Led Zeppelin – Led Zeppelin I

Led Zeppelin - Led Zeppelin

I Led Zeppelin hanno avuto un grandissimo merito, quello di saper giocare sapientemente con la loro immagine, un marketing – in principio – inconsapevole e mano a mano sempre più concreto.

Tutto ha inizio con il primo album e con la scelta di quella copertina che ritrae una tragedia di immane proporzioni: l’esplosione – avvenuta nel 1937 – del dirigibile Luftschiff Zeppelin #139 Hindenburg (episodio che è costato la vita a 36 persone).

Ricordato dai più semplicemente come lo Zeppelin, il dirigibile che da anche il nome ai futuri martelli di Dio, l’idea di adottare questo nome è di Jimmy Page… o meglio l’idea la prende in prestito da un incontro – al quale Giacomo Pagina ha partecipato – per la formazione di un proto-gruppo composto da Keith Moon, John Entwistle, Jeff Beck e lo stesso Jimmy.

Leggenda vuole che proprio durante l’incontro. quel birbante di Keith Moon abbia detto “Sì! Facciamolo pure questo gruppo, tanto sarà come un palloncino di piombo! [in inglese “go over like a lead ballon” è una metafora volta a prevedere un fallimento ndr]”, e lì Entwistle ha aggiunto “Sì, un Lead Zeppelin!” battutissima a voler enfatizzare la frase di Moon andando a ripescare l’immagine iconica dello schianto dell’Hindenburg.

Page, si dimostra lesto e abile accaparratore di idee (come dimostrerà più volte nel corso degli anni e come avrete modo di leggere fra qualche riga), coglie senza batter ciglio il suggerimento dei due Who, e onde evitare confusione semantica, trasforma Lead in Led – che non è l’acronimo di Light Emitting Diode – ma semplicemente una facilitazione in termini di pronuncia che non porti a differenti chiavi di lettura [lead in inglese può significare sia “piombo” che “condurre” ndr].

Ora converrete con me che vedere – a meno di dieci anni – una copertina del genere, possa stuzzicare non poco le fantasie di un ragazzino vivace e carino come il sottoscritto. Il cortocircuito che ho avuto nell’ascoltare il disco in questione con la voce ruggente di Plant a dominare i brani a intermittenza con il blues di Jimmy Page e la furia animale di John Bonham è stato uno shock, una sveglia totale (hey non mi voglio dimenticare anche di Giovanni Paolo Jones, che non è un papa ma un grande bassista… no, non Giovanni Bassista, ma un grande bassista di quelli che suona il basso). Gli Zeppelin sono stata la base musicale sul quale ho costruito Pillole MusicaliDazed and Confused e Good Times Bad Times, due epifanie ipnotiche che mi hanno incollato allo stereo senza soluzione di continuità.

Ma scopriamo gli altarini, suvvia, son qui per questo! Avevo accennato poco sopra che Page si dimostra lesto accaparratore di idee: il nome della band, l’immagine di copertina, ma anche la meravigliosa cover di You Shook Me, incisa da Muddy Waters e Earl Hooker e già presa da Jeff Beck un anno prima che gli Zeppelin incidessero il loro primo album. Oppure I Can’t Quite You Baby, altro classico blues scritto da Dixon e registrato da Otis Rush a metà degli anni ’50.

Questi però son zuccherini in confronto a quanto accaduto con Dazed and Confused… “ma come?” direte voi “Dazed and Confused è degli Zeppeli!!!1″!”!!!1″… ehhh no cari miei.

Mettetevi seduti, vi racconto una storia: c’era una volta un tipo di nome Jack Holmes che scrisse una canzone dal titolo Dazed and Confused. Una bella canzone, registrata con il suo trio nel 1967 e portata in tour (tra i vari posti in lungo e in largo il Greenwich Village, facendo una puntata anche al Cafe Au Go Go). Capita che Jack Holmes si trovi ad aprire un concerto degli Yardbirds, con all’epoca il giovane Giacomo Pagina alla chitarra… la canzone piacque molto ai Carcerati e con il permesso di Holmes decisero di appropriarsene dilatandola molto, reinterpretandone il tasto ove possibile e lasciando più spazio al blues che al cantato. In questa canzone Page introdurrà uno dei suoi marchi di fabbrica, l’archetto di violino utilizzato sulla chitarra elettrica, su suggerimento di David McCallum Sr. primo violino della Royal Philarmonic Orchestra, nonché padre di Donald “Ducky” Mallard di NCIS.

Bon, gli Yardbirds si sciolgono, nascono i Led Zeppelin e Page si porta dietro nel suo bagaglio questa canzone quasi pronta da registrare… qualche altro ritocchino al pezzo e TAC! Inclusa subito nel primo disco senza menzionare nei credit il pover Holmes, che dal canto suo fa spallucce per anni, salvo poi – dopo una carriera stitica da inizio anni ’70 in poi, ed un ragionamento durato oltre trent’anni – rendersi conto di esser stato perculato e far causa per ottenere le royalties.

C’est la vie, cantava Gianni Dei, d’altronde come diceva Picasso “i mediocri imitano, i migliori copiano” o una cosa del genere.

Pubblicità

The Jimi Hendrix Experience – Are You Experienced

The Jimi Hendrix Experience - Are You Experienced.jpg

Il 1967 è – dagli storici – ricordato come anno 0, più precisamente dal 4 Giugno del 1967 entra in essere la locuzione D.H. (Dopo Hendrix).

Dio è sceso in terra, si è fatto carne palesandosi al Saville Theatre, dove in prima fila presenziano coloro che a suon di olio di gomito e album hanno ottenuto più fama di Gesù.

Allora Dio prima di qualsiasi cosa, li indica, si porta le dita alle orecchie e urla tre volte – come il gallo – in loro direzione “Watch out for your ears, ok?”.

Dio fisicamente è diverso da come è stato rappresentato sinora, ha una acconciatura afro, è aitante, senza barba e giovincello… ma soprattutto è un Dio nero, mettendo le pive nel sacco ai movimenti razzisti che fanno da sfondo agli anni ’60.

Dio è mancino, suona con la mano del diavolo. Dio interpreta solamente dopo 3 giorni dall’uscita di Sgt. Pepper Lonely Hearts Club Band, la sua versione dell’opening del disco sorprendendo i Fab Four accorsi al suo spettacolo, affermando così la sua leggenda e imponendosi su chi finora non ha riposto in lui alcuna fiducia (e sono stati in tanti).

Fino a quel momento le capacità del chitarrista sono sempre state tema di dibattito e curiosità. Il concerto in questione ha dato a tanti la risposta che cercavano.

Once you try black you never go back.

Are You Experienced è un’idea musicale capace di sparigliare le carte su ogni tavolo, Foxy Lady apre le danze, dove Hendrix è la macchina del sesso che riesce a spremere dalle corde della Stratocaster una sensualità feroce e animale, lasciandoci intendere quanta voglia di gigiabaffa avesse il treppiede di Seattle.

È il manifesto del rapporto feticista con il suo strumento, è la sua naturale estensione; sin dalla prima chitarra acustica ha instaurato un legame totale con la sei corde (per la quale riceveva cinghiate dal padre qualora l’avesse trovato a suonare con la mano del diavolo) una relazione che i musicisti di tutte le generazioni hanno tentato di scimmiottare dal ’67 a oggi con risultati discutibili.

Sovente mi dimentico di quanto sia importante la capacità di sintesi, perciò eviterò di dettagliare troppo alcune canzoni piuttosto che altre.

L’eccezione la faccio per Hey Joe, cover che ha reso Hendrix quello che è; Chas Chandler (ex bassista dei The Animals e ora produttore) è alla ricerca di qualcuno che possa arrangiare in chiave rock la canzone eseguita da Tim Rose. Hendrix in quel periodo è alle prese con una serie di concerti al Cafe Wha? – nel Greenwich Village -, Chandler se ne innamora e lo porta nel Regno Unito, dove la leggenda di Hendrix ha inizio.

Are You Experience viene pubblicato nel 1967 con 6 differenti tracklist e 4 copertine differenti. Curioso il caso del Sud Africa che, sotto il regime dell’apartheid, censura la fotografia dei membri della band, per mettere bene in evidenza solo il nome.

Ma si sa, le vie del signore sono infinite.

Barbara Keith – Barbara Keith

Barbara Keith - Barbara Keith.jpg

Come dimostrato nei precedenti post della rubrica “Derelikt”(so che ogni volta cambia il nome di questa benedetta rubrica, ma fate conto che i dischi particolari finiscono in questa categoria) non è remota la possibilità di una fugace apparizione nel business musicale, con discreti risultati, per poi ritornare nella vita più che normale, circondati dagli affetti e senza enormi pretese.

Dopo Vashti Bunyan e Linda Perachs è il giunto il turno di Barbara Keith (l’ennesima illustre sconosciuta), il parallelismo tra queste figure è più che lecito: produzione discografica scarsa per ognuna, più o meno nello stesso periodo; la scomparsa per quasi trent’anni; il ritorno in pista e la riabilitazione al grande pubblico, raccogliendo successi più che insperati all’epoca delle registrazioni.

Barbara Keith – nell’album che ha un titolo veramente pregno di fantasia – riesce a regalarci una cover della cover delle cover: All Along The Watchtower. La sua versione mantiene una dignità ed un polso che la rendono unica, ha impresso la propria idea musicale in un brano ideato da Dylan – suo compagno di vita bohemien presso il Greenwich Village – rielaborato da Hendrix in maniera magistrale, e ripreso dalla stessa Keith con influenze acide e gorgheggi che si intrecciano in un climax talvolta epico e suggestivo. L’arrangiamento di All Along The Watchtower vale sicuramente l’intero disco, perché dare un senso ad un brano così fortemente connotato e celebre rendendolo proprio, è operazione da folli.

La Keith si ritirò dalle scene dopo aver sposato il produttore di questo disco, tale Doug Tibbles (con il quale ha scritto a quattro mani l’ultimo brano del disco A Stone’s Throw Away), e rescisse il contratto con la Reprise, l’idea dei coniugi era quella di concentrarsi sulla vita familiare e cercare una major in grado di incontrare le loro esigenze.

Il recesso dalla Reprise fu un colpo grosso per la carriera della Keith, in quanto la promozione del disco subì un arresto non indifferente che tagliò di fatto le gambe alla sua carriera.

Morale della favola, le vendite non furono assolutamente eccelse, ma il talento della Keith venne comunque notato dall’industria musicale, non solo grazie ai suoi due album omonimi (uno sforzo creativo da fantasia al potere) ma anche grazie alla fitta rete di contatti creati durante la permanenza dei salotti creativi del Village, dove venne scoperta nel club Café Wha?, per questo motivo alcune sue canzoni vennero reinterpretate da cantanti più conosciuti di lei. E tutti vissero felici e contenti.

Simon & Garfunkel – Bridge Over Troubled Water

simon-garfunkel-bridge-over-troubled-water

Tutte le più belle storie d’amore giungono al termine purtroppo, lo stesso accade per Simon & Garfunkel che però prima di separarsi consensualmente danno alla luce il loro quinto ed ultimo album Bridge Over Troubled Water.

L’intento di Art e Paul è quello di far sapere a tutti quanto fossero bravi i due nel fare altro oltre il folk alla Greenwich, Bridge Over Troubled Water dimostra la capacità di affacciarsi su altri stili mantenendo la naturalità che appartiene loro. Si vira verso sonorità diverse per due principali motivi: il primo è legato ad Art e alla sua partecipazione al film Comma 22, per il quale inizialmente era stato scritturato anche Paul (segato successivamente), i due di comune accordo decidono di aspettare il termine delle riprese per tornare in studio e fare un album rapidamente; l’altro motivo è Roy Halee (già al lavoro con Byrds, Loovin’ Spoonful, Bob Dylan e successivamente con Laura Nyro) che svolta come un calzino i due ragazzi.

Ne esce fuori un disco epico, con la title-track in stile gospel – ispirata ai Righteous Brothers prodotti da Spector – e scritta in un battito di ciglia da Paul Simon, “Ma da dove viene? Non sembra da me” quasi sorpreso dalla rapidità di scrittura, Simon dedica la canzone alla sua moglie d’allora. Si genera scompiglio per la scelta del cantato, Simon vuole che la canti Garfunkel, Garfunkel ritiene ingiusto togliere la gloria a Simon, interviene Halee che si esprime a favore di Garfunkel. Gioco! Match! Partita!

Originariamente la canzone era composta di due versi, Art si intromette pensando che fosse giusto dover allungare un po’ il brodo e per far sì che succeda, i due ritornano in studio e aggiungono la parte mancante, lavorando di taglio e cucito per integrarla alla versione iniziale.

La rapidità nella scrittura si riflette anche negli altri brani, molti dei quali risultano immediati e meno impegnativi al confronto delle precedenti produzioni del duo; l’essere arrivati agli sgoccioli rende l’approccio musicale di Art e Paul più accattivante, meno serioso. Bridge Over The Troubled Water è sicuramente un disco figlio del proprio periodo: tanti fiati ed impasti vocali, possono essere colte le sfumature di un certo tipo di musica leggera anni ‘60 come in So Long, Frank Lloyd Wright brano che sembra partorito da Burt Bacharach.

Invece no!Lo concepisce proprio Paul Simon, ed è il suo modo di salutare Arty, compagno di tante battaglie, il Napoleone del folk – così lo ha etichettato Garfunkel in una recente intervista – si prodiga nello scrivere una canzone su Frank Lloyd Wright senza sapere a momenti chi fosse e quali fossero le sue opere, lo fa più che altro per tributare Art che oltre ad una discreta carriera da musico e attore, può vantarsi del titolo architetto. In quel periodo valutò anche di cambiare nome in Arct. ………………. lasciamo scorrere questa balla di fieno e facciamo finta di niente.

Non si può non menzionare The Boxer – una delle canzoni più celebri dell’accoppiata – o la magnifica The Only Living Boy In New York con i suoi cambi d’accordi repentini, per non dimenticare le scanzonate Cecilia e Why Don’t You Write Me. Insomma Bridge Over Troubled Water è un disco delizioso e divertente con alti e bassi, forse un po’ sopravvalutato ma che può rivelarsi come un ottimo primo approccio al resto della discografia di Paul e Art.

