Alice – Alice

Ok. Questo è tutto fuorché un disco estivo… però ecco, con un tocco di magia ed un po’ di fantasia ce lo possiamo far diventare. In fondo siamo noi che decidiamo quando ascoltare delle canzoni, pertanto facciamo in modo che una Per Elisa non sia relegata all’etichetta della canzone sanremese, ma facciamola risuonare in filodiffusione nelle spiagge e nelle piscine di tutta Italia.  

In fondo, anche questo omonimo disco di Alice, ben si incastona nel presente ciclo, non disattendendo le alte aspettative prodotte da Capo Nord. Proprio in Capo NordAlice in una recente intervista rilasciata a Vanity Fair, ha riconosciuto la propria svolta nella carriera, prodroma del successo di SanremoPer Elisa è la consacrazione definitiva, la leva capace di offrirle la notorietà non solo nello stivale ma anche nella Germania, patria della musica elettronica. Un riconoscimento dal notevole peso specifico per chi si spende tra sintetizzatori e sonorità “stravaganti” (per l’epoca). 

A differenza di quanto largamente creduto, Per Elisa non racconta di droga, bensì di dipendenza sentimentale. Che poi gli ascoltatori l’abbiano connotata in questa maniera viene apprezzato dai due autori, ma di fatto è stata scritta pensando ad un amore tossico (tanto da comparire nella colonna sonora dell’omonimo film di Claudio Calligari), osservando il circostante e non basandosi su una storia personale di chi l’ha scritta.  

La canzone è stata sviluppata partendo dal titolo: Franco Battiato ha dato l’abbrivo con la frase iniziale “Per Elisa vuoi vedere che perderai anche me” dalla quale poi è fluita tutta la canzone. Il tocco di genio è il vocalizzo dell’omonima bagatella di Beethoven [dimostrando che a Beethoven Sinatra di fatto non preferiva l’insalata; lo stesso Battiato ricordava con affetto quello scherzo provocatorio ndr], che assume una connotazione cupa nella vocalità emessa da Alice.  

In fase di arrangiamento il superbo lavoro di Battiato Giusto Pio è riuscito nell’intento di spingere ancora di più le parole scelte da Alice Battiato.  

Avevo qualcosa da dire? Lo dicevo. Se no, stavo zitta. […] Sarebbe opportuno comportarsi così, in generale. Ma i mezzi di comunicazione di oggi alimentano la superficialità: le parole vengono espresse senza una vera consapevolezza. E quando invece c’è, spesso c’è anche dolo.” 

Una severità che può essere spiazzante, ma che regge su solide basi e che trovo condivisibile, una dote sempre più rara. Difficile da trovare nella società odierna.  

Dopo anni spesi come interprete di brani altrui, Alice decide con risoluzione di dare voce alle proprie parole, una necessità esaltata in Battiato: la sponda giusta per accrescere la capacità nella scrittura. Per quanto la prima parte di carriera di Alice non sia assolutamente da buttare, si nota  – da Capo Nord in poi – il cambio di marcia che si ha nel cantare qualcosa sgorgato dalla propria penna (come A te…Non Ti Confondere Amico e Non Devi Avere Paura). 

Alice dimostra uno spessore che lo emancipa dalla banalità del pop circostante, ad esempio in Una Notte Speciale si vive quel climax musicale che pone un accento etereo al disco, vestendolo di un valore celestiale in contrapposizione alla gravità respirata nell’epica Per Elisa. Senza Cornice ha un sax di sottofondo (suonato da Hugo Heredia)  che risente delle influenze dello zingaro felice (Claudio Lolli) sul quale poi partono l’oboe ed il clarino dal forte odore di Pasqua Etiope

Successivo alla chiusura di Capo Nord con Guerriglia Urbana, passiamo al Tramonto Urbano, anche questo scandito dalla chitarra di Radius che fa da contraltare alla potente voce di Alice che si lascia andare in un grido accorato per tutta la canzone. Decisamente meno squillante rispetto al finale di Capo Nord, ma capace di incastrarsi nell’orecchio dell’ascoltatore rimbombando nel cranio per le ore successive all’ascolto. 

