Giuni Russo – Mediterranea

Se mi chiedessero l’esempio pratico di cosa sia una prigione dorata, racconterei il contratto di esclusiva che lega Giuni Russo con la CGD [la casa discografica di Cerruti il quale, inizialmente, per quanto convinto dalla voce di Giuni non la mette sotto contratto ndr]. 

Si tratta di ben 5 dischi da registrare in 5 anni.  

Ritmi complessi da sostenere, in termini quantitativi e soprattutto qualitativi.  

 
Ahimè l’estensione vocale di cinque ottave, si presenta come un biglietto da visita ingombrante per Giuni Russo, che a differenza di Demetrio Stratos (altra nostra eccellenza), è stata trattata come un fenomeno da baraccone: “donna dalla voce unica relegata a cantare hit frivole”. Un’etichetta ingombrante anche perché, come Battiato ci ha insegnato, anche Giuni Russo è stata capace di districarsi liberamente dal registro serio a quello ironico, anche all’interno dello stesso brano (a differenza di Alice che risulta più impostata).  

Ad esempio in Mediterranea, si era diffuso il pensiero tra pubblico e critica che la mano invisibile di Battiato agisse con costanza nella stesura di testi e nella produzione musicale, un regista occulto abile nel nascondersi sotto gli pseudonimi di TripoliFaffner. A dirla tutta, Mediterranea è il primo disco nel quale Giuni Russo si emancipa completamente da Franco Battiato, dopo la parentesi di Energie, in Vox è cominciato il taglio del cordone ombelicale che si è poi definito in Mediterranea

Tripoli non è un alias, ma semplicemente il vero nome di Beppe Tripoli, truccatore della Russo; mentre Faffner è l’alter-ego del satiro della musica italiana, quel Mario Luzzatto Fegiz che – in quel periodo si prodigava nel rilasciare considerazioni e commenti abrasivi in Mr. Fantasy – trova il coraggio di schierarsi dall’altra parte della barricata. Da giudice a giudicato, sceglie il nome del suo primo gatto per non attirare su di sé le ire di chi era solito subire le sue critiche.  

Ad essere precisi. la collaborazione tra i due è già stata messa in piedi nel precedente Vox, ma il testo di Una Sera Molto Strana è tutta nata dalla sua penna tagliente, cercando di fermare su carta le impressioni di una giornata spesa a Trieste con il pensiero volto alla Polonia e la rivolta di Danzica

In questo disco Giuni Russo batte nuove strade e si dedica – con modesti risultati – alla asfissiante situazione estera e al corrispettivo clima creato anche dai mass media con Demenzial Song. Il tentativo è confuso, ciò che ne risulta è un mischiettone plasticoso e greve che, in un certo senso, ben riflette il peggio degli anni ‘80. Effettivamente, è un clima apocalittico quello che ritroviamo anche in Una Sera Molto Strana, capace di trasformarsi in un trionfo kitsch, barocco e baritonale nel quale si possono scorgere delle angoscianti radici metal. 

Fortunatamente sono gli unici due brani invecchiati veramente male, mentre i picchi del disco restano molti, tra i quali la tripletta sottoposta ad inizio disco. 

 
Mediterranea è la colonna sonora di un sogno estivo ad occhi aperti: un brano sinestetico, che lascia sentire la sabbia fresca sotto i piedi e la brezza marina che ci accarezza durante una passeggiata notturna in riva al mare. Mediterranea risulta un brano dalla sorprendente profondità, trasmettendo sensazioni che si fondono in un caleidoscopio di emozioni e che Giuni ha difeso con le unghie e con i denti affinché fosse il cavallo sul quale puntare per la promozione del disco (contro il parere della produttrice Caterina Caselli che insisteva sull’ammiccante e Limonata Cha Cha). Esula dal cliché del tormentone estivo, al quale è stata accomunata Giuni Russo, ed è capace di restituire un sentimento che risveglia anche con Le Contrade di Madrid

Con Champs-Élysées e Keiko mostra a tutti gli ascoltatori l’affinità con Battiato nel citazionismo e nella capacità di farci immedesimare, con l’immaginazione, in luoghi lontani nel mondo pre-globalizzato. Con l’umiltà di comprendere il labile confine tra appropriazione e rispetto culturale. Tra l’altro Keiko è un tributo, rispettoso e rielaborato, di Incacho di Yma Sumac, mostrando la grande tangenza stilistica e vocale con la dea del canto peruviana. 

Battiato ricordava Giuni Russo come un talento naturale sbalorditivo, in grado di far coincidere la potenza vocale alla sensibilità musicale, senza essere grossolana ma trasmettendo tutte le nuance della voce. Trovo sacrilego, pertanto, relegare Il talento di Giuni Russo alle canzoni estive e basta: è superiore e scardina i cliché. Ma se queste “canzonette” [ah ce ne fossero di canzonette così ndr] servissero a rivalutare la discografia di Giuni Russo, le reputo un’arma bianca legittima e funzionale.  

Buon Mediterranea

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Franco Battiato – L’Era Del Cinghiale Bianco

Ciclicamente, di epoca in epoca, torna prepotente una domanda ad affacciarsi nella società: l’era del cinghiale bianco tornerà? 