Emma Tricca – Relic

Emma Tricca - Relic.jpg

Relic è l’inaspettato, fuori dal tempo, fuori dai canoni musicali di oggi. È una ricerca ed una ispirazione senza plagio. È come se fosse il pezzo mancante di un puzzle che va a colmare un vuoto, rimasto lì troppo a lungo. Relic è il disco consigliato di questo mese.

C’è Vashti Bunyan per l’atmosfera cullante, un po’ di Judee Sill nell’essere riflessiva, Buffy Sainte-Marie nella sacralità e nel vibrato della voce, l’intimità di Joni Mitchell, per non parlare di Linda Perhacs e delle sua capacità di plasmare la dimensione sonora circostante senza alcuno sforzo. L’omogeneità che si raggiunge in questo è qualcosa che rende Relic unico, l’anello di congiunzione tra Laurel Canyon e il Village. Ma la qualità più grande di Emma Tricca è quella di attingere a pieno non solo dal gotha delle cantautrici, ascoltandola sembra di sentire un’artista cresciuta con Leonard Cohen e vissuta con Bob Dylan.

Non è un album dove si scimmiotta qualcuno o qualcosa, Relic da la voce ad un’epoca musicale riuscendo a condensarla in 34 minuti. Suona tutto così estremamente moderno e antico, come se la voce gracchiasse dal grammofono ma risultasse nitida, il paradosso che si prova nell’ascoltarlo è frutto di sensazioni così distanti che sembra tutto così naturale ed armonioso.

Sunday Reverie è la versione 2.0 di Sunday Morning, soffusa, intima e rilassante, una sonorità a tratti timida che strizza l’occhio al capostipite dei Velvet Underground (senza però quell’idea di paranoia che permea la canzone di Reed e compagni) resa angelica dai cori gospel nell’intro, dal gorgheggio della Tricca che mostra a tutti quanto ha studiato lo stile delle cantautrici anni ’60 (una su tutte Joan Baez).

Mi piace sottolineare la poliedricità dei brani presenti in questo album; non è semplice mantenere alta la concentrazione dell’ascoltatore per tutta la durata del disco, il fingerpiking che costruisce le strutture armoniche risulta delizioso e mai ripetitivo, le sonorità sono dilatate, la chitarra elettrica di accompagnamento fa un sapiente uso di feedback e una controparte ritmica che bilancia completamente i brani.

La versatilità di Emma Tricca alla voce è notevole, tant’è che a tratti ci si sorprende di come possa variare l’interpretazione da un brano all’altro, come inoltre con questa impostazione riesca a dare una identità ben precisa e arricchire di sfumature delicate tutte le sue creazioni.

Fred Neil – Bleecker & MacDougal

Fred Neil - Bleecker & MacDougal.jpg

Le origini sono importanti ed è fondamentale essere curiosi, studiare e approfondire la storia, questa ad esempio comincia tra la Bleecker e la MacDougal, due vie che si intersecano in un locale – il San Remo Cafe – rinomato per essere il punto di ritrovo per artisti, scrittori e musicisti. Stiamo parlando del quartiere del Greenwich Village a New York, dove il folk ha trovato nuova linfa e dove soprattutto nasce il secondo disco di Fred Neil: Bleecker & MacDougal.

Neil, nato a Cleveland e cresciuto in Florida, raggiunge New York a metà degli anni ‘50; ha passato la prima parte della propria vita a viaggiare con suo padre – un rifornitore di jukebox e dischi – questo ha contribuito a rendere Fred Neil una enciclopedia vivente capace di riconoscere la maggioranza dei dischi a cavallo tra gli anni ‘40 e ‘50.

La sua formazione musicale nasce da questo, lo stesso Neil ci ricorda i suoi primi passi nel mondo della musica, avvenuti proprio sulla MacDougal e suonando blues in giro per New York: “L’inizio per me è stato 4 anni fa [l’intervista – l’unica rilasciata da Neil in tutta la propria carriera – è datata 1966 ndr] al Cafe Wha? sulla MacDougal. Bobby Dylan, Dino Valente, Lou Gosset e Mark Spoelstra. I comici Godfrey Cambridge, Adam Keefee ed io, lavoravamo insieme al Wha? da almeno un anno. Le cose son venute fuori da quel piccolo sotterraneo, tutte le persone… sono successe così tante cose a tutte queste persone da allora.”

Un’atmosfera elettrica si viveva ad inizio anni ‘60 in quei posti, il generatore di questa elettricità era proprio quel Bobby citato da Fred, vero e proprio catalizzatore per i musicisti coevi. Solitamente alla base del movimento del Greenwich vi è una condivisione artistica basata su una relazione comune ed intensa da parte dei musicisti che assorbono – come per osmosi – le capacità degli altri e dopo si avventurano in ogni dove scrivendo la propria musica in maniera indipendente (scritta così sembra una cosa alla Highlander).

