Fabrizio De André – Creuza De Mä

Umbre de muri, muri de mainæ  

dunde ne vegnî, duve l’é ch’anæ? 

Siccome siete lettori preparati e formati, credo fermamente che la maggior parte di voi conosca bene questa strofa in genovese, e una volta cominciata a leggere sia partita in sottofondo quella base di percussioni sorda, con il bouzuki e le corde di violino strimpellate dal Maestro Pagani

Alla domanda di Raf: cosa resterà di questi anni ottanta? David Byrne risponderebbe: Creuza De Mä! Perché David Byrne dovrebbe rispondere a Raf? Non ne ho idea, ma questo si chiama espediente narrativo, pertanto usciamo da questo loop di domande molto pericoloso e continuiamo. 

Sì perché ci sono tantissimi aneddoti legati a Creuza De Mä, uno dei più conosciuti – quello che investe il disco di luce immensa (se mai ce ne fosse stato bisogno) – è il riconoscimento da parte di David Byrne, che elegge Creuza De Mä come uno dei dischi più importanti di quella decade. Un disco che continua a duplicare ai suoi amici americani e che avrebbe voluto re-interpretare, se non avesse trovato uno sbarramento non indifferente nel trasporre il genovese all’inglese. 

Impedimento non da poco, perché il genovese – come ricorda De André in un’intervista concessa a Gianni Minà nel 1984 – è una lingua morbida, con grande presenza di dittonghi che si susseguono, in cadenza, con frequenze simili al portoghese zuccheroso dei brasiliani [a conferma di ciò, ascoltate A Bertoela e O Frigideiro di Lauzi, sembrano provenire dalle spiagge di Bahia ndr]. 

Questo album non ha il piglio commerciale, eppure come nel caso di Battisti e Anima Latina, il grande bacino di cui gode De André gli consente di poter osare, di concentrarsi su progetti di promozione culturale, che lo gratifichino prima di tutto personalmente. Creuza De Mä è un’opera di divulgazione e recupero delle radici mediterranee, un tentativo di dare lustro a storie e immagini del nostro passato tramite l’ausilio della lingua locale.  

Il Maestro Pagani ricorda il primo mattoncino del progetto con queste parole “Creuza De Mä doveva essere cantato in una lingua inventata, scritta da me e Fabrizio, con linguaggio da marinai, mettendo insieme parole spagnole, portoghesi, arabe, etc. Finché un giorno Fabrizio ebbe l’intuizione di dire ‘il genovese è già così’”. 

La scelta è naturalmente spiazzante per la Ricordi, che comunque si accontenta di ricevere un disco da parte di De André e, nonostante si rivolga ad un pubblico estremamente limitato, è un album che ha trovato la propria dimensione nel mondo grazie alla musicalità del genovese – lingua di navigatori [con la presenza di fonemi arabi e turchi ndr] – che dà inaspettato respiro internazionale ai brani.  

Al quale Mauro Pagani cuce il giusto vestito grazie agli studi già resi noti al grande pubblico tramite l’omonimo disco d’esordio. Contagiato da Area e Canzoniere del Lazio, influenzato dalla musica tunisina e algerina, trova le giuste scansioni ritmiche per Creuza De Mä. Quello che non ti aspetti, ascoltando un album di questa caratura, è che la registrazione della sezione ritmica – suonata da Walter Calloni – sia avvenuta in uno scantinato, dove le batterie vengono sostituite da uno scaldabagno bianco della Zoppas da 120 litri di capienza. “Quando dovevamo fare le ritmiche, spegnevamo l’acqua calda, altrimenti aumentavi la ritmica, partiva lo scaldabagno e bisognava buttare tutto via” ci dice Calloni

Non solo la ritmica, ma anche le voci principali del disco sono state registrate nello stanzino, con questo scaldabagno Zoppas diventato nel corso delle sessioni un vero nume tutelare a riscaldare non solo le terga ma anche gli animi degli interpreti. Un vero lavoro artigianale quello compiuto nel catturare suoni su misura per il contenuto del disco, che trova il suo culmine quando Mauro Pagani – con il sound designer Allan Goldberg – va a registrare la voce di Caterina Rossi, pescivendola storica del mercato di Zena da inserire al termine della title-track e all’inizio di Jamin-a

Come racconta lo stesso Pagani, fortunatamente Caterina era solita cantare la sua nenia in RE, accordo principale del brano Creuza De Mä, e la registrazione non ha necessitato di alcun ritocco. Quello che in molti non immaginano è che la presenza di Caterina – e delle sue grida – ha dato vita ad una competizione di urla tra pescivendoli al mercato, con l’intervento di voci maschili che non era previsto in principio.  

Creuza nasce proprio da questi personaggi, discendenti diretti delle storie raccontate da De André. I marinai che tornano nella città dopo periodi più o meno lunghi di navigazione nella title-track, l’oud che introduce l’ideale di erotismo per chi è uomo di mare con la figura di Jamin-a; si prosegue cambiando scenario con la narrazione della guerra, la morte civile e culturale del Libano, balia della civiltà mediterranea, in Sìdun (Sidone). Sinán Capudán Pasciá invece è la storia di Cicala, marinaio genovese, che ha smesso di bestemmiare Dio per cominciare a bestemmiare Maometto.  

Alla fine del sedicesimo secolo viene catturato dai turchi e rifiutandosi di combattere i suoi aguzzini, si dimostra un abile arrampicatore sociale, diventando dopo tempo un gran visir e riconosciuto come Sinán Capudán Pasciá (durante le registrazioni di questo brano De André si lamenta del charleston di Calloni, che trova una soluzione battendo sulle latte di fagioli in scatola, producendo un suono più adatto per l’idea musicale di Faber ).  

Si segue con il dilemma esistenziale di ‘ pittima, il riscuoti crediti inesigibili, e con Â duménega che dà luce alla giornata di riposo delle prostitute, impossibilitate ad uscire dal loro quartiere durante la settimana (con Franco Mussida alla chitarra e al mandolino).  D’ä mæ riva chiude idealmente il cerchio cominciato ad inizio disco, raccontandoci il marinaio che parte, salutando la sua città e il suo amore, prima di ricominciare a solcare le onde. 

Ciò che non ho scritto è che la creuza è la mulattiera di mare, un sentiero suburbano delimitato da due mura.  Idealmente queste mura sono la musica e le immagini che De André ha nella propria mente. E Creuza De Mä è proprio un disco che unisce tutto seguendo l’antico adagio alla base della produzione artistica di Faber: se non ce l’urgenza di scrittura, meglio non scrivere. 

Questo mondo arzigogolato, storicamente accurato e sovrastrutturato, trova forma in soli due mesi con l’aiuto di Pagani. Ne passano altri tre-quattro per registrare il disco come nei provini. Un aspetto che mi è piaciuto tantissimo scoprire, studiando le varie interviste e gli articoli sul disco, riguarda l’insegnamento che Pagani ha tratto nel collaborare con De André in questa esperienza, lui solitamente molto verboso, è stato indirizzato all’essenzialità da Faber. Essere semplici, eliminando tutto il superfluo che può indurre a confusione. 

Scrivendo di questo album, sono stato tutto fuorché essenziale, ma spero di avervi messo voglia di riascoltare con piglio diverso Creuza, magari analizzando con attenzione il vasto ventaglio di sfumature che lo compongono, dalle parole alle cadenze, dai ritmi alle melodie esotiche.  

Buon viaggio. 

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Lucio Battisti – Anima Latina

Questa pillola comincia con una rivelazione bomba: non ho mai amato particolarmente Lucio Battisti.  

OK! Dopo aver suscitato il vostro scalpore con questo inizio bruciapelo, mi sento di continuare questa confessione affermando che: non mi sono mai sentito in dovere di scoprirlo [arghhhh ndr]. 

Ora che ho catalizzato il vostro odio, vorrei aggiungere a mia discolpa che da quando mi sono imbattuto in Anima Latina, si è aperto un nuovo mondo per me, come se finalmente avessi capito la grandezza di Battisti.  E sono contento che questo articolo coincida con la sua venuta su Spotify, in modo tale che possiate ritrovare questo album e goderne senza troppi giri.

Certo, avrei trovato più coraggioso registrare un disco intitolato Anima Ladina e dedicato alle dolomiti, ma il tentativo orchestrato dal duo Battisti/Mogol è stato particolarmente audace per l’epoca, riuscendo a ridefinire – al rialzo – lo standard della musica leggera italiana. 

Partiamo però dalle basi, cos’è Anima Latina?  

Nono album del Battisti, concepito durante un tour promozionale speso tra Brasile e Argentina (in un periodo storicamente complicato per i due paesi, con il regime dittatoriale nel paese carioca e la crescente formazione di gruppi armati estremisti in Argentina), rappresenta un disco di rottura rispetto al passato, capace di osare e uscire dal giardino del nazional popolare sapientemente agghindato negli anni – insieme a Mogol –  con hit da classifica e classiconi senza tempo. Sì, perché Anima Latina è un discone che nonostante l’abbandono della forma canzone classica (e l’ammiccamento forterrimo agli standard jazz, al progressive e la sperimentale dell’epoca), ha trovato modo di imporsi nella classifica nazionale raggiungendo dati di vendita importanti. Il tutto, nonostante la critica abbia ampiamente pisciato in faccia a Battisti per questa scelta. Critici di tutto il mondo, certo che voi siete come la tipa di Cara Ti Amo, non vi sta mai bene un cazzo! 

Anima Latina, opera complessa che ha richiesto oltre 6 mesi di registrazione, non è solamente un esercizio di stile, bensì la volontà precisa di sperimentare contaminando, di sfidare le convenzioni con brani dalla durata di 6-7 minuti o reprise superbrevi. Una testimonianza atta a costruire un ponte tra culture distanti, ma anche a dimostrare che il repertorio di Battisti può essere farcito di canzonette sole-cuore-amore, ma dietro – senza troppa fatica – c’è una capacità di lavorare a melodie e testi compositi capaci di far ricredere critica e pubblico sulle qualità di Lucio. Eh sì, non è da meno dello squadrone di cantautori coevi impegnati [che qualcuno non avrebbe remore a chiamare i cantautoroni di Bruxelles ndr].  

Per dare una forma a questo guanto di sfida verso l’opinione pubblica e critica, si circonda di una band coi controcazzi: troviamo oltre al famigerato Gneo Pompeo (che leggenda vuole sia il buon Gian Piero Reverberi, anche se ci sono versioni discordanti che legherebbero questa figura a Gabriele Lorenzi), Ares Tavolazzi, Claudio Maioli, Claudio Pascoli e Alberto Radius (questi ultimi due [soprattutto Radius ndr] a lungo collaboratori di Battiato).  

La folgorazione per la scrittura di Anima Latina avviene durante il viaggio in Sud America, come già scritto, quando Battisti scopre che musica e vita si fondono in un’unicum estremamente diretto, gioioso, alla ricerca dello spirito primitivo della musica: la comunione. Ben rappresentata anche dalla copertina, fotografata da Cesare Montalbetti, piena zeppa di bambini [o nani? Ndr] che suonano e ballano come fossero una banda. D’altronde il buon Vinicius De Moraes insieme al buonissimo Sergio Endrigo ