom di Mingus, mentre il testo viene in mente a Yorke dopo aver visitato una mostra incentrata sul mondo egizio e il suo aldilà, al quale ha mischiato il concetto ciclico della vita che troviamo alla base del buddismo.  

Pyramid è uno di quei brani rimasti impressi nella memoria in chi ha vissuto l’uscita di Amnesiac nel mercato, essendo il primo singolo dopo Airbag del 1998, un brano al quale associamo il meraviglioso suono – proveniente dal profondo passato e – ricavato dall’Onde Martenot suonato da Jonny Greenwood. 

“Ho cambiato la mia attitudine, le parole che canto […], è molto meno di un confessionale. Ne ho abbastanza di ciò. Ad esempio Pyramid Song è a malapena un confessionale, veramente… eppure un po’ lo è”, il buon Tommy si prende un po’ gioco di noi, e non solo, lo stesso Jonny Greenwood non ha idea di cosa trattino i testi di Yorke – così come il resto della band – ognuno così è in grado di correlare al testo il significato che immagina. 

Scrivevo che il jazz aleggia in tutto il disco, ma lo noterebbe anche un sordo ascoltando Life In a Glasshouse. So di aver scoperto l’acqua calda, ma questo brano ostentatamente jazz ha dietro una storia carina da raccontare [la parola jazz leggetela come la direbbe Ornella Vanoni ndr]. È l’unico brano registrato subito dopo l’uscita di Kid A, Jonny si prende la responsabilità di scrivere al trombettista Humprey Lyttelton chiedendo (a lui ed alla sua band) di prendere parte alla registrazione del brano.  

Humprey accetta solamente dopo che il figlio lo introduce ad Ok Computer, per la gioia di un Greenwood che di fatto aveva scorto la sindrome di Icaro nei Radiohead, salvandoli da inciampi epocali “Ci siamo resi conto di non poter suonare il jazz. Siamo sempre stati una band dalle grandi ambizioni ma dalla tecnica limitata”. Il brano viene vestito meravigliosamente da Humprey che suona un jazz funeral in chiave minore che rende il brano un vero gioiellino. 

Sarebbe ingeneroso tralasciare il lavorone effettuato su tracce come Pulk/Pull Revolving Doors nel quale il nastro di registrazione continua a registrarsi sopra senza cancellare il pregresso e creando quella giostra sonora che caratterizza il brano.  

In Pulk sono presenti stralci campionati di True Love Waits, un processo simile è stato compiuto su Like Spinning Plates nata da I Will, brano abortito e che ritroviamo su Hail To The Thief. Il testo di Spinning Plates è stato cantato al contrario da Yorke seguendo il processo di inversione fonetica (per gli smemorelli un simile sforzo lo ritrovate in Little Red Riding Hood Hit The Road di Robert Wyatt oppure in Messaggio Satanico di Elio e Le Storie Tese). 

E come dimenticare Knives Out che, come eroicamente ci riportò Ed O’Brien nel suo diario online, ha richiesto ben 373 giorni di registrazione?  

Mi rendo conto di aver tralasciato un mucchio di cose, ma bisognerebbe scrivere un trattato su Kid AAmnesiac – dischi legati da un doppio filo –  e non ho modo di farlo. Se doveste trovarvi a spiegare le differenze tra due gemelli omozigoti se vi soffermaste sull’aspetto fisico, qualche sfumatura potreste coglierla certo, ma ciò che li distingue veramente è l’anima, in quello c’è una differenza tangibile, lo specchio di ciò che dico è Morning Bell presente sia in Kid A che in Amnesiac con differenti arrangiamenti. Ascoltatele attentamente e capirete le differenze tra i due dischi. 

P.S. anche in questo caso la copertina del disco è illustrata da Stanley Donwood, e ritrae un minotauro piangente, disegnato mentre Donwood stava perdendosi nella metro di Londra tra appunti e schizzi. Londra è il moderno labirinto nel quale chi ascolta è il minotauro e chi lo circonda è metà umano e metà mostro. Cioè una pippa totale per farti capire che oggi giorno il labirinto non ha più barriere fisiche ma mentali. 

 

 

Radiohead – Kid A

Radiohead - Kid A

“È tutto al posto giusto”

questo è l’incipit di Kid A, quasi a voler rassicurare l’ascoltatore – interdetto – che dopo Ok Computer si sarebbe aspettato qualcosa di simile, invece la rottura che si ha con Kid A, garantisce una credibilità imperitura ai Radiohead, che decidono di abbandonare l’idea dei soldi facili per sviluppare definitivamente la propria identità musicale. Abbandonare le certezze ed assicurare che tutto è al posto giusto, sembrerebbe più un mantra scandito ripetutamente per convincere sé stessi che la scelta fatta è stata quella corretta.