Piccola nota finale: al disco, oltre all’inossidabile duo Battiato-Pio, partecipano Alberto RadiusPaolo Donnaruma al basso (bassista nelle sessioni ne La Voce del Padrone) e l’enorme Walter Calloni alla batteria (che di qua e di là ci mette il suo tiro bello dritto e puntuale).  

Insomma ascoltando Alice, vi renderete conto che in questo disco due-tre chicche adatte alla vostra playlist estiva le troverete senza troppi problemi, nonostante magari quella frivolezza e l’edonismo tipico degli anni ‘80 non figurino più di tanto… e forse direi che questa non è mica una nota negativa. 

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Lucio Battisti – Anima Latina

Questa pillola comincia con una rivelazione bomba: non ho mai amato particolarmente Lucio Battisti.  

OK! Dopo aver suscitato il vostro scalpore con questo inizio bruciapelo, mi sento di continuare questa confessione affermando che: non mi sono mai sentito in dovere di scoprirlo [arghhhh ndr]. 

Ora che ho catalizzato il vostro odio, vorrei aggiungere a mia discolpa che da quando mi sono imbattuto in Anima Latina, si è aperto un nuovo mondo per me, come se finalmente avessi capito la grandezza di Battisti.  E sono contento che questo articolo coincida con la sua venuta su Spotify, in modo tale che possiate ritrovare questo album e goderne senza troppi giri.

Certo, avrei trovato più coraggioso registrare un disco intitolato Anima Ladina e dedicato alle dolomiti, ma il tentativo orchestrato dal duo Battisti/Mogol è stato particolarmente audace per l’epoca, riuscendo a ridefinire – al rialzo – lo standard della musica leggera italiana. 

Partiamo però dalle basi, cos’è Anima Latina?  

Nono album del Battisti, concepito durante un tour promozionale speso tra Brasile e Argentina (in un periodo storicamente complicato per i due paesi, con il regime dittatoriale nel paese carioca e la crescente formazione di gruppi armati estremisti in Argentina), rappresenta un disco di rottura rispetto al passato, capace di osare e uscire dal giardino del nazional popolare sapientemente agghindato negli anni – insieme a Mogol –  con hit da classifica e classiconi senza tempo. Sì, perché Anima Latina è un discone che nonostante l’abbandono della forma canzone classica (e l’ammiccamento forterrimo agli standard jazz, al progressive e la sperimentale dell’epoca), ha trovato modo di imporsi nella classifica nazionale raggiungendo dati di vendita importanti. Il tutto, nonostante la critica abbia ampiamente pisciato in faccia a Battisti per questa scelta. Critici di tutto il mondo, certo che voi siete come la tipa di Cara Ti Amo, non vi sta mai bene un cazzo! 

Anima Latina, opera complessa che ha richiesto oltre 6 mesi di registrazione, non è solamente un esercizio di stile, bensì la volontà precisa di sperimentare contaminando, di sfidare le convenzioni con brani dalla durata di 6-7 minuti o reprise superbrevi. Una testimonianza atta a costruire un ponte tra culture distanti, ma anche a dimostrare che il repertorio di Battisti può essere farcito di canzonette sole-cuore-amore, ma dietro – senza troppa fatica – c’è una capacità di lavorare a melodie e testi compositi capaci di far ricredere critica e pubblico sulle qualità di Lucio. Eh sì, non è da meno dello squadrone di cantautori coevi impegnati [che qualcuno non avrebbe remore a chiamare i cantautoroni di Bruxelles ndr].  

Per dare una forma a questo guanto di sfida verso l’opinione pubblica e critica, si circonda di una band coi controcazzi: troviamo oltre al famigerato Gneo Pompeo (che leggenda vuole sia il buon Gian Piero Reverberi, anche se ci sono versioni discordanti che legherebbero questa figura a Gabriele Lorenzi), Ares Tavolazzi, Claudio Maioli, Claudio Pascoli e Alberto Radius (questi ultimi due [soprattutto Radius ndr] a lungo collaboratori di Battiato).  