Bleecker & MacDougal è un classico esempio di folk elevato della costa est, un’evoluzione rispetto a Guthrie e Seeger, un qualcosa di più vicino al blues come ad esempio per Sweet Mama, Mississippi Train o Candyman, uno dei suoi brani più celebri, scritto per Roy Orbison nel 1961 ed incluso successivamente in Bleecker & MacDougal. Candyman è il soprannome con il quale gli abitanti degli stati del sud etichettano i papponi.

Il disco ha goduto della partecipazione – tra gli altri – di John Sebastian all’armonica e di Felix Pappalardi – bassista e produttore molto presente nella scena del Greenwich e vicino a tanti degli interpreti di quel mondo – oltre che Paul Rotchild come produttore musicale.

Fred ha un’idea ben precisa di quello che deve essere la propria musica, non necessariamente una hit, bensì qualcosa che assecondi la creatività, non vuole diventare una macchina che butta fuori sempre gli stessi singoli perché “vendono”. Fred non è interessato ai soldi, ha anche rifiutato grandi somme per dei concerti; a lui non importa, lui ha quel chiodo fisso di assecondare la propria essenza artistica, la sua carriera la dice lunga sul tipo che è stato.

Jackson C. Frank – Jackson C. Frank

Jackson C. Frank - Jackson C. Frank.jpg

Ascoltando Jackson C. Frank non possono non venire in mente tanti altri artisti, questo perché Jackson è la base. La base di tanti dei folksinger che sono passati per i nostri stereo.

Lo chiamano “leggenda dimenticata”, ma può anche essere ricordato come “l’uomo dei due mondi” o infelicemente “colui che è rimasto scottato”. Partiamo da quest’ultimo soprannome.

“Colui che è rimasto scottato”: all’età di 11 anni la vita di Frank cambia drammaticamente (la prima svolta drammatica di una lunga serie purtroppo), durante una lezione a scuola la caldaia esplode uccidendo parte della sua classe – 15 alunni – compresa la sua prima ragazza, lui si salva rimanendo ustionato. Durante la degenza in ospedale la maestra gli porta una chitarra con la quale può distrarsi ed imparare i rudimenti dello strumento. Negli anni sviluppa una sensibilità tale che lo portano ad avventurarsi come giornalista e al tempo stesso come cantautore in erba nel Greenwich Village.

“L’uomo dei due mondi”: a 21 anni la sua musica è ancora acerba, inoltre la sua vita si trova dinanzi ad un altro bivio: riceve una ingente cifra come risarcimento per l’incidente di 10 anni prima. Deluso dall’amore e dall’attuale situazione al Greenwich Village se ne va in Inghilterra, dove continua a scrivere brani riuscendo a fondere in maniera unica gli stili del folk newyorkese e inglese. Cominciano le collaborazioni con Bert Jansch e John Renbourn dei Pentangle, che si dimostrano grandi estimatori della musica di Frank.

L’Inghilterra lo ha fatto sbocciare completamente dal punto di vista musicale, tant’è che Paul Simon decide di produrre il suo primo – e unico – lavoro in studio. Scriveva tante canzoni Frank, ne componeva più di una contemporaneamente, non si distaccava da un’idea sino a quando non prendeva forma. La musica veniva sempre prima del testo, tranne per Yellow Wall, nella quale parla delle allucinazioni da dolore durante il ricovero in ospedale.

Le registrazioni vanno lisce come l’olio, salvo per il fatto che Frank richiede di rimanere nascosto durante le registrazioni, dimostrando ciò che ha sempre cercato di negare, ovvero un principio di schizofrenia paranoide conseguenza del tremendo incidente subito durante l’infanzia.

“Leggenda Dimenticata”: come nella gran parte delle storie musicali, il lieto fine non c’è. Jackson C. Frank si fermerà al primo lavoro solista, la morte del figlio e la separazione dalla moglie saranno le mazzate definitive che ne segneranno vita e carriera, addirittura tornerà a vivere dai genitori, per poi ottenere come sempre un riconoscimento postumo. “Era l’opposto del chiassoso americano, non promuoveva sé stesso […] Mi sono sentito K.O. quando l’ho sentito suonare. Aveva una chitarra Martin con sè, totalmente sconosciuta in Europa sino a quei giorni. Jackson Frank è stato molto più di quanto fosse Paul Simon. Ma Paul Simon ottenne la fama e Jackson Frank cadde nel dimenticatoio” ricorda John Renbourn.

Jackson C. Frank è un album che ha dentro Tim Buckley, Nick Drake, Phil Ochs, Simon & Garfunkel, Bert Jansch, Tim Hardin, prima che ci arrivassero loro. Blues Run The Game è l’apertura del disco, ed è stata interpretata più e più volte da tantissimi degli artisti citati prima (Drake, Simon & Garfunkel, Jansch, Renbourn, Fairport Convention, Mark Lanegan e tanti altri), così come Milk & Honey adesso forse conosciuta al pubblico più per la versione di Nick Drake che per l’originale (il che è tutto un dire se consideriamo la notorietà di cui ha goduto Drake fino a fine anni ’80).

Jackson Frank appartiene alla nostra musica più di quanto crediamo, lo ascoltiamo tutti i giorni senza saperlo, perciò d’ora in poi quando ascolterete un brano folk, rivolgete almeno un pensiero a quello che ci ha regalato Frank, forse finalmente si renderà conto di quanto di buono ha fatto per tutti noi.

 

Phil Ochs – I Ain’t Marching Anymore

Phil Ochs - I Ain't Marching Anymore.jpg

Ho sempre pensato a Phil Ochs come a un Luigi Tenco a stelle e strisce, non tanto per le canzoni che hanno approcci opposti, quanto per l’affinità delle carriere e del destino che ha imposto loro un finale che non avrebbero meritato.

Phil Ochs a mio avviso è stato uno dei più grandi cantautori americani, nulla da invidiare a Bob Dylan – suo amico-nemico (come Red e Toby) – prima fonte di ispirazione e successivamente poeta da rincorrere nel gotha degli intellettuali d’oltreoceano.

Se Dylan è la spocchia maestosa, borghese e algida della rivoluzione sociale, Phil Ochs è la voce del terzo stato, potente e delicata, verace quanto basta per renderlo uno dei principali autori del Greenwich Village.

Figlio del popolo; una rabbia gentile avvolta dalla voce calda e dallo sguardo guascone e bonario del cantante.

I Ain’t Marching Anymore è un grido rivolto all’attitudine militaristica degli Stati Uniti, una protesta contro ogni tributo di sangue che storicamente l’America ha preteso dalla sua gente.

La canzone comincia con una progressione rapida e rabbiosa di note, una proiezione dei colpi di fucile sparati da Ochs nei confronti di un paese che non sente più suo. La panoramica che Phil Ochs offre è impietosa e stupefacente, con fare da cronista navigato analizza la breve vita del suo paese, punto per punto, mettendo a nudo la necessità di ricorrere alla violenza per ogni situazione.

* pippone storico 

Si comincia citando la “battaglia inutile”di New Orleans, tra inglesi e americani, ove la notizia della pace siglata con il trattato di Gand non è giunta in tempo per fermare lo spargimento di sangue, si prosegue così con la disfatta di Little Bighorn, dove tutto il settimo reggimento insieme a Custurd viene spazzato via. Dopo le battaglie coi pellerossa, si passa all’espropriazione dei territori messicani.

Ma quando i nemici si esauriscono fuori dal proprio giardino, è necessario crearli all’interno delle quattro mura domestiche… quindi giù di guerra civile: il conflitto fratricida tra nord e sud. E poi, la decisione di intervenire nelle “trincee tedesche” per combattere una guerra che avrebbe posto fine a tutte le altre. Naturalmente così non è stato, considerato che i cieli giapponesi sono stati attraversati dagli ammerigani e con una delle più grandi dimostrazioni di forza il resto del mondo è stato annichilito.

*/end of pippone storico 

Dopo questa breve e noiosa lezione di storia contemporanea, quello che riassume il pensiero di Ochs, è il ritornello col quale punta il dito verso chi governa: “Sono sempre i vecchi a guidarci verso la guerra, sono sempre i giovani a cadere”.

E’ palese come Phil sia riuscito a raccogliere a piene mani l’eredità di Woodie Guthrie e Pete Seeger incarnando lo spirito socialista e rivoluzionario, che sempre più forte si farà sentire nel 1968. Tutto il leit motiv del disco e della gran parte della carriera del cantautore è incentrata sulla protesta, per questo è stato creato anche un dossier nei suoi confronti da parte dell’efbiai, bollato come sovversivo, chiamato a volte Oachs, colpevole di aver compiuto “nefandezze” anche dopo la morte (scoperta successivamente dai federali).

Non solo il braccio della legge, anche la gente lo ha eletto come uno dei leader della controcultura, tant’è che Draft Dodger Rag è diventata l’inno dei movimenti contro la guerra in Vietnam. La canzone ha preso forma quando il coinvolgimento dei magna-cake in Vietnam si è fatto sempre più concreto. Ochs si immedesima in un ragazzo di 18 anni chiamato alle armi che elenca una serie di scuse (degne di un adolescente in pubertà che non vuole andare a scuola) per i quali non dovrebbe servire, quali ad esempio: una vista da pipistrello; l’asma in continuo peggioramento; piedi piatti; ernia del disco; milza spappolata; allergia ai fiori e agli insetti.

Il ragazzo cerca di allisciare il sergente come Alvaro Vitali con la propria maestra nei film di Pierino, dimostrandogli quanto tenga al proprio paese dicendogli che sarebbe in prima linea se fosse una guerra senza sangue e squartamenti.