Il cambio da Ok Computer a Kid A è necessario, il successo di Ok ha inciso un profondo solco nei Radiohead, un bolla di successo che ha quasi fatto collassare la band, è per questo motivo che salvo National Anthem (brano in parte composto da Yorke alla tenera età di 16 anni e che ammicca violentemente, ma bene, ai Morphine) troviamo brani meno vicini ai precedenti lavori.

Yorke affronta un crollo nervoso, al quale si aggiunge il blocco dello scrittore – che supera dopo un lento tribolare – solamente abbandonando la chitarra con la quale solitamente compone, ascoltando continuamente Aphex Twin ed Autechre, dedicandosi al disegno e al trekking in Cornovaglia (dove nel frattempo ha comprato casa).

Ristabilita la connessione con sé stesso, si siede al piano e compone la sua prima canzone su tastiera: Everything In Its Right Place. Seguita poco tempo dopo da Pyramid Song. “‘Sono una merda di pianista’, ricordo sempre questa frase di Tom Waits di qualche anno fa, che gli consente di andare avanti come cantautore nella completa ignoranza degli strumenti che adopera. Perciò è tutto una novità. Questo è il motivo per il quale mi sono affacciato ai computer e ai sintetizzatori… perché non capisco come cazzo funzionino”.

Le sessioni porteranno al concepimento di numerose tracce, inizialmente pensate come un unico imponente doppio album, salvo poi tornare sui propri passi per la densità dei brani che avrebbe sottoposto gli ascoltatori ad un disco troppo complesso da affrontare.

“Si sarebbero annullati a vicenda. Credo provengano da due post differenti… in un certo senso penso che Amnesiac abbia dato un’altra chiave di lettura a Kid A… una spiegazione”. Sì, il tanto bistrattato Kid A è stato riabilitato con il tempo, perché come si è intuito dalle parole di Yorke Kid A non è piaciuto tanto all’inizio. È stato riabilitato dal successivo lavoro, eppure provenendo dalle stesse sessioni, Amnesiac appare un lavoro più omogeneo e convinto; forse è riuscito a decantare a differenza dello stesso Kid A.

Ci sono tanti altri punti in comune con il successore, come l’uso dell’Onde Martenot per How To Disappear Completely e National Anthem (al quale va aggiunta la sezione di fiati liberamente ispirata al caos ordinato di Mingus), o il patchwork di campionature [sì questo è proprio il ciclo dei suoni campionati ndr] con il quale è stato assemblato Idioteque, prendendo in prestito la progressione di accordi (accellerata) da Mild Und Leise di Paul Lansky e il suono metallico da Short Piece di Arthur Krieger (entrambi datati 1976), ai quali va aggiunto un sample di 40 secondi isolato da Tom proveniente da una registrazione di 50 minuti di Jonny.

Curioso come Kid A non abbia ricevuto alcuna spinta promozionale rispetto al suo successore, nonostante la presenza di molti brani “forti”. Lo racconta in maniera accurata Jonny Greenwood “Abbiamo semplicemente detto alle radio di non voler imporre un brano in particolare da passare. Il libero arbitrio non è piaciuto alle stazioni radiofoniche, sono andate in confusione e non hanno trasmesso niente di niente! Troppo complicato ragionare in questi termini per loro”.

Stanley Donward – lo stesso dell’artwork di The Bends – si occupa di curare la grafica del disco, ispirato da foto provenienti dal conflitto del Kosovo, ne trasmette l’ansia ed il distacco, in fondo il disco appare molto freddo di primo acchito.

Yorke descrive l’artwork di Donward con le seguenti parole “Kid A è come una scarica elettrica, Amnesiac è come essere in campagna. Lo si desume dall’artwork dei due dischi, il primo si sviluppa sulla distanza, il rossore dei fuochi avvampa dietro le montagne… con Amnesiac invece sei nella foresta infuocata”.

Björk – Medùlla

Bjork - Medulla

Un nugolo di voci, che si intrecciano come radici di mangrovia, tra le quali sinuosa serpeggia Björk, a suo agio, capace di non rimanere intrappolata nella fitta tessitura. È il suo habitat, quello che Wyatt ha costruito trent’anni prima.

Certo Rock Bottom ha tutt’altro spessore ed un altro senso, ma Björk ha attinto a piene mani dall’insegnamento di Robert – esasperando l’idea sublimata in Rock Bottom – in un climax ansiogeno e emotivamente coinvolgente, nel quale la lingua inventata da Wyatt è sostituita talvolta dall’islandese; l’elettronica accantonata a favore di sovrastrutture vocali adoperate come segnatempo o strumenti, campionate e rese coro nel quale Björk è la voce solista (senza cadere nel tranello del cliché a cappella). Medùlla, è il midollo del nostro mazzamurello islandese [nel vero senso della parola, medulla è midollo in latino ndr], la sua idea pura e sacra di musica.

