Daniele Pace – Vitamina C

Hey tu, 
Stai perdendo, stai perdendo, 
Stai perdendo la Vitamina C 
Vitamina C 

Tranquillizzatevi subito, Daniele Pace non si è cimentato con la cover italiana di Vitamin C dei Can, mi auguro che questa non esista; mi auguro inoltre che questo incipit non spinga menti malate a sviluppare una cover in italiano di quel gioiellino regalatoci da Damo Suzuki e compagnia bella [ho avviato una piccola ricerca nel mentre e non ho trovato tracce di una versione italiana di Vitamin C ndr]. 

Orquinque, il ricambio generazionale ha contribuito a dimenticare certe figure centrali dell’ironia dotta, abrasiva e nonsense, così per chi fosse giovine o per gli avulsi dalle pubblicazione susseguitesi in codesto cantuccio digitale, forse il nome di Daniele Pace può suonare sconosciuto, a qualcun altro remoto, gli habitué di Pillole al contrario avranno più dimestichezza con la sua erre moscia e con la discografia prodotta assieme agli Squallor. E la di già pubblicata Troia, con quel cavallo in fiamme che troneggia nella copertina, con inclusa la meravigliosa 38 Luglio sarebbero caduti a cocco de pippa per questo ciclo di pubblicazione estiva, essendo però una carta già giocata me la cavo con questa pietra miliare della musica italiana. 

Le note di Che t’agg a fa hanno riempito le case degli italiani come sigla di chiusura del programma La Sberla (1979), prima dell’avvento delle reti private. Forse anche per questo Vitamina C risuona lontano, tra sogno e incanto, proveniente da un paese che sbocciava di ottimismo e che sentiva profumo di un futuro roseo e ben oltre quanto siamo ridotti a pensare oggi.  

La spensieratezza e la delicatezza attraversano tutto il disco, anche quando si trattano tematiche “scomode” (più per il pensiero retrogrado che permea la società odierna che per l’argomento in sé) e che oggi sembrano lo spauracchio di tutti come in OrgasmoLa Spirale o VaffanculoDonna Maddalena, questo senso di libertà e positività – anche quando la vita ti calcia sugli stinchi – si percepisce già dal collage di polaroid che compone la copertina di questo disco.  

Vitamina C sembra partorito en passant, in bermuda, infradito e sigaretta in bocca, mentre si sorseggia una bionda chiara, un po’ come si era soliti comporre tutti i dischi degli Squallor, anche se non assimilabile alla produzione espressa assieme ai suoi tre sodali. Questa apparente semplicità e decadenza italiana, che passa anche in brani come Mamma Margherita, conquista la rigidità tedesca [presumo abbiano consumato Vitamina C durante le vacanze estive spese in Italia, tanto lontana da quella Vitamin C proveniente dai conterranei Can ndr] meritando la pubblicazione in krukkialand.  

Leggerezza che traspira da ogni brano, e ci tengo ad aggiungere che ogni canzone presente in Vitamina C avrebbe potuto tranquillamente essere una hit, sicuramente a questo sensazione contribuisce non solo la musicalità del dialetto napoletano ma anche gli arrangiamenti di fino – a marchio Gian Piero Reverberi – che mettono sotto gli occhi di tutti un’attenzione alta di cui i faciloni tendono a non considerare quando si ascolta la musica ironica/demenziale, come se si affrontasse un catalogo di serie b [in tal senso trovate un mio articolo qui ndr], ad esempio Ma Che Casino sembra anticipare alcuni brani di Paolo Conte presenti nell’omonimo disco del 1984

Un brano come Piccerè ha dato recentemente la giusta ribalta a questo disco e al genio di Daniele Pace grazie alla felice rilettura del Martin Eden di Jack London avvenuta da parte di Pietro Marcello, che ha ambientato la storia in una Napoli passata e senza tempo, con il piano ritmato e il sussurro sensuale di Pace ad aprire la pellicola. 

Insomma, a me la figura di Daniele Pace ha sempre ricordato quella dell’amico di famiglia che viene invitato il sabato sera a cena, che tiene il banco tra bottiglie di vino condivise e la sigaretta di fine pasto, colui che spara cazzate a raffica con la faccia seria e la voce inflessibile, con quella erre moscia che lo rende unica ed inimitabile anima della festa. Godetevi questo gioiellino.

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Lucio Battisti – Anima Latina

Questa pillola comincia con una rivelazione bomba: non ho mai amato particolarmente Lucio Battisti.  

OK! Dopo aver suscitato il vostro scalpore con questo inizio bruciapelo, mi sento di continuare questa confessione affermando che: non mi sono mai sentito in dovere di scoprirlo [arghhhh ndr]. 

Ora che ho catalizzato il vostro odio, vorrei aggiungere a mia discolpa che da quando mi sono imbattuto in Anima Latina, si è aperto un nuovo mondo per me, come se finalmente avessi capito la grandezza di Battisti.  E sono contento che questo articolo coincida con la sua venuta su Spotify, in modo tale che possiate ritrovare questo album e goderne senza troppi giri.

Certo, avrei trovato più coraggioso registrare un disco intitolato Anima Ladina e dedicato alle dolomiti, ma il tentativo orchestrato dal duo Battisti/Mogol è stato particolarmente audace per l’epoca, riuscendo a ridefinire – al rialzo – lo standard della musica leggera italiana. 

Partiamo però dalle basi, cos’è Anima Latina?  

Nono album del Battisti, concepito durante un tour promozionale speso tra Brasile e Argentina (in un periodo storicamente complicato per i due paesi, con il regime dittatoriale nel paese carioca e la crescente formazione di gruppi armati estremisti in Argentina), rappresenta un disco di rottura rispetto al passato, capace di osare e uscire dal giardino del nazional popolare sapientemente agghindato negli anni – insieme a Mogol –  con hit da classifica e classiconi senza tempo. Sì, perché Anima Latina è un discone che nonostante l’abbandono della forma canzone classica (e l’ammiccamento forterrimo agli standard jazz, al progressive e la sperimentale dell’epoca), ha trovato modo di imporsi nella classifica nazionale raggiungendo dati di vendita importanti. Il tutto, nonostante la critica abbia ampiamente pisciato in faccia a Battisti per questa scelta. Critici di tutto il mondo, certo che voi siete come la tipa di Cara Ti Amo, non vi sta mai bene un cazzo! 

Anima Latina, opera complessa che ha richiesto oltre 6 mesi di registrazione, non è solamente un esercizio di stile, bensì la volontà precisa di sperimentare contaminando, di sfidare le convenzioni con brani dalla durata di 6-7 minuti o reprise superbrevi. Una testimonianza atta a costruire un ponte tra culture distanti, ma anche a dimostrare che il repertorio di Battisti può essere farcito di canzonette sole-cuore-amore, ma dietro – senza troppa fatica – c’è una capacità di lavorare a melodie e testi compositi capaci di far ricredere critica e pubblico sulle qualità di Lucio. Eh sì, non è da meno dello squadrone di cantautori coevi impegnati [che qualcuno non avrebbe remore a chiamare i cantautoroni di Bruxelles ndr].  

Per dare una forma a questo guanto di sfida verso l’opinione pubblica e critica, si circonda di una band coi controcazzi: troviamo oltre al famigerato Gneo Pompeo (che leggenda vuole sia il buon Gian Piero Reverberi, anche se ci sono versioni discordanti che legherebbero questa figura a Gabriele Lorenzi), Ares Tavolazzi, Claudio Maioli, Claudio Pascoli e Alberto Radius (questi ultimi due [soprattutto Radius ndr] a lungo collaboratori di Battiato).  

La folgorazione per la scrittura di Anima Latina avviene durante il viaggio in Sud America, come già scritto, quando Battisti scopre che musica e vita si fondono in un’unicum estremamente diretto, gioioso, alla ricerca dello spirito primitivo della musica: la comunione. Ben rappresentata anche dalla copertina, fotografata da Cesare Montalbetti, piena zeppa di bambini [o nani? Ndr] che suonano e ballano come fossero una banda. D’altronde il buon Vinicius De Moraes insieme al buonissimo Sergio Endrigo ci hanno regalato, nel 1969, il Samba Delle Benedizioni che racchiude un po’ quanto portato in dote da Battisti: l’amore, la tristezza, le donne e un concetto che troviamo in Anima LatinaLa vita, amico, è l’arte dell’incontro, malgrado ci siano tanti disaccordi nella vita.

Non ci sono barriere tra il pubblico e i musicisti, ma unità di intenti e rispetto reciproco che esplode in un divertimento che non prevarica sull’ascolto, ma lo aiuta. Una gioia che traspare nonostante le complessità vissute in quegli anni dai paesi sudamericani.  

Quest’ultimo punto influenza pesantemente i mixaggi dell’album, che presenta diversi passaggi con voci sussurrate, parole non facilmente comprensibili, strumenti che prevaricano le linee vocali. Un escamotage intelligente da parte di Battisti per spingere ad ascoltare l’album e non parcheggiarlo in sottofondo; una lotta contro la pigrizia uditiva ma anche un pungolo nei confronti di chi troppo spesso si arrende ad un giudizio affrettato del primo ascolto. Della serie: se ti interesso mi ascolti, anche se la mia voce si confonde tra le note e le grida di sfondo.  

In fase di ultimazione del disco si sono verificate delle frizioni tra Mogol e Battisti, in quanto il Gran Mogol s’è messo di traverso imponendo di alzare il volume della voce che altrimenti sarebbe stato ancora più ridotto (Battisti avrebbe voluto in alcuni casi un sussurro da maniaco… su tutte La Macchina Del Tempo e Anonimo presentano momenti incomprensibili che potrebbero confondere gli ascoltatori occasionali). 

Ho trovato questa scelta meravigliosa, così fuori dal tempo, ma di gran cuore nei confronti del pubblico. Un tentativo coraggioso di svegliare le coscienze, anche perché sostenuto dalla fama di Battisti che all’epoca si interfacciava con un pubblico estremamente eterogeneo. Pensate, se già nel 1974 questa opzione veniva considerata coraggiosa ad oggi una scelta del genere scatenerebbe la collera dell’ascoltare, che preso da rrrabbia non capirebbe dando la colpa all’artista.  

Tornando al viaggio sudamericano [se non ve ne foste accorti questo disco è stato concepito in sudamerica e blablabla… l’ho già scritto trentordici volte ndr] Battisti riporta nella valigia le tematiche principali del disco, che sono identificabili nell’erotismo, l’amore e la vitalità. In particolare la sessualità viene affrontata in maniera estremamente delicata – a tratti raffinata – dal duo Battisti/Mogol, intenti a raccontarci la scoperta del corpo nel periodo dell’infanzia e dell’adolescenza.  

Con sensibilità fuori dal comune il duo delle meraviglie ci butta giù testi sui primi seghini, sul gioco del dottore e sulle prime pomiciatelle [naturalmente non in questi termini, nemmeno con queste parole… mi auguro Mogol non legga mai queste righe. Esimissimo Mogol, non legga la prego ndr], con l’innocente Il Salame e la meno innocente Anonimo, troviamo due capolavori da pesi massimi, con quest’ultima che termina con una strombettata da banda sulle note de I Giardini di Marzo.  

Poi su Due Mondi un Battisti in duetto con Mara Cubeddu, rifiuta di andare in vigna a ficcare duro, o meglio… lei parte in sordina, poi gli dice che lo vuole e parte la schitarrata mezza mariachi. Al che lei insiste, chiede più volte di appartarsi in vigna per ficcare, anche in falsetto, ma lui fa il sostenuto. Della serie, dico di no all’inizio, mi faccio vedere risoluto e sembra che sono un fichetto tetragono. Bravo Lucio, resisti e lavora che la vendemmia non aspetta te! Per chiavare c’è sempre tempo! 

Questo articolo sta scadendo nella trivialità più becera, me ne rendo conto, ma è tutto un contraltare studiato a puntino per bilanciare lo spessore enorme del disco, che trovo perfetto sotto ogni suo aspetto.  

Sì, perfetto, non esagero.

Perché anche le imperfezioni sono al posto giusto, rendendo Anima Latina ancora più maestoso. Ma mettetelo sul piatto solo 5 minuti ragazzi miei, sentite quando suona bene da Dio ancora oggi? Ma lo sentite quanto è attuale? Fermatevi ad ascoltare i deliri, le jam che prendono la tangente, sono da pelle d’oca e non esagero. 

Vorrei tanto raccontare ogni sfumatura di questo capolavoro, ma non è il caso di tediarvi. In fondo questo spazio si chiama Pillole Musicali e il format negli ultimi tempi sta andando un po’ a baldracche. Mi accontento di avervi instillato la voglia di riprendere in mano questo disco, magari in maniera più consapevole rispetto ai bei tempi che furono.

A presto!