La folgorazione per la scrittura di Anima Latina avviene durante il viaggio in Sud America, come già scritto, quando Battisti scopre che musica e vita si fondono in un’unicum estremamente diretto, gioioso, alla ricerca dello spirito primitivo della musica: la comunione. Ben rappresentata anche dalla copertina, fotografata da Cesare Montalbetti, piena zeppa di bambini [o nani? Ndr] che suonano e ballano come fossero una banda. D’altronde il buon Vinicius De Moraes insieme al buonissimo Sergio Endrigo ci hanno regalato, nel 1969, il Samba Delle Benedizioni che racchiude un po’ quanto portato in dote da Battisti: l’amore, la tristezza, le donne e un concetto che troviamo in Anima LatinaLa vita, amico, è l’arte dell’incontro, malgrado ci siano tanti disaccordi nella vita.

Non ci sono barriere tra il pubblico e i musicisti, ma unità di intenti e rispetto reciproco che esplode in un divertimento che non prevarica sull’ascolto, ma lo aiuta. Una gioia che traspare nonostante le complessità vissute in quegli anni dai paesi sudamericani.  

Quest’ultimo punto influenza pesantemente i mixaggi dell’album, che presenta diversi passaggi con voci sussurrate, parole non facilmente comprensibili, strumenti che prevaricano le linee vocali. Un escamotage intelligente da parte di Battisti per spingere ad ascoltare l’album e non parcheggiarlo in sottofondo; una lotta contro la pigrizia uditiva ma anche un pungolo nei confronti di chi troppo spesso si arrende ad un giudizio affrettato del primo ascolto. Della serie: se ti interesso mi ascolti, anche se la mia voce si confonde tra le note e le grida di sfondo.  

In fase di ultimazione del disco si sono verificate delle frizioni tra Mogol e Battisti, in quanto il Gran Mogol s’è messo di traverso imponendo di alzare il volume della voce che altrimenti sarebbe stato ancora più ridotto (Battisti avrebbe voluto in alcuni casi un sussurro da maniaco… su tutte La Macchina Del Tempo e Anonimo presentano momenti incomprensibili che potrebbero confondere gli ascoltatori occasionali). 

Ho trovato questa scelta meravigliosa, così fuori dal tempo, ma di gran cuore nei confronti del pubblico. Un tentativo coraggioso di svegliare le coscienze, anche perché sostenuto dalla fama di Battisti che all’epoca si interfacciava con un pubblico estremamente eterogeneo. Pensate, se già nel 1974 questa opzione veniva considerata coraggiosa ad oggi una scelta del genere scatenerebbe la collera dell’ascoltare, che preso da rrrabbia non capirebbe dando la colpa all’artista.  

Tornando al viaggio sudamericano [se non ve ne foste accorti questo disco è stato concepito in sudamerica e blablabla… l’ho già scritto trentordici volte ndr] Battisti riporta nella valigia le tematiche principali del disco, che sono identificabili nell’erotismo, l’amore e la vitalità. In particolare la sessualità viene affrontata in maniera estremamente delicata – a tratti raffinata – dal duo Battisti/Mogol, intenti a raccontarci la scoperta del corpo nel periodo dell’infanzia e dell’adolescenza.  

Con sensibilità fuori dal comune il duo delle meraviglie ci butta giù testi sui primi seghini, sul gioco del dottore e sulle prime pomiciatelle [naturalmente non in questi termini, nemmeno con queste parole… mi auguro Mogol non legga mai queste righe. Esimissimo Mogol, non legga la prego ndr], con l’innocente Il Salame e la meno innocente Anonimo, troviamo due capolavori da pesi massimi, con quest’ultima che termina con una strombettata da banda sulle note de I Giardini di Marzo.  

Poi su Due Mondi un Battisti in duetto con Mara Cubeddu, rifiuta di andare in vigna a ficcare duro, o meglio… lei parte in sordina, poi gli dice che lo vuole e parte la schitarrata mezza mariachi. Al che lei insiste, chiede più volte di appartarsi in vigna per ficcare, anche in falsetto, ma lui fa il sostenuto. Della serie, dico di no all’inizio, mi faccio vedere risoluto e sembra che sono un fichetto tetragono. Bravo Lucio, resisti e lavora che la vendemmia non aspetta te! Per chiavare c’è sempre tempo! 

Questo articolo sta scadendo nella trivialità più becera, me ne rendo conto, ma è tutto un contraltare studiato a puntino per bilanciare lo spessore enorme del disco, che trovo perfetto sotto ogni suo aspetto.  

Sì, perfetto, non esagero.

Perché anche le imperfezioni sono al posto giusto, rendendo Anima Latina ancora più maestoso. Ma mettetelo sul piatto solo 5 minuti ragazzi miei, sentite quando suona bene da Dio ancora oggi? Ma lo sentite quanto è attuale? Fermatevi ad ascoltare i deliri, le jam che prendono la tangente, sono da pelle d’oca e non esagero. 

Vorrei tanto raccontare ogni sfumatura di questo capolavoro, ma non è il caso di tediarvi. In fondo questo spazio si chiama Pillole Musicali e il format negli ultimi tempi sta andando un po’ a baldracche. Mi accontento di avervi instillato la voglia di riprendere in mano questo disco, magari in maniera più consapevole rispetto ai bei tempi che furono.

A presto! 

Franco Battiato – L’Arca di Noè

Dopo una serie di articoli prolissi, questo sarà finalmente in forma ridotta rispettando il format primigenio di questo spazio digitale. 

Con L’Arca di Noé viene sfornato un disco da poco più di 27 minuti, stringato, ma con un livello di eccellenza marcato. A distanza di un anno dal boom de La Voce Del Padrone, L’Arca di Noé replica il successo di pubblico e di critica con mezzo milione di copie vendute. Suscitando anche sterili polemiche da parte dei “critici” di turno che hanno puntato il dito sull’affinità che la musica del Maestro avrebbe con la cultura della nuova destra, trovando in brani come Radio Varsavia e L’Esodo, dei riferimenti controversi alle repressioni dei polacchi e all’imperialismo. 

Naturalmente tali critiche sono state respinte dal Battiato che si è sempre proclamato di idee differenti, inoltre, per quanto riguarda L’Esodo e Clamori, il Maestro si è avvalso del supporto di Tommaso Tramonti, pseudonimo di Henri Thomasson, intellettuale mistico e allievo di quel Gurdjieff figura ispiratrice, e centrale, di La Voce Del Padrone.  

Questo disco è l’esempio concreto di come Battiato non abbia inseguito direttamente il successo, da un’intervista del 2015 presente su Minima & Moralia, c’è un passaggio molto interessante che tengo a riportare 

Battiato: “Non ho mai compiaciuto nessuno. Sono partito dallo sperimentalismo, ho scritto canzoni popolari, girato film, dipinto quadri senza mai accontentarmi della culla protetta o delle sicurezze. Come per magia quelli che mi apprezzavano in una veste, mi hanno dato retta anche quando mutavo essenza senza pretendere che somigliassi a un juxe-box e che a ogni monetina inserita, corrispondesse un loro desiderio. Mi hanno lasciato essere come volevo e se posso dirlo spudoratamente, io sono cambiato e ho fatto tutto il mio percorso solo per loro. Me ne frego delle sicurezze e me ne frego di offrirle. Sa cosa mi diceva Lucio Dalla

D: Il suo amico Dalla

Battiato: Il mio amico Dalla, certo. “Io inseguo il pubblico, Franco. Tu ti fai inseguire”. Sembra una cazzata, ma è vero. Io dei gusti dei fans me ne frego, loro lo sanno. Non ho mai fatto una capatina su Facebook. Non esiste. Se lo possono scordare.” 

Questo distacco lo si comprende dalle apparizioni televisive che il Maestro affronta. Come a L’Orecchiocchio, nel quale il telespettatore si trova di fronte una situazione surreale e a tratti molto “macheccazzz???”, con un Battiato che sembra quasi rendersi conto dell’inaccessibilità di quella situazione e interviene con un bel “Ahi… che noia mortale. Devo cantare io. Ehhhh Scalo a Grado, auguri” prima di eseguire un playback da seduto (con faccia scazzata). Tutto ciò ha una tremenda aura di trash che difficilmente lascia indifferenti.

