Vinícius de Moraes, Giuseppe Ungaretti, Sergio Endrigo – La Vita, Amico, è l’Arte dell’Incontro

Metti insieme un poeta, un chitarrista, un poeta, un cantante e… oh cazzo! Dio santissimo che incipit scialbo. Riprovo. 

Déjavù! [e questa volta non c’entrano una sega Crosby, Stills, Nash e Young ndr

“La vita è l’arte dell’incontro” cantava Vinícius de Moraes nel Samba delle Benedizioni, quando con Endrigo e Ungaretti diede vita a una delle collaborazioni tra le più armoniose di sempre. 
Ho sempre amato questa frase e il pensiero che si cela dietro: ogni incontro ci arricchisce personalmente e culturalmente, cesella sempre più la nostra personalità nel viaggio della vita. In quel mosaico che scopre, in ogni incontro, una tessera prodigiosa capace di impreziosirne il disegno.  

Anche in questo caso, si tratta di ricostruire una storia dai molti volti e dalle altrettante anime. 

Di Ungaretti, con pigrizia, si ricorda solamente la poesia Soldati. Queste poche righe non hanno la vanità di spiegarvelo, ma se servissero anche solo a titillare la curiosità per scoprirlo, ne sarei felice di certo. Ecco, tornando a noi, ero intento a scrivere che nel 1936, Ungaretti, si trasferisce assieme alla propria famiglia in Brasile. Accetta la cattedra e resta nello stato paulista per 6 anni. 

Durante il periodo accademico incontra Vinícius – precisamente nel 1937 – una combinazione che qualche anno più tardi produrrà una raccolta di poesie di de Moraes tradotte in italiano dallo stesso Ungaretti.

OT: Piccola nota rosa a margine. Giuseppe Ungaretti qualche anno dopo la dipartita della moglie Jeanne si lega sentimentalmente alla giovanissima italobrasiliana Bruna Bianco, 52 anni di differenza colmati a poemi. Una relazione appassionata che – destando qualche scandalo – accompagna Ungaretti nell’ultimo tratto del proprio tragitto, regalando alcuni versi di intensità vibrante come 

Sei comparsa al portone 
in un vestito rosso 
per dirmi che sei fuoco   
che consuma e riaccende […]. 
Percorremmo la strada   
che lacera il rigoglio 
della selvaggia altura.   
Ma già da molto tempo 
sapevo che soffrendo con temeraria fede, 
l’età per vincere non conta. 

/Fine OT 

Saltando di palo in frasca, ora siamo nell’inverno del 1969, [un salto temporale che fa una pippa a Quantum Leap ndr] e Vinícius bazzica da qualche mese Roma. Durante le “vacanze romane” si incontra nuovamente con Ungaretti, assieme a lui questa volta c’è il giovane Toquinho, promettente chitarrista di origine italiana che si rivela uno dei parceiro più prolifici di de Moraes completando le sue idee artistiche per tutta l’ultima fase della sua carriera. 

Il 1969, si propone come un anno particolare per l’intreccio artistico tra Italia e Brasile. Chico Buarque si trova in esilio volontario a Roma, e per Vinícius, Chico è un figlioccio oltre che uno dei suoi allievi più promettenti.  Vinícius ha un legame pregresso con Chico – amico di suo padre Sergio Buarque – crede talmente tanto in lui da riconoscerlo con una citazione nel Samba delle Benedizioni (Tu che hai nel cuore una banda).

In questo parterre de rois, troviamo una nostra vecchia conoscenza in materia musicale, quel Sergio Bardotti profondo conoscitore del Brasile e della sua musica, capace di trattare la materia con innata delicatezza.  

Bardotti ha agito da vero e proprio mediatore culturale, riuscendo a trasportare il Brasile in Italia, offrendoci gran parte delle tonalità del portoghese zuccherato nei testi. Un lavoro di cui è difficile trovare eguali. Anche perché è stata sua l’idea di rendere immortali le registrazioni di questo periodo romano. Già a conoscenza dell’amicizia tra Unga Vinícius, decide così di coinvolgere tutti portandoli in studio di registrazione. A loro si aggiungono Luis Bacalov al pianoforte e Sergio Endrigo alla voce. Sì, Sergione Endrigo con il quale Toquinho, de Moraes e Chico Buarque collaboreranno nei giorni a venire. 

Ma immaginate che bellezza? 

Ungaretti, de MoraesToquinho, BardottiBacalov, Endrigo

So che avete declamato quest’ultima riga come la formazione di Italia-Germania di Messico 1970… no? [fatelo maledetti ndr

Comunque in questo Capolavoro trovate un pezzo della nostra storia, quel La Casa, facente parte di una raccolta di filastrocche pensata da de Moraes per i propri nipoti e resa celebre in Italia dal caro Endrigo

In ultima istanza, sarebbe sacrilego dimenticare quella meraviglia del Samba da Bençao, tradotta da Bardotti nel Samba delle Benedizioni, una preghiera laica di mistica essenza. L’ho sempre considerata la verità incisa su vinile, il senso della vita. La bellezza della vita. 

Tutto il disco ha una cappa di spiritualità che lo ammanta, legata al vissuto di Baden Powell, che ha avuto il merito di introdurre Vinícius de Moraes al Candomblè e alla ritualità tipica del Brasile africanizzato. Rendendo Vinícius“il bianco più negro del Brasile”, come amava definirsi. 

Ho la sensazione di aver scritto tanto e non aver detto nulla, questo lavoro offre numerosi spunti di racconto, avrei il piacere di scriverne in maniera più approfondita, ma lo spazio a disposizione [da me imposto ndr] è stato sforato di brutto e sono sicuro di avervi già annoiato. 

Chiedo scudo [per citare il buon Giurato ndr]. 

Saravà Vinicius! 

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Led Zeppelin – Led Zeppelin I

Led Zeppelin - Led Zeppelin

I Led Zeppelin hanno avuto un grandissimo merito, quello di saper giocare sapientemente con la loro immagine, un marketing – in principio – inconsapevole e mano a mano sempre più concreto.

Tutto ha inizio con il primo album e con la scelta di quella copertina che ritrae una tragedia di immane proporzioni: l’esplosione – avvenuta nel 1937 – del dirigibile Luftschiff Zeppelin #139 Hindenburg (episodio che è costato la vita a 36 persone).

Ricordato dai più semplicemente come lo Zeppelin, il dirigibile che da anche il nome ai futuri martelli di Dio, l’idea di adottare questo nome è di Jimmy Page… o meglio l’idea la prende in prestito da un incontro – al quale Giacomo Pagina ha partecipato – per la formazione di un proto-gruppo composto da Keith Moon, John Entwistle, Jeff Beck e lo stesso Jimmy.

Leggenda vuole che proprio durante l’incontro. quel birbante di Keith Moon abbia detto “Sì! Facciamolo pure questo gruppo, tanto sarà come un palloncino di piombo! [in inglese “go over like a lead ballon” è una metafora volta a prevedere un fallimento ndr]”, e lì Entwistle ha aggiunto “Sì, un Lead Zeppelin!” battutissima a voler enfatizzare la frase di Moon andando a ripescare l’immagine iconica dello schianto dell’Hindenburg.

Page, si dimostra lesto e abile accaparratore di idee (come dimostrerà più volte nel corso degli anni e come avrete modo di leggere fra qualche riga), coglie senza batter ciglio il suggerimento dei due Who, e onde evitare confusione semantica, trasforma Lead in Led – che non è l’acronimo di Light Emitting Diode – ma semplicemente una facilitazione in termini di pronuncia che non porti a differenti chiavi di lettura [lead in inglese può significare sia “piombo” che “condurre” ndr].

Ora converrete con me che vedere – a meno di dieci anni – una copertina del genere, possa stuzzicare non poco le fantasie di un ragazzino vivace e carino come il sottoscritto. Il cortocircuito che ho avuto nell’ascoltare il disco in questione con la voce ruggente di Plant a dominare i brani a intermittenza con il blues di Jimmy Page e la furia animale di John Bonham è stato uno shock, una sveglia totale (hey non mi voglio dimenticare anche di Giovanni Paolo Jones, che non è un papa ma un grande bassista… no, non Giovanni Bassista, ma un grande bassista di quelli che suona il basso). Gli Zeppelin sono stata la base musicale sul quale ho costruito Pillole MusicaliDazed and Confused e Good Times Bad Times, due epifanie ipnotiche che mi hanno incollato allo stereo senza soluzione di continuità.

Ma scopriamo gli altarini, suvvia, son qui per questo! Avevo accennato poco sopra che Page si dimostra lesto accaparratore di idee: il nome della band, l’immagine di copertina, ma anche la meravigliosa cover di You Shook Me, incisa da Muddy Waters e Earl Hooker e già presa da Jeff Beck un anno prima che gli Zeppelin incidessero il loro primo album. Oppure I Can’t Quite You Baby, altro classico blues scritto da Dixon e registrato da Otis Rush a metà degli anni ’50.

Questi però son zuccherini in confronto a quanto accaduto con Dazed and Confused… “ma come?” direte voi “Dazed and Confused è degli Zeppeli!!!1″!”!!!1″… ehhh no cari miei.

Mettetevi seduti, vi racconto una storia: c’era una volta un tipo di nome Jack Holmes che scrisse una canzone dal titolo Dazed and Confused. Una bella canzone, registrata con il suo trio nel 1967 e portata in tour (tra i vari posti in lungo e in largo il Greenwich Village, facendo una puntata anche al Cafe Au Go Go). Capita che Jack Holmes si trovi ad aprire un concerto degli Yardbirds, con all’epoca il giovane Giacomo Pagina alla chitarra… la canzone piacque molto ai Carcerati e con il permesso di Holmes decisero di appropriarsene dilatandola molto, reinterpretandone il tasto ove possibile e lasciando più spazio al blues che al cantato. In questa canzone Page introdurrà uno dei suoi marchi di fabbrica, l’archetto di violino utilizzato sulla chitarra elettrica, su suggerimento di David McCallum Sr. primo violino della Royal Philarmonic Orchestra, nonché padre di Donald “Ducky” Mallard di NCIS.

Bon, gli Yardbirds si sciolgono, nascono i Led Zeppelin e Page si porta dietro nel suo bagaglio questa canzone quasi pronta da registrare… qualche altro ritocchino al pezzo e TAC! Inclusa subito nel primo disco senza menzionare nei credit il pover Holmes, che dal canto suo fa spallucce per anni, salvo poi – dopo una carriera stitica da inizio anni ’70 in poi, ed un ragionamento durato oltre trent’anni – rendersi conto di esser stato perculato e far causa per ottenere le royalties.

C’est la vie, cantava Gianni Dei, d’altronde come diceva Picasso “i mediocri imitano, i migliori copiano” o una cosa del genere.