
Ciclicamente, di epoca in epoca, torna prepotente una domanda ad affacciarsi nella società: l’era del cinghiale bianco tornerà?
Voglio bene a Battiato [voglio bene a chiunque sigh ndr], ma voglio ancora più bene a questo disco: per la canzone che gli dà il nome, per la copertina, per Luna Indiana.
In tutto questo partiamo da un dato di fatto… ascoltare Battiato non è complicato; capirlo è invece dote non da tutti.
Non è difficile ascoltarlo perché la durata media di un disco – di inizio carriera – del Maestro si aggira sui trenta minuti e le canzoni presentano un’orecchiabilità invidiabile ai principali compositori contemporanei.
La comprensione invece passa attraverso: i diversi ascolti, la voglia di recepire e apprendere tutti gli indizi disseminati in ogni frase, le metafore e la presentazione di vari personaggi inseriti qua e là con leggerezza apparente. Soggetti che nel corso degli anni assumono lo status di icone solo per aver guadagnato un posto nelle canzoni di Battiato.
L’Era Del Cinghiale Bianco in fondo inaugura proprio questa tendenza di Battiato di costruire testi che sono dei giochi a incastro, con ammiccamenti sfacciati alle culture arabo/orientali. Una capacità – palesata ad esempio – con Strade dell’Est – di metterti una voglia fottuta di viaggiare dai balcani fino all’estremo oriente, solo perché senti pronunciare al Maestro nomi esotici e parole a cazzo un po’ qua e un po’ là.
Mentre il suo conterraneo Pippo Baudo lo trattava come un povero imbecille durante un’intervista promozionale in Rai, ci pensava Mr. Fantasy ad introdurlo degnamente nel 1979: “sensibile a sé stesso, cioè alle cose misteriose di questo strano pianeta”. E Battiato figura proprio come uno studente curioso e diligente, che vive fagocitando nozioni, cercando risposte alle innumerevoli domande che lo affliggono nel quotidiano, le cui risposte inserisce all’interno delle proprie canzoni. Si erge a sacerdote moderno e guida spirituale di “un mondo di cui si sente la presenza ma di cui si perde la vista”.
E allora L’Era Del Cinghiale Bianco, quella dell’inizio degli anni ‘80, è l’era dell’assoluta conoscenza spirituale. Se Huxley e Il Nuovo Mondo hanno influenzato Fetus, qui c’è lo zampino del filosofo francese René Guénon, filosofo nominato in Magic Shop, che nel saggio Simboli della Scienza Sacra illustra il ruolo esoterico del cinghiale, animale simbolo della mitologia celtica e indù. Proprio in quest’ultima, il cinghiale rappresenta uno degli avatar di Vishnu.
Siamo già in quel momento in cui dovete decidere se volete capire quello che il Maestro dice o muovere solamente le chiappette seguendo il ritmo di Tullio De Piscopo e del violino di Giusto Pio. Non c’è nulla di male, ma assicuro che dopo un po’ di ascolti la necessità di scardinare l’ermetismo del nostro caro Battiato premerà forte sulla vostra cervicale e proverete un gusto sadico nello scoprire i riferimenti disseminati.
Sarà lì che scoprirete come Magic Shop racconta della deriva spirituale e consumistica di una società che si lascia abbindolare da falsi miti, o di come Il Re Del Mondo sia il protettore della terra, capace di sostenere la vita nel pianeta reggendone le sorti a scapito del libero arbitrio degli ignari abitanti (“ma il Re del Mondo ci tiene prigioniero il cuore”). Anche questo brano affonda le proprie radici su René Guénon che ha editato l’omonimo testo nel 1927.
A proposito di Guénon, ho dimenticato di scrivere [o forse l’ho già scritto ma non me lo ricordo… ma sono troppo pigro per scorrere la rotella del mouse e rileggere le righe sopra. Bon, in caso repetita iuvant ndr] che tra i più aspri critici della sua dottrina filosofica vi era quel gran fetentone di Umberto Eco, so much love for him <3.
Uno spazio importante è dedicato alla sacralità quella di Luna Indiana, punta di diamante del disco, resa celebre grazie anche dalla versione di Alice [alla quale personalmente preferisco i gorgheggio sul filo della stonatura del nostro Maestro ndr] e la preghiera meravigliosa di Pasqua Etiope con il Kyrie Eleison che risuona e se la batte a modo suo con la preghiera di Judee Sill in The Donor.
Una sacralità che sfocia poi nella poesia laica di Stranizza d’Amuri, una delle poche canzoni scritte e cantate in siciliano da Battiato, che ricorda il periodo della guerra nella sua terra natia, o meglio, l’amore ai tempi della guerra, di come “anche se fuori si muore, non muore questa stranezza d’amore”, che fa montare dei lucciconi belli grossi sugli occhi dell’ascoltatore e una pelle d’oca non indifferente.
Ecco ora sono emozionato e non so come chiudere questo articoletto infinito su Battiato, pertanto vi lascio con una delle più belle dichiarazioni d’amore, da ricicciare a piacimento, che si possano fare ad una persona amata:
Man manu ca passunu i jonna
sta frevi mi trasi ‘nda ll’ossa
ccu tuttu ca fora c’è a guerra
mi sentu stranizza d’amuri
l’amuri.