Ma lo si capisce anche dal multistrato di cui sono composti i suoi brani, complessi, ricchi di orpelli e con testi apparentemente pleonastici e divertenti per la loro pomposità, anche se magari non li capisci. Voglio Vederti Danzare è un esempio di brano che può anche essere ascoltato in maniera totalmente svogliata, senza concentrarsi sul testo. Seguito da un videoclip reso celebre dalla sua danza spigliata, oltre che dalla presenza ingombrante dei beduini nel deserto [che probabilmente si sentono più a disagio di me che rivedo il video a quasi quarant’anni di distanza ndr].

Ecco se c’è una qualità enorme che si deve riconoscere al Maestro è quella capacità di saperti mettere a disagio con il nulla, potrebbe essere definito senza troppi giri di parole il McGyver del mettere a disagio. 

C’è da dire poi che la fruibilità di alcuni suoi brani è cambiata col tempo, l’ascolto e la percezione della musica è radicalmente mutata dall’avvento della musica liquida rispetto a 30-40 anni fa, quando un disco lo si consumava letteralmente sul piatto a forza di ascolti su ascolti. 

L’Arca di Noé non deve essere raccontato ulteriormente, ma ballato, perché forse è il disco più pop del Maestro e ve lo dovete gustare in loop, nella sua sapiente costruzione composta da grandi, grandissimi brani. 

Franco Battiato – La Voce Del Padrone

Viaaaaa viaaaa viaaaaaa da queste spondeeeeeee (falsetto) 

Portami lontano sulle ondeee ee e eeeeeee (falsetto ansimante)  

GNI GNI GNIIIII 

GNI GNI GNIIIII 

Come entrare nell’ultima settimana di questa bizzosa estate senza cantare Summer On A Solitary Beach, con lo sciabordio del mare sulla battigia che suona leggiadro in sottofondo? Non ci pensavate? Adesso ve l’ho schiaffata io in testa, bastardi che non siete altro!  

Universalmente riconosciuto come capolavoro assoluto della discografia del Francone nazionale, La Voce Del Padrone sembra quanto di più vicino possibile ad un greatest hits. Ma sento di fare una piccola postilla: questo album non rientra nella mia top 3 del Maestro, per quanto è veramente un grande, grandissimo disco.  

Hey, hey, poi c’è da dire che altri capolavori del Maestro saranno recensiti in futuro su altri cicli, quindi non disperate.  

Bon, bando alle ciance, chi di voi non ha cantato almeno una volta nella vita “Sul ca**o sventola la mano stanca”?

È un po’ alla stregua di “Ma la notte la festa è finita, evviva la fi*a”. Ritornelli che viscidamente si insinuano nell’immaginario adolescenziale, i grandi classici che ti fanno urlare le parolacce quando tutti gli altri te le vietano, l’espediente per ottenere la gloria a 14anni, la battuta che si fa con quegli occhi un po’ sottili e un po’ a sofficino. Insomma ci siamo capiti. 

Ok, dopo tutte queste manfrine comincio a raccontare veramente La Voce Del Padrone, anche perché il Maestro non ha sicuramente ragionato il disco per renderlo un coro per ragazzini pubescenti. Se ascoltate attentamente Battiato troverete delle analogie con Frank Zappa ed Elio E Le Storie Tese nell’inserire easter egg qua e là, nei testi, nella musica. Merito di un bacino di riferimento letterario e pop sterminato che garantisce la creazione di brani multistrato composti con l’ausilio di Giusto Pio

Ne è un esempio Cuccurucucù, che cita Nicola Di Bari (Il Mondo è Grigio, Il Mondo è Blu), Milva (Il Mare Nel Cassetto), Rolling Stones (Ruby Tuesday) i Beatles (With A Little Help From My Friends e Lady Madonna), Tomàs Méndez (Cucurrucucù Paloma), Chubby Checker (Let’s Twist Again) e Bob Dylan (con Like A Rolling Stone e Just Like A Woman).  

Per raccontare questo album credo sia fondamentale focalizzarsi (un poco) sul rapporto creatosi tra Battiato e Pio, due mostri sacri che hanno alimentato a vicenda la loro leggenda. Le lezioni di violino di Giusto Pio, vedevano in Battiato un egregio allievo, la condivisione di idee musicali li conduce alla scrittura, riuscendo a strappare un contratto con la EMI, disattendendo di poco le previsioni di vendita per i primi lavori.  