Voglio bene a Battiato [voglio bene a chiunque sigh ndr], ma voglio ancora più bene a questo disco: per la canzone che gli dà il nome, per la copertina, per Luna Indiana

In tutto questo partiamo da un dato di fatto… ascoltare Battiato non è complicato; capirlo è invece dote non da tutti. 

Non è difficile ascoltarlo perché la durata media di un disco – di inizio carriera – del Maestro si aggira sui trenta minuti e le canzoni presentano un’orecchiabilità invidiabile ai principali compositori contemporanei. 

La comprensione invece passa attraverso: i diversi ascolti, la voglia di recepire e apprendere tutti gli indizi disseminati in ogni frase, le metafore e la presentazione di vari personaggi inseriti qua e là con leggerezza apparente. Soggetti che nel corso degli anni assumono lo status di icone solo per aver guadagnato un posto nelle canzoni di Battiato

L’Era Del Cinghiale Bianco in fondo inaugura proprio questa tendenza di Battiato di costruire testi che sono dei giochi a incastro, con ammiccamenti sfacciati alle culture arabo/orientali. Una capacità – palesata ad esempio – con Strade dell’Est – di metterti una voglia fottuta di viaggiare dai balcani fino all’estremo oriente, solo perché senti pronunciare al Maestro nomi esotici e parole a cazzo un po’ qua e un po’ là. 

Mentre il suo conterraneo Pippo Baudo lo trattava come un povero imbecille durante un’intervista promozionale in Rai, ci pensava Mr. Fantasy ad introdurlo degnamente nel 1979: “sensibile a sé stesso, cioè alle cose misteriose di questo strano pianeta”. E Battiato figura proprio come uno studente curioso e diligente, che vive fagocitando nozioni, cercando risposte alle innumerevoli domande che lo affliggono nel quotidiano, le cui risposte inserisce all’interno delle proprie canzoni. Si erge a sacerdote moderno e guida spirituale di “un mondo di cui si sente la presenza ma di cui si perde la vista”. 

E allora L’Era Del Cinghiale Bianco, quella dell’inizio degli anni ‘80, è l’era dell’assoluta conoscenza spirituale. Se Huxley e Il Nuovo Mondo hanno influenzato Fetus, qui c’è lo zampino del filosofo francese René Guénon, filosofo nominato in Magic Shop, che nel saggio Simboli della Scienza Sacra illustra il ruolo esoterico del cinghiale, animale simbolo della mitologia celtica e indù. Proprio in quest’ultima, il cinghiale rappresenta uno degli avatar di Vishnu

Siamo già in quel momento in cui dovete decidere se volete capire quello che il Maestro dice o muovere solamente le chiappette seguendo il ritmo di Tullio De Piscopo e del violino di Giusto Pio. Non c’è nulla di male, ma assicuro che dopo un po’ di ascolti la necessità di scardinare l’ermetismo del nostro caro Battiato premerà forte sulla vostra cervicale e proverete un gusto sadico nello scoprire i riferimenti disseminati.   

Sarà lì che scoprirete come Magic Shop racconta della deriva spirituale e consumistica di una società che si lascia abbindolare da falsi miti, o di come Il Re Del Mondo sia il protettore della terra, capace di sostenere la vita nel pianeta reggendone le sorti a scapito del libero arbitrio degli ignari abitanti (“ma il Re del Mondo ci tiene prigioniero il cuore”). Anche questo brano affonda le proprie radici su René Guénon che ha editato l’omonimo testo nel 1927

A proposito di Guénon, ho dimenticato di scrivere [o forse l’ho già scritto ma non me lo ricordo… ma sono troppo pigro per scorrere la rotella del mouse e rileggere le righe sopra. Bon, in caso repetita iuvant ndr] che tra i più aspri critici della sua dottrina filosofica vi era quel gran fetentone di Umberto Eco, so much love for him <3. 

Uno spazio importante è dedicato alla sacralità quella di Luna Indiana, punta di diamante del disco, resa celebre grazie anche dalla versione di Alice [alla quale personalmente preferisco i gorgheggio sul filo della stonatura del nostro Maestro ndr] e la preghiera meravigliosa di Pasqua Etiope con il Kyrie Eleison che risuona e se la batte a modo suo con la preghiera di Judee Sill in The Donor

Una sacralità che sfocia poi nella poesia laica di Stranizza d’Amuri, una delle poche canzoni scritte e cantate in siciliano da Battiato, che ricorda il periodo della guerra nella sua terra natia, o meglio, l’amore ai tempi della guerra, di come “anche se fuori si muore, non muore questa stranezza d’amore”, che fa montare dei lucciconi belli grossi sugli occhi dell’ascoltatore e una pelle d’oca non indifferente. 

Ecco ora sono emozionato e non so come chiudere questo articoletto infinito su Battiato, pertanto vi lascio con una delle più belle dichiarazioni d’amore, da ricicciare a piacimento, che si possano fare ad una persona amata: 

Man manu ca passunu i jonna 
sta frevi mi trasi ‘nda ll’ossa 
ccu tuttu ca fora c’è a guerra 
mi sentu stranizza d’amuri 
l’amuri.