Franco Battiato – L’Era Del Cinghiale Bianco

Ciclicamente, di epoca in epoca, torna prepotente una domanda ad affacciarsi nella società: l’era del cinghiale bianco tornerà? 

Voglio bene a Battiato [voglio bene a chiunque sigh ndr], ma voglio ancora più bene a questo disco: per la canzone che gli dà il nome, per la copertina, per Luna Indiana

In tutto questo partiamo da un dato di fatto… ascoltare Battiato non è complicato; capirlo è invece dote non da tutti. 

Non è difficile ascoltarlo perché la durata media di un disco – di inizio carriera – del Maestro si aggira sui trenta minuti e le canzoni presentano un’orecchiabilità invidiabile ai principali compositori contemporanei. 

La comprensione invece passa attraverso: i diversi ascolti, la voglia di recepire e apprendere tutti gli indizi disseminati in ogni frase, le metafore e la presentazione di vari personaggi inseriti qua e là con leggerezza apparente. Soggetti che nel corso degli anni assumono lo status di icone solo per aver guadagnato un posto nelle canzoni di Battiato

L’Era Del Cinghiale Bianco in fondo inaugura proprio questa tendenza di Battiato di costruire testi che sono dei giochi a incastro, con ammiccamenti sfacciati alle culture arabo/orientali. Una capacità – palesata ad esempio – con Strade dell’Est – di metterti una voglia fottuta di viaggiare dai balcani fino all’estremo oriente, solo perché senti pronunciare al Maestro nomi esotici e parole a cazzo un po’ qua e un po’ là. 

Mentre il suo conterraneo Pippo Baudo lo trattava come un povero imbecille durante un’intervista promozionale in Rai, ci pensava Mr. Fantasy ad introdurlo degnamente nel 1979: “sensibile a sé stesso, cioè alle cose misteriose di questo strano pianeta”. E Battiato figura proprio come uno studente curioso e diligente, che vive fagocitando nozioni, cercando risposte alle innumerevoli domande che lo affliggono nel quotidiano, le cui risposte inserisce all’interno delle proprie canzoni. Si erge a sacerdote moderno e guida spirituale di “un mondo di cui si sente la presenza ma di cui si perde la vista”. 

E allora L’Era Del Cinghiale Bianco, quella dell’inizio degli anni ‘80, è l’era dell’assoluta conoscenza spirituale. Se Huxley e Il Nuovo Mondo hanno influenzato Fetus, qui c’è lo zampino del filosofo francese René Guénon, filosofo nominato in Magic Shop, che nel saggio Simboli della Scienza Sacra illustra il ruolo esoterico del cinghiale, animale simbolo della mitologia celtica e indù. Proprio in quest’ultima, il cinghiale rappresenta uno degli avatar di Vishnu

Siamo già in quel momento in cui dovete decidere se volete capire quello che il Maestro dice o muovere solamente le chiappette seguendo il ritmo di Tullio De Piscopo e del violino di Giusto Pio. Non c’è nulla di male, ma assicuro che dopo un po’ di ascolti la necessità di scardinare l’ermetismo del nostro caro Battiato premerà forte sulla vostra cervicale e proverete un gusto sadico nello scoprire i riferimenti disseminati.   

Sarà lì che scoprirete come Magic Shop racconta della deriva spirituale e consumistica di una società che si lascia abbindolare da falsi miti, o di come Il Re Del Mondo sia il protettore della terra, capace di sostenere la vita nel pianeta reggendone le sorti a scapito del libero arbitrio degli ignari abitanti (“ma il Re del Mondo ci tiene prigioniero il cuore”). Anche questo brano affonda le proprie radici su René Guénon che ha editato l’omonimo testo nel 1927

A proposito di Guénon, ho dimenticato di scrivere [o forse l’ho già scritto ma non me lo ricordo… ma sono troppo pigro per scorrere la rotella del mouse e rileggere le righe sopra. Bon, in caso repetita iuvant ndr] che tra i più aspri critici della sua dottrina filosofica vi era quel gran fetentone di Umberto Eco, so much love for him <3. 

Uno spazio importante è dedicato alla sacralità quella di Luna Indiana, punta di diamante del disco, resa celebre grazie anche dalla versione di Alice [alla quale personalmente preferisco i gorgheggio sul filo della stonatura del nostro Maestro ndr] e la preghiera meravigliosa di Pasqua Etiope con il Kyrie Eleison che risuona e se la batte a modo suo con la preghiera di Judee Sill in The Donor

Una sacralità che sfocia poi nella poesia laica di Stranizza d’Amuri, una delle poche canzoni scritte e cantate in siciliano da Battiato, che ricorda il periodo della guerra nella sua terra natia, o meglio, l’amore ai tempi della guerra, di come “anche se fuori si muore, non muore questa stranezza d’amore”, che fa montare dei lucciconi belli grossi sugli occhi dell’ascoltatore e una pelle d’oca non indifferente. 

Ecco ora sono emozionato e non so come chiudere questo articoletto infinito su Battiato, pertanto vi lascio con una delle più belle dichiarazioni d’amore, da ricicciare a piacimento, che si possano fare ad una persona amata: 

Man manu ca passunu i jonna 
sta frevi mi trasi ‘nda ll’ossa 
ccu tuttu ca fora c’è a guerra 
mi sentu stranizza d’amuri 
l’amuri. 

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The Doors – The Doors

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Scrivere qualcosa sui The Doors è molto molto difficile… cosa mi metto a raccontare? Cioè è già stato detto tutto quanto, in tutti i modi possibili immaginabili.

Mi sono cacciato proprio in un cul-de-sac… però è anche vero che – di primo acchito – se una pagina dove si tratta di musica non scrive nulla sui The Doors fa la figura da pagina peracottara. Quindi qualcosa mi inventerò, sperando che l’ovvietà non domini questo articolo.

Cominciamo l’angolo Alfonso Signorini, la scelta dell’articolo è ricaduta sui The Doors oltre che per la relazione intercorsa tra Morrison e Nico, anche perché poco dopo la morte di Jim Morrison fu presa in considerazione – dai membri della band – l’idea di proseguire il progetto con Iggy Pop al microfono. Iggy e Nico sono due dei principali protagonisti di questo mini-ciclo; e non è finita qui!

Andy Warhol era invaghito del fascino di Jimbo, un’attrazione che rasentava il grottesco, tanto da voler svolgere il ruolo di voyeur durante lo zicchezzacche tra i due. Andy chiese a Jim di prender parte ad uno dei film che stava girando (I, A Man), ma il manager dei The Doors glielo impedì… tutto questo era giusto per mettere un po’ di ciccia nell’articolo.

Va bene dai, parliamo del disco di esordio di Morrison e amici bbelli, che è praticamente un best of: lo mettete sul piatto e via, vi immergete direttamente nelle loro poesie, in quelle meravigliose pentatoniche di Krieger, nelle atmosfere di Manzarek e nel tiro di Densmore. Ma cosa ha reso speciali i The Doors?

Jim Morrison.

Riduttivo? Forse, ma il carisma, la presenza scenica, il distacco e l’aura mistica, la capacità di essere feroce animale e al tempo stesso intellettuale, sono caratteristiche che non trovate in nessun altro.

Break On Through rompe gli schemi e inaugura il disco, il messaggio – che viaggia sopra ad una bossanova lisergica – è quello di aprire le porte della percezione (suggerite da Huxley nel suo The Doors of Perception) e spingersi verso orizzonti sconosciuti e inimmaginabili. Di fatto, mentre Huxley abusò di mescalina per scrivere le sensazioni vissute in prima persona, Morrison non seguì la ricetta fedelmente, sostituendo l’ingrediente principe con dosi di LSD (così dicono)…

La versione originale del brano non ebbe grande distribuzione radiofonica e fu ostracizzata dai baciamadonne puristi ammerigani per via del ritornello che incita in maniera esplicita all’uso delle droghe; perciò fu registrata una versione alternativa da poter trasmettere su Radio Maria nella quale “She gets high” diventa un ben più sobrio e insignificante “She gets…“. Fortuna che con gli anni siamo tornati all’originale… questa è stata solo la prima di una lunga serie di guai tra Morrison e l’opinione pubblica che lo porteranno ad essere un osservato speciale per l’FBI.

Altro celebre tentativo di censura è quello incorso all’ Ed Sullivan Show, dove Ed Sullivan in persona chiese a Morrison di modificare il testo di Light My Firehit nata dalla mente di Krieger – da “girl, we couldn’t get much higher” ad un più triste “girl, we couldn’t get much better“… insomma, è come se Pippo Baudo chiedesse ai Dari di cambiare il ritornello di Wale (Tanto Wale) arrogandosi il diritto di sostituire frasi e cambiando di fatto il senso della frase.

Va be, Morrison gli da il contentino “Certo Mr. Sullivan, sì sì”, e poi TAC! non cambia un cazzo…(è bellissimo vedere il sorrisino di Krieger sullo sfondo nel momento in cui Morrison decide di far come gli pare) Jim la canta in maniera naturale e non in modo forzato come viene riproposto nel film da Oliver Stone. Il povero vetusto conduttore si rifiutò di stringer la mano a Morrison una volta sceso dal palco, maledicendolo e dicendogli che non avrebbero più suonato nella sua trasmissione. Poco male Ed, ha vinto Jimbo, e di brutto.

Sempre a Light My Fire è legato un aneddoto che mostra l’integrità morale di Morrison, che impedisce l’utilizzo della canzone per uno spot televisivo della Buick, buttando di fatto 68mila dollari che gli altri 3 membri della band avevano accettato senza troppo rimuginarci sopra.

Tornando al disco è un susseguirsi di capolavori, con Soul Kitchen e Crystal Ship (canzone d’amore scritta da Jim Morrison alla ragazza con la quale aveva rotto recentemente, tale Mary Werbelow), proseguendo per Alabama Song (cover estratta dall’operetta Little Mahagonny di Kurt Weill – che musicò le parole di Bertolt Brecht e della collaboratrice Elisabeth Hauptmann) dove Jimbo intervenne su qualche verso. È un disco che corre veloce con il blues di Back Door Man e con il trittico stordito di I Look At You, End Of The Night e Take It As It Comes, preparatorio a The End, vera e propria carta d’identità della band.

Father?/ Yes, son?/ I Want To Kill You. Mother, I want to …

The End desterà scandalo alla prima esibizione al Whiskey A Go Go, quando Morrison – in un flusso di coscienza delirante di 12 minuti all’incirca – raggiunge il climax con questo verso che racconta un complesso di Edipo in piena regola. Ciò, come ha spiegato Manzarek, non significa che Morrison avrebbe voluto fare ciò ai suoi genitori, era solo per mettere un po’ di pathos nell’esecuzione.

Jim ci riassume il significato di The End in queste poche righe “Tutte le volte che ascolto questa canzone, significa sempre qualcosa di diverso per me. È cominciata come una semplice canzone di arrivederci… probabilmente per una ragazza [sempre per Mary Werbelow ndr], ma l’ho vista come un possibile arrivederci ad una certa infanzia. Veramente, non lo so. Penso sia sufficientemente complesso e universale nel suo immaginario che possa significare ciò che vuoi che significhi.”