Here’s to the state of Mississipi ci conduce alla chiusura del disco, essa nasce come una satira nei confronti dello stato del sud e della sua popolazione, calcando la mano sui comportamenti vessatori dei Mississipini. Successivamente, questa canzone, ritornerà in auge per il riadattamento sempre dello stesso cantautore in Here’s to the State of Richard Nixon e più recentemente per una scrittura a 4 mani di Eddie Vedder e Tim Robbins (Here’s to the state of the Judges).

Ciò che balza all’orecchio è la completezza di un disco che talvolta con melodie allegre, testi sarcastici e cronistici, riesce ad illustrare il paradigma del paese che vorrebbe esaltandone i difetti senza peli sulla lingua. Un reporter apprezzato immensamente dai suoi colleghi del Village, vittima di una competitività troppo accesa con un Dylan che ne ha smorzato la carriera (nonostante le numerose incomprensioni, la situazione tra i due si è grosso modo sistemata negli anni successivi)

Dave Van Ronk – Inside Van Ronk

Dave Van Ronk - Inside Dave Van Ronk.jpg

Quest’oggi parleremo dell’icona del Greenwich Village, tanto eminente da essere soprannominato sindaco della MacDougal. Ha ispirato il film dei fratelli Cohen Inside Llewyn Davis pur non rappresentando il nostro caro Dave – non solo dal punto di vista fisico (Van Ronk era un manzetto) – ma offrendo al compianto cantautore una nuova celebrità, forse maggiore rispetto a quanta ne avesse avuta nel periodo d’oro della sua carriera.

Inside Dave Van Ronk è stato registrato nel 1962 assieme a Dave Van Ronk Folksinger ma, a differenza di quest’ultimo, edito due anni dopo e contenente tutti brani tradizionali. Risulta – in parte – il sunto della carriera dello stesso Van Ronk: un abile interprete di brani tipici della tradizione, in uno stile che si fonde tra il folk ed il blues con una voce roca e vibrante senza tempo, che in House Carpenter somiglia a Mark Lanegan tanto quanto in I Buyed Me A Little Dog ricorda Nick Drake.

Dave Van Ronk ha introdotto il folk moderno e ispirato Tom Waits (che probabilmente si è rifatto al suo modo di cantare) e Bob Dylan (i due erano grandi amici), arrangiando i classici statunitensi in chiave moderna; già, perché nonostante siano passati più di 50 anni, molti dei brani di questo disco suonano cristallini e pienamente in linea con quanto ci propongono cantautori intimi contemporanei.

Dylan lo ricorda con queste parole “era passionale e pungente […] cantava come se dovesse saldare il conto con la fortuna e suonava come se avesse pagato il prezzo… amavo il suo stile”. Lo amava talmente tanto da fargli la posta davanti la porta di casa pur di parlare con lui davanti ad una tazza di tè durante gli inizi della propria carriera. Van Ronk era un omone burbero ma anche molto felice di poter scambiare parole e condividere le proprie idee musicali con chi gliele chiedesse.

Non voglio tanto scrivere dei brani contenuti in questo album – reinterpretati con gli arrangiamenti di Van Ronk (come Silver Dagger e House Carpenter) da quasi tutti i principali folksinger della scena newyorchese e no -, il mio intento è rendervi partecipi della presenza nella storia della musica, e più nello specifico in quella del Greenwich Village di Dave Van Ronk.

Seppur con pochi anni più di Joan Baez, riusciva tra gli anni ‘50 e inizio ‘60 ad apparire come stella polare e chioccia dei principali artisti del Greenwich, la cantautrice ce lo ricorda con queste parole “era già un mito, aveva dei denti terribili ma anche una delle tonalità più incredibili che avessi mai sentito, dolci note in mezzo ad altre ringhiate. Ho conosciuto centinaia di persone che cantavano il blues, ma tanti non erano in grado di farlo così bene. Era l’artista più in grado di avvicinarsi a Leadbelly che abbia mai visto.”

Bob Dylan – Highway 61 Revisited

Bob Dylan - Highway 61 Revisited.jpg

1963 Newport Folk Festival, Bob Dylan si esibisce con Blowin’ In The Wind insieme ad altri capisaldi del folk come Peter, Paul and Mary e Joan Baez. Successone! Applausi e pompini per Bob. (the answer my friend is a blowjob in the wind)

1964 Newport Folk Festival, Bob Dylan si esibisce con Mr. Tambourine… Successone! Applausi e pompini a profusione per Bob.

1965 Newport Folk Festival, con Bringing It All Back Home, Bob ha inaugurato una nuova fase della propria carriera, elettrificando il folk in un lato del disco e preparando di fatto il terreno alla svolta elettrica di Highway 61 Revisited. Ora, il Newport Folk Festival non si chiama così tanto per… è un festival folk e la gente solitamente si esibisce da sola con la chitarra – o con altri con la chitarra – e crea queste situazioni intime molto belle ma al contempo un po’ scassamaroni. Cioè capite le mie parole… non sono tutti Bob Dylan (e Bob Dylan tante volte non è campione di intrattenimento).