Il duo costruisce negli anni una forte credibilità con L’Era del Cinghiale Bianco, che con 40000 copie vendute si rivela un successo, soprattutto pensando al budget a disposizione e al tempo ridotto nel registrarlo. Un risultato che corroborato dalla conferma di Patriots induce la EMI a porsi delle domande su Battiato: “Ci crediamo o no? Quanto pensate di vendere con questa Voce Del Padrone” 

Battiato: “90000” 

Pio: “120000” 

Risultato finale: oltre 1 milione di copie polverizzate diventando l’album più venduto nella storia della musica italiana per lunghissimo tempo. Questo successo è ascrivibile anche alla capacità del duo di lavorare in sinergia con efficienza ed efficacia infinitesimale. Per La Voce Del Padrone, Pio e Battiato arrivarono in studio con le partiture complete, le armonie e gli arrangiamenti ultimati, nessun margine di manovra in fase di registrazione. Un modus operandi che permetteva la registrazione di un disco 9 volte più velocemente rispetto alla norma (in 20 giorni rispetto ai 180/240 previsti da altri artisti). 

La composizione avveniva durante gli spostamenti in auto, prediletti da Pio e Battiato per evitare perdite di tempo e ritardi da parte dei roadie. Proprio in quei momenti Battiato era solito canticchiare ritornelli o fraseggi musicali, che Pio traslava su spartito in albergo. Così facendo pochi giorni dopo la tournèe, tornavano in studio a registrare il nuovo disco. 

Se René Guénon ha influenzato in blocco L’Era Del Cinghiale Bianco, con La Voce Del Padrone Battiato si ispira a George Ivanovic Gurdjeff per ricercare il risveglio del proprio io interiore, in questo il Centro di Gravità Permanente strizza l’occhio alla sua filosofia, e tutti gli incontri raccontati nella canzone sono mirati alla crescita personale. “Gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia di Ming” fa riferimento al gesuita Padre Matteo Ricci, conosciuto in Cina come Li Madou, evangelizzatore che ha provato a sedurre l’impero cinese dall’interno.

Un j’accuse di Battiato alla dottrina colonialista della chiesa Cattolica e anche un monito generale ad essere sé stessi, per questo, successivamente nella canzone, rivela che non gli piace alcun genere musicale, nemmeno quelli che ancora non esistono. Ergo, muovo una critica verso tutti coloro che si adeguano agli altri per trovare il proprio equilibrio, quando il centro di gravità permanente è un viaggio in solitaria basato sulle proprie scelte e sull’essere sé stessi.  

In questa analisi trova la sua dimensione anche Bandiera Bianca, brano di critica sull’immoralità della società contemporanea (Minima immoralia è un tributo al testo di Adorno Minima Moralia). Si torna a puntare il dito sul denaro (pronipoti di sua maestà il denaro) e la dipendenza da esso (come in L’Era del Cinghiale Bianco), la piaga del terrorismo (gli idioti dell’orrore) così come la politica (i programmi demenziali con tribune elettorali) vengono condannate.  

Ricompare la figura di Dylan (o meglio compare per la prima volta, visto che Bandiera Bianca è il secondo brano e Cuccurucucù il quarto) chiamato Mister Tamburino, c’è anche Alan Sorrenti e i suoi figli delle stelle, mentre Vivaldi, Beethoven e Sinatra nel brano sono condannati perché idealizzati aprioristicamente dalla società (che non capisce la loro reale portata culturale). Il ritornello invece è ispirato alla poesia L’Ultima Ora di Venezia di Arnaldo Fusinato “[…] il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca […]”, che descrive la resa della città alle truppe austriache.  

La medesima resa di una società alle piaghe dello scorso secolo, flagelli attuali, anzi a quarant’anni di distanza si può dire che la situazione sia peggiorata notevolmente. 

Come in passato, anche qui ci sarebbe da scrivere un libro, non vi analizzo tutto il resto del disco per non tediarvi ulteriormente. mi sono dilungato troppo come spesso capita, a maggior ragione con questo disco perché è maledettamente bello perdersi in questo incantesimo [passatemi questa chiusa un po’ sbrigativa e acchiappona ndr].