“Fanculo ai synth, agli archi e all’orchestra! Farò un album solo di voci!”

Vibra nell’aria tanto quanto l'”Eureka!” gridato da Archimede alla scoperta della spinta idrostatica. Proprio così, Björk scopre – grazie all’aiuto dei Matmos (il duo californiano col quale ha collaborato il nostro mazzamurello islandese in Vespertine Medùlla) – che la privazione aggiunge spessore alle tracce più di quanto gli strumenti le arricchiscano. La conseguenza è stata una progressiva ossessione per ogni tipo di suono vocale, seguita dalla necessità di spogliare i brani delle vesti elettroniche e musicali privilegiando un’idea differente (che poi cioè non è che sia propriamente così, visto che per Where Is The LineVokura si è ispirata a Bohemian Rhapsody… quindi ha spogliato i brani per vestirli diversamente).

Ed è qui che entra in gioco il team di sviluppo.

Alt! Piccola premessa: uno dei pregi nella carriera di Björk è stato quello di ricreare un ambiente creativo cosmopolita, nel quale ognuno fosse in grado di esprimere il meglio di sé, l’esperienza personale tracima la competenza. Una tecnica molto vicina a quella di Brian Eno, qui però non si nobilita l’errore bensì viene assecondata l’emozione:

“Ho utilizzato metodi diversi, a seconda della persona che avevo davanti, ma di base ho incoraggiato tutti ad esprimere loro stessi, immaginando fossero delle linee di basso o dei loop di percussioni. Ho anche richiesto al coro islandese di essere un insetto, un uccello o altre creature antiche. La difficoltà si è palesata una volta seduta davanti al computer, quando non avevo idea di cosa editare o meno”.

Percepibili le mille anime nel disco, registrato di luogo in luogo tra una sosta e l’altra, raccogliendo contributi da artisti del calibro di Mike PattonRazhelTagaq Wyatt. Proprio con quest’ultimo Björk registra due brani nella sua casa londinese, alla presenza della mitica Alfie “incredibile! Abbiamo messo a punto il suo studio, registrato un paio di tracce [Submarine e Oceania ndr] e chiacchierato tutta la notte bevendo del vino rosso. Mi ha suonato qualche bebop di Sun Ra di inizio anni ’60, mentre io ho messo un po’ di DAF e qualche brano di Brian Eno dal mio laptop. È stata un’esperienza fantastica e mi sono sentita fortunata di aver incontrato lui ed Alfie. Sono entrambi delle persone ricche di talento e hanno creato il loro piccolo universo distante dal resto del mondo”.

Medùlla è un azzardo del nuovo millennio, un tentativo di riproporre lo sperimentalismo degli anni ‘70 – gradito a fasi alterne all’epoca – ad un pubblico più distratto per definizione, violentato da input di ogni tipo; Björk riesce in un approccio più pop e trasversale rispetto a Rock Bottom, nel quale l’esistenzialismo e la filosofia di Wyatt domina il disco. In parole povere Björk, essendo (stata) icona della scena underground-indipendente, riesce ad arrivare a più persone in confronto a quanto Wyatt sia riuscito in passato.

Blonde Redhead – Melody of Certain Damaged Lemons

Blonde Redhead - Melody Of Certain Damaged Lemons

Se vi dicessi che sto scrivendo questo articolo perché Evil Morty mi ha suggerito di farlo? 

Non credo delegittimerebbe la scelta effettuata, anzi, trattasi di un’epifania che ben si incastona nel ciclo di articoli previsti. For The Damaged Coda, è un brano che esiste e non esiste, nascosto nella penombra, seppur non figuri nella tracklist chiude Melody Of Certain Damaged Lemons, riprendendo la splendida melodia di For The Damaged e di Equally Damaged (ad apertura del disco).  

Ricapitolando, prima di cominciare con la lettura vi consiglio di raccogliere più Schmeckles possibili e farvi una bella scorta di salsa szechuan (se vi state facendo delle domande sulla mia salute mentale, siete voi quelli sbagliati… e cominciate a guardare Rick & Morty, pezzenti!). 

Per chi non lo sapesse i Blonde Redhead – a dispetto del nome (preso in prestito dal brano dei DNA di Arto Linsday) – sono un gruppo che più italiano non sì può, i gemelli Pace intraprendono il progetto con la cantante Kazu Makino stabilendo un sodalizio che ancora oggi continua, oltre che dai risultati indiscutibili.  

Ho deciso di scrivere a proposito di Melody Of Certain Damaged Lemons in quanto è il disco – che assieme al successivo Misery Is A Butterfly – segna il cambio di rotta fisiologico della band, la morbidezza a scapito delle spigolosità sonore, ma soprattutto i Blonde Redhead vengono finalmente riconosciuti come un gruppo con la propria identità, non più il clone dei Sonic Youth 

“È innegabile, come ho già detto, che Melody of Certain Damaged Lemons, come Misery Is A Butterfly siano stati fondamentali nella nostra storia […]” ricorda Amedeo Pace, questi album hanno generato un ricambio di pubblico (non che i gemelli Pace e l’esimia Makino si concentrino sul pubblico quando pensano musica)” Forse alcuni di quelli che ci seguivano prima di quei due dischi, parlo di gente appartenente a una certa scena, quella dei Fugazi, [lo storico produttore dei Blonde Readhead è Guy Picciotto, nonché storico chitarrista dei Fugazi ndr] appunto, ma anche quella più legata al noise rock, in quel momento hanno smesso di farlo e sono arrivati nuovi ascoltatori. La nostra musica ha smesso di essere essenzialmente ‘americana’ ed è diventata più europea. Però, insomma, noi facciamo il nostro percorso, disinteressandoci di quello che pensa il pubblico”. 

Melody of Certain Damaged Lemons si lascia avvicinare ed ascoltare, i Blonde Redhead sono ammansiti facendosi ascoltare anche da chi è lontano  – o digiuno – dai loro precedenti lavori. Se non avete mai ascoltato questi ragazzi, sicuramente Melody rappresenta il disco adatto per muovere i primi passi nel loro mondo, lasciandosi portare per mano da Kazu Makino e dalla sua voce dolce, rispettosa, tipicamente asiatica.  

E poi con un nome del genere, non credo che il vostro senso di ragno per la curiosità non titilli un minimo. A sentire Kazu damaged lemons è un gergo per intendere le macchine in panne in autostrada “è come per le nostre melodie, che necessitano di essere espresse ma rischiano di fermarsi da un momento all’altro”, un parallelismo che indica come talvolta i processi creativi della band si ingolfino per la troppa foga di esprimersi o per un guazzabuio di idee da fetare (un problema affrontato per necessità nel successivo Misery Is A Butterfly, ma questa è un’altra storia). 

Non vorrei tediarvi ulteriormente, mettete su Melody of Certain Damaged Lemons così che possa salutarvi con un sonoro 

Wubba Lubba Dub Dub! 

 

P.S. le interviste presenti nell’articolo sono tratte dall’articolo web di Emiliano Colasanti per Rolling Stones (19 Luglio 2016) e di Maurizio Narciso per Rumore (14 Luglio 2016) 

Godspeed You! Black Emperor – Lifting Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven

GodSpeed You! Black Emperor - Lifting Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven

I maligni penseranno che io abbia scelto i Godspeed You! Black Emperor ed il loro disco Lifting Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven per scrivere un articolo di 3 paragrafi dove il nome della band è scritto 6 volte ed il nome del disco viene nominato almeno 12 volte (per chi non lo sapesse, il nome della band è un tributo al film omonimo del 1976 di Mitsuo Yanagimachi).

Come si dice a pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina, che non è il nome di un nuovo disco dei Godspeed, bensì un detto che non passa mai di moda. Quindi ammetto le mie colpe, ma vi prometto che abbrevierò ove possibile nome e titolo per offrirvi più ciccia possibile su questo album meraviglioso del 2000.

È strano come il 2000 talvolta mi sembri più lontano degni anni ’90, ma non vorrei aprire l’ennesima parentesi al terzo paragrafo, perciò lasciamo le impressioni nella scatolina del nostro cuore e concentriamoci sul secondo album dei Godspeed, un muro invalicabile per chi non è abituato ad ascoltare brani oltre i 4 minuti di durata. L’ensemble canadese di 9 musicisti ci delizia con 4 suite musicali – fatta eccezione per qualche voce campionata qua e là, volta a lanciare strali nei confronti dei politicanti [che difficilmente avranno ascoltato mai quest’album ndr] – della durata media di 22 minuti, non proprio le composizioni adatte da ascoltare nel tragitto per andare a lavoro.

Ogni suite può essere suddivisa in più movimenti che – nella maggior parte dei casi – sono ben amalgamati con il resto della composizione, in altri, presentati con una rottura più che voluta. Vi risparmio i titoli, altrimenti ne usciamo scemi.

I brani tendenzialmente sono caratterizzati da una grande capacità nel far coesistere diversi strumenti e sonorità, partendo lentamente per poi crescere, riuscendo a distinguere però tutte i soggetti musicali che intervengono. È un disco che suona strabene oggi, così come quando è uscito, alcuni critici hanno cercato di imbrigliarlo all’interno di termini quali post-rockshoegaze.