Vabè lui di punto in bianco dice “Cazzo se lo faccio. Sì sì che lo faccio. Adesso mi porto la band. Adesso amplifico tutto.”, si presenta e TAC!… contestazione. Dal pubblico salgono i “Buuuh” “Buuh” e di tanto in tanto qualche “Buuuarns“.

Bob Dylan perde la sua verginità artistica, l’affronto verso il suo pubblico è enorme, sporcherà per sempre quella sua immagine da menestrello di protesta, ma lo fa a ragione. Stanco di rappresentare e cantare qualcosa che non sente più suo, di ritorno dal Regno Unito decide di cambiare, e la canzone che lo spinge a prendere questa decisione andrà ad aprire non solo Highway 61 Revisited, ma anche la mentalità dei musicisti di tutto il mondo.

Like A Rolling Stones apre con un secco colpo di batteria e con una chitarra elettrica. Houston! Abbiamo un problema! Non si vuol più fare del folk qui!

L’idea di Dylan era quella di oltrepassare il sound folk elettrificato utilizzato in Bringing It All Back Home pochi mesi prima – cercando di alzare l’asticella rispetto la versione di Mr. Tambourine dei The Byrds. Quindi reinventa sé stesso e si issa a traino per le nuove generazioni di musicisti. Sentire così tante cover delle sue canzoni, masticate, metabolizzate, arrangiate ex-novo con un suono così fresco ha risvegliato in Dylan l’idea di scuotere il modo di intendere il folk classico.

Lo fa con una canzone che nasce su 10 pagine, “non aveva un nome, aveva ritmo, avevo scritto delle invettive sparse. Alla fine mi sono reso conto che non era disprezzo, bensì dire a qualcuno qualcosa che non sa, dire loro che sono fortunati. Non l’ho mai pensata come canzone, finché un giorno non mi sono trovato al piano ed il foglio davanti a me stava cantando ‘How does it feel?‘ con un ritmo lento, uno slow-motion estremo”.

Durante le registrazioni – avvalendosi di gente del calibro di Al Kooper, Bruce Langhorne, Bobby Gregg e alla chitarra Mike BloomfieldZimmy disse subito “Ragazzi, non voglio una merda blues alla B.B. King“. Ecco in quel preciso istante prese vita la canzone che rappresenta Bob Dylan in tutto il mondo.

Continuando ci troviamo ad ascoltare canzoni più legate allo stile passato come la stupenda Desolation Row, altre al blues come Tombstone Blues, nel quale Zimmy ci da un assaggio del suo nuovo stile di scrittura surreale cantato in scioltezza come usavano fare i suoi mentori Guthrie e Seeger; canzoni come Ballad of a Thin Man, splendida canzone che di sicuro ha influito sul sound delle Murder Ballads di Nick Cave.

Ma chi è il Thin Man? “È una persona reale […] l’ho visto venire in camerino una sera e sembrava un cammello.” Probabilmente Mr. Jones non è il suo vero nome, in molti hanno pensato fosse un critico che non capiva i testi di Zimmy; col passare del tempo ha acquisito un significato ben specifico, con Mr. Jones si intende l’uomo medio borghese, senza infamia e senza lode, il nostro signor Rossi se dovessimo fare un parallelo. “Questa canzone l’ho scritta per tutti coloro che mi facevano domande tutte le volte. Ero semplicemente stanco di rispondere a tutte queste domande che non avevano risposta”.

Il disco ci lancia nel bel pieno di un viaggio in auto nella Highway 61, quella lingua di strada che va dal New Orleans al Wisconsin (al confine col Canada) costeggiando sempre il Mississippi. Una strada che passa anche per Duluth e che taglia gli Stati Uniti dal Sud al Nord. La title track è arrembante, stupenda, veloce, ricorda la versione che i Canned Heat faranno di On The Road Again, un blues rock spinto (del quale PJ Harvey farà una stupenda cover in Rid Of Me).

La fotografia del disco è stata scattata nei pressi del Greenwich Village, non proprio nelle zone dell’Highway 61, Dylan si è comprato una maglia della Triumph e – non essendoci uno sfondo ricco di particolari – Daniel Kramer, il fotografo, ha chiesto all’amico di Bob Dylan, tale Bob Neuwirth di piazzarsi dietro lui. Bella storia de merda che c’è dietro sta copertina, eh? Come al solito gli esperti di semiotica sono andati a caccia di dettagli che giustificassero la poetica del Dylan, ma che effettivamente non ci sono. Ragazzi belli, non è che tutto debba avere un senso!

Highway 61 Revisited è il perfetto album d’accompagnamento in un viaggio, è completo in ogni sua sfaccettatura. Per citare Scaruffi “la differenza tra Dylan e gli altri è che gli altri interpretano meglio le sue canzoni perché si limitano a cantarle; lui però non canta le proprie canzoni, le vive”.