La verità è che questo disco è liquido, sinuoso, spazia tra più idee musicali, in una meravigliosa comune della musica “Se qualcuno volesse entrare, basta che sappia suonare uno strumento e che sia a posto, può entrare”, spiega Efrim Menuk (il fondatore del gruppo con Mauro Pezzente e Mike Moya, decretato dai fan come leader della band, ruolo che non sente suo [perdonate ma sarei diventato più scemo di quel che sono se avessi incluso all’interno della scheda l’avatar pixellato di ogni componente, non me ne vogliate ndr]).

L’improvvisazione fa da padrona (logico che i Godspeed cerchino in tutto e per tutto di evitare l’effetto melma dato dalla cattiva armonizzazione di più strumenti, rischio facilmente percorribile in ensamble basate sull’improvvisazione), ma il focus è sempre chiaro, seminare concetti musicali ed ideologici nel fertile campo degli sparuti ascoltatori.

Che poi non so mica quale dei due venga colto principalmente.

St. Vincent – Marry Me

St Vincent - Marry Me.jpg

St. Vincent è sorprendente, strepitosa, e il suo disco d’esordio – a dieci anni dalla pubblicazione – suona ancora meravigliosamente attuale.  

Cresciuta musicalmente da delle nostre conoscenze – come Zappa (apprezzato verso i quindici anni), Jethro Tull e King Crimson (qualche anno prima rispetto a zio Franco) – ha ridefinito in parte il canone del songwriting femminile moderno, utilizzando sapientemente chitarra e pedaliere, arpeggi, echi e vibrati che esaltano la voce di Annie Clark 

Un disco che musicalmente è decisamente ben strutturato, grazie anche alla presenza di turnisti navigati, tra i quali il piano di Mike Garson (sentitevi il piano di All My Star Alligned e ditemi se non vi viene nostalgia di Aladdin Sane). 

“Solitamente quando comincio a scrivere le canzoni, sono un groviglio. È molto difficile che mi sbilanci dall’inizio ‘questi accordi sono giusti e ci costruirò una canzone sopra’. Credo che se sin dall’inizio si parte dal dettaglio, dalla minuzia, sarà più facile applicare un procedimento frattale che di fatto… può innescare ulteriori idee.” 

Questa affermazione dimostra una lucidità e uno studio certosino celato dietro la creazione di nuovi brani, che si può intravedere molto facilmente nella struttura complessa di Marry Me, album nel quale si alternano in maniera ponderata brani apocalittici – come Your Lips Are Red e Paris is Burning – a ballate sognanti da prom – Marry MeAll My Star Alligned e What Me Worry su tutti – passando per ritmi da bossanova nella scanzonata Human Racing. 

I brani hanno subito nel corso degli anni un’evoluzione – così come il processo di songwriting – grazie alle performance live sostenute nel tempo; in principio tutto ciò che è finito su Marry Me è quello che Annie ha creato nella propria stanzetta e catturato con il suo MacBook Pro. Paris Is Burning, per esempio, è nata dopo un periodo speso nella capitale francese, periodo nel quale la canzone è stata composta ma mai eseguita dal vivo, difatti si percepisce l’incertezza durante i primi live, salvo poi crescere di spessore. 

In Marry Me si canta di apocalisse e i riferimenti alla religione nei brani non mancano, a partire dal nome che Annie si è data: St. Vincent. “Il nome deriva da una canzone di Nick Cave [There She Goes My Beautiful World ndr] nella quale fa riferimento all’ospedale dove morì il poeta Dylan Thomas, il St. Vincent hospital. […] In generale sono cresciuta in un ambiente composto da varie religioni, perciò la religione fa parte di me. Tutto – dal fondamentalista cattolico al seguace del guru spirituale indiano fino all’Unitariano universalista – tutto in una famiglia.  Credo che l’aspetto familiare sia più forte di qualsiasi altro dogma.” 

Il titolo del disco -ripreso anche nella title-track – è un messaggio che Annie manda a sé stessa ma anche un commento nei confronti della mondanità, una considerazione al primo quarto di secolo (e al ticchettio dell’orologio biologico) compiuto da Annie all’epoca dell’uscita del disco. “Credo che il mio romanticismo riguardo queste cose sia reale tanto quanto il sarcasmo che mi provocano” 

Ciò che mi piace da morire di Annie Clark è la sua spiccata capacità nel rielaborare le differenti sfaccettature musicali che hanno modellato il suo credo musicale, è come se fosse riuscita a shakerare The Ronettes, Little Eva, Syd Barrett, David BowieKate Bush con tanti altri gruppi a cavallo tra anni ‘90 e primi 2000, riesce a far sembrare normale sentire il fuzz della chitarra sopra a gorgheggi e cori. Le percussioni giocano un ruolo fondamentale in molti brani insieme ad un uso sapiente della voce e della chitarra – suonata in maniera tanto feroce quanto efficace da Annie Clark. 

Tanto per darvi un altro riferimento musicale di St. Vincent, il disco si conclude con una cover di These Days, brano scritto per Nico da Jackson Browne, vero e proprio capolavoro di scrittura.  

The White Stripes – Get Behind Me Satan

The White Stripes - Get Behind Me Satan.jpg

Vade Retro Satanasso! 

Quant’erano fighi i White Stripes? Hanno fatto tante cosine interessanti dal mio punto di vista, poi non significa che uno le apprezzi tutte eh! Però molte intuizioni sono state intriganti e Get Behind Me Satan è uno dei dischi pescati dalla discografia loro che ne raccoglie di belle. 

Voi direte “che c’entrano i White Stripes con questo ciclo di pubblicazioni?”… cazzo ne so, mi piaceva buttarli dentro però. 

Prima di tutto possiamo notare come in questo disco sia cominciato il processo di lievitazione naturale e dilatazione di Jack White, sempre più imbolsito e col capello unto alla Johnny Depp (più sozzo), ma comunque dobbiamo dire che all’epoca manteneva ancora una dignità (nonostante le unghie sporche). Poi ha cominciato a inserire fica su fica nei videoclip e – con la ciccia che cresceva – ha perso un po’ di credibilità, soprattutto perché non gli cresce la barba come Cristo comanda e cerca di farla crescere comunque… io odio un po’ questa gente che ha tipo dei peli pubici sul mento, brutti e spettinati, lasciando poi le guance nude a mo’ di culo di bambino pingue. Vabè chiudo la polemica tra me e il sottoscritto. 

Entriamo nel merito del disco, un lavoro che assume una dimensione differente rispetto ai precedenti lavori, l’uso di differenti strumenti offre uno spettro di sonorità più ampio, esempio lampante è la sorpresa che JackMeg White ci riservano al proprio interno, una citazione del più grande successo, quella Seven Nation Army inno multinazionale, ri-arrangiata alla marimba per l’occasione in una nuova canzone: The Nurse. 

Get Behind Me Satan ha tutti i limiti esposti bene in vista, questo mettersi a nudo consente di apprezzare il lavoro in toto, senza soffermarsi troppo su dettagli o imperfezioni (figlie dell’approccio dei White)… nel pieno spirito arruffone della band, il disco è stato registrato tra le scale ed il foyer di casa di Jack White – all’epoca già separato sentimentalmente da Meg White) – e Little Ghost sembra richiamare le atmosfere dell’America rurale a cavallo tra ‘800 e ‘900 dove il banjo ed il whiskey regnavano sovrani tra le spighe di grano. 

Il riferimento all’America di inizio XX secolo non è casuale, l’uso del pianoforte da un tocco di ragtime in molti dei brani nel disco come nel brano che prediligo dell’album, lo splendido spot di Passive Manipulation (interpretato timidamente da Meg), quasi in controtendenza con la magnifica Blue Orchid, primo singolo estratto dall’album e dalle sonorità pesanti (con lo splendido e visionario video diretto da Floria Sigismondi) o con il blues di Instinct Blues (altro ammiccamento alla cultura americana nonostante le derive di zeppeliana memoria come per Red Rain).  

Sì perché nella maggior parte dei casi ci troviamo dinanzi un disco da sonorità che incidono con decisione, dettate da un ritmo compassato, “sono stato in tour per un anno e mezzo e non ho avuto modo di scrivere nulla, a due mesi dalla registrazione di Satan non avevamo ancora nulla in mano. Semplicemente giro per casa, vado al piano, mi siedo e la prima cosa che viene fuori cerco di trasformarla in una canzone”, questo spiega in parte la presenza massiccia del piano all’interno del disco, così come spiega il legame di tantissime canzoni con la cultura Americana, negli stilemi di quegli stati del sud fortemente connotati dal gospel e dal ragtime. 

E come sempre giungo alla fine che dimentico qualcosina, sarebbe delittuoso a questo punto non citare la splendida The Denial Twist, con l’assurdo videoclip girato da Michel Gondry – che vede la presenza di Conan O’Brien – dove ci sono dei continui cambi di prospettiva (basata sul concetto della stanza di Ames) cercando di interpretare visivamente quanto la canzone stessa intende: ovvero che ciò che la gente crede sia vero il più delle volte è distorto dal contesto, da chi comunica il messaggio e della sua credibilità, dalla situazione in cui si trova il ricevente ed il mittente, dal metodo di comunicazione, oltre che dai vari agenti esterni alla comunicazione stessa. Così il cambio repentino di prospettiva vuole indicare che la percezione è soggettiva e varia a seconda di come la si interpreta.  

Beirut – The Flying Club Cup

Beirut - The Flying Club Cup

Capita talvolta di venir rapito da particolari suoni, come quando d’inverno sei steso sul divano e di punto in bianco sentì risuonare a distanza la zampogna, con quelle note così riconoscibili, e automaticamente il sorriso si stampa sul volto.

Così è successo per quest’album dei Beirut, assolutamente nulla di indimenticabile, non aggiunge nulla a ciò che c’è in giro, ma entra dentro e tocca le corde giuste. Lo fa sulla base di quella globalizzazione musicale crescente, una contaminazione che strizza l’occhio più frequentemente ai suoni tzigani, balcani e all’Europa di un tempo, quella dei primi del ‘900, degli sfarzi e delle bande. In tutto questo si stabilisce The Flying Club Cup (un incrocio tra Lol CoxhillYann Tiersen e Goran Bregovic), in un ciclo di Pillole caratterizzato da stili musicali simili, tra il malinconico e melodie – in alcuni casi acchiappone – che penetrano con convinzione nell’ascoltatore.

L’esempio di Yann Tiersen non è casuale, è persistente l’impronta francese, la canzone in apertura è dedicata alla città di Nantes e quell’incedere ipnotico all’organo sembra preso in prestito proprio dal compositore francese.

Ciò che traspare dall’intero disco è l’amore smodato che Zach Condon prova per la Francia e la sua capitale, nella quale il cantautore si è trasferito “in fase creativa ho ascoltato tantissimo Jacques Brel e la musica degli chansonnier francesi, canzoni popolari avvolte da arrangiamenti meravigliosi, e quest’aspetto per me era quasi del tutto sconosciuto. Perciò ho acquistato nuovi strumenti con i quali non avevo tanta confidenza, come i corni francesi e l’eufonio, continuando con gli ottoni e le trombe, lavorando con fisarmonica e l’organo”.

La sensazione che gli ottoni e gli strumenti a fiato – in generale – offrono è quella di ascoltare una banda d’altri tempi, un po’ come avviene per i Neutral Milk Hotel, che tramite arrangiamenti evocativi e il sapiente uso di più strumenti garantisce un impatto sonoro di spessore ed estremamente piacevole, seppur con sfumature emotivamente meno importanti rispetto ad In The Aeroplane Over The Sea.

C’è un’altra analogia tra il lavoro marcato da Jeff Mangum e quello di Zach Condon, l’artwork scelto per la copertina dell’album è molto simile, seppure nel caso dei Neutral si tratti di una cartolina illustrata e in questo di una fotografia (con in primo piano una donna ben vestita a ridosso di una spiaggia). Condon, spiega la scelta del nome dell’album a rafforzare l’influenza retrò subita dal leader della band “Guardando ad inizio ‘900… a Parigi veniva organizzato un festival per le mongolfiere – l’album è stato intitolato così dopo aver visto una foto veramente bizzarra del 1910. È uno dei primi scatti a colori mai eseguiti prima, alla fiera mondiale, e mostra tutte queste vecchie mongolfiere pronte al decollo dal centro di Parigi. Credo sia una delle immagini più surreali che abbia mai visto”.

Vi consiglio di ascoltarlo qualora non l’aveste fatto prima… ripeto, nulla di eclatante ma è estremamente godibile e discretamente più leggero rispetto a dischi come Failing Songs e In The Aeroplane Over The Sea (con atmosfere in parte proposte anche dai Black Heart Procession in 2) che hanno sonorità molto in linea con quelle espresse dai Beirut.

Sufjan Stevens – Illinois

Sufjan Stevens - Illinoise

Oggi provo a raccontarvi un disco estremamente complesso, ambizioso e pieno di spunti intriganti. Sufjan Stevens è una delle figure più valide della scena musicale contemporanea, non si limita al compitino, osa, con tutto quello che ne consegue: grandi intuizioni e qualche passaggio a vuoto.

Illinois nelle sue 22 tracce si impone al pubblico, facendosi notare, raccogliendo critiche positive e contribuendo ad alimentare la leggenda secondo la quale – dopo Michigan del 2003Stevens avrebbe deciso di comporre un disco per ogni stato americano. La strada è lunga…

“È solamente uno scherzo” ci tiene a precisare Stevens, quasi rincuorando chi lo avesse preso sul serio, l’idea di fondo non sarebbe stata nemmeno malvagia, cantare di fatti o di persone che hanno caratterizzato la storia di un particolare stato… come fa in Illinois e nelle sue canzoni dal titolo improbabile ed infinito (uno a caso The Black Hawk War, or, How to Demolish an Entire Civilization and Still Feel Good About Yourself in the Morning, or, We Apologize for the Inconvenience but You’re Going to Have to Leave Now, or, ‘I Have Fought the Big Knives and Will Continue to Fight Them Until They Are Off Our Lands!). Per praticità eviterò di scrivere altri titoli del genere, altrimenti finirei di fatto l’articolo semplicemente citando i brani😀

Illinois parte spedito, con fanfare meravigliose e ragtime anni ’30, per poi rallentare ad una più rassicurante velocità di crociera, apparentemente senza sussulti per un orecchio distratto. Oibò! Non cadete in codesto tranello, poiché una volta assimilato il disco e accettata la sua struttura, prestando attenzione ci si imbatterà in tante piccole gemme delicatissime, riferimenti su riferimenti all’imprinting musicale di Stevens, ogni canzone ha degli arrangiamenti spettacolari – estremamente complessi – si ha l’impressione di ascoltare delle micro colonne sonore [a tal proposito, il prossimo ciclo riguarderà in parte questo discorso ndr]

Quante volte ascoltando Illinois ho avuto la sensazione di vivere una scena di un film, di compiere un viaggio all’interno dello stato americano; ha delle atmosfere da sogno nelle quali è facile perdersi. La ricerca, lo studio di libri, documenti e storie sull’Illinois, la necessità di trasmettere la propria visione genuina di uno stato e dei suoi elementi distinguibili, conducono all’immedesimazione nel clima di festa dell’expo del 1893 [per i 400 anni dalla scoperta dell’America da parte di Colombo ndr] descritta in Come On! Feel the Illinoise! [titolo che prende spunto dalla canzone di Slade del 1973 Cum On Feel The Noize, giocando sulle parole Illinoise e Feel The Noize. Sufjan si è giocato la carta dell’assonanza per intitolare l’album e creare scompiglio in tutti gli ascoltatori che non sanno se il titolo dell’album è Illinois o Illinoise ndr] e che ha il celebre refrain di Close To Me dei The Cure a tributare uno dei radi slanci di gioia di Smith.

“Uso la formula dello short story: attenzione ai dettagli, linguaggio sensoriale, scenari, sviluppo dei personaggi. Talvolta penso che ogni canzone abbia un punto di conflitto, una crisi, un climax e un punto nel quale si rivela tutto quanto. Questa è sicuramente una struttura letteraria. Ma forse è perché appartengo alla vecchia scuola”, non ci sono dubbi che la metodologia di scrittura di Sufjan sia incline alla narrazione, questo spiega la scelta di titoli estremamente narrativi e le canzoni talvolta dilatate.

“Per quanto grande possa apparire questo disco, posso assicurarvi che è stato accuratamente tagliato. Era essenziale avere un particolare punto di vista che conciliasse ogni elemento all’interno di questa visione. Perciò molto è stato scartato. Ho ignorato tutti i temi popolari, ho cercato di cantare di Springfield, Pittsfield, il lago Carlyle. Cose che non c’entravano col resto dell’album e sono state scartate”. È forse questa la magia di trovare nell’artwork Al Capone con Superman che si stagliano di fronte lo skyline di Chicago, un’illustrazione che per beghe legali è stata ritoccata più volte, sino a rimuovere l’uomo dal mutandone sopra al pantalone e sostituirlo con dei palloncini rossi e blu. Quello stesso Superman citato in The Man Of Metropolis Steals Our Heart, nella quale Metropolis (città dell’Illinois autoproclamatasi città di Superman) è il teatro delle avventure di Nembo Kid, il Gesù del secolo scorso, il salvatore dell’umanità in una chiave di lettura molto cattolica ed estremamente cara alla DC ai fini narrativi.

Capite da voi che questo disco non poteva mancare in questo gruppo, anche se forse le sensazioni di gioia che trasmette in alcuni brani va un po’ in controtendenza con altri lavori trattati, decisamente più abbacchiati e tetri. In comune c’è l’approccio lo-fi, un registratore a 8 tracce che Sufjan è solito portare in studio con sé… nessun ingegnere del suono, nessun parametro pre-impostato, solo lui, gli strumenti ed il registratore ad 8 tracce.

Il fai da te come missione, forse per questo motivo Illinois mi sembra ancora di più accattivante, perché dietro ad arrangiamenti complessi, quasi rari visti i tempi che corrono, Sufjan si mette la mano sulla coscienza e compone un potpourri dal profumo inebriante: “Ho studiato l’oboe alle superiori […]. La maggiorparte di ciò che ho studiato è musica barocca, classica, ed il repertorio per oboe è interessante. Ho suonato molto con quintetti e fiati, ho ascoltato musica barocca per molto tempo. Recentemente mi sono imbattuto in Stravinskij, Rachmaninov e Grieg. Credo che parte dei miei arrangiamenti provengano da lì e da influenze minimali quali Terry Riley, Steve Reich e Phillip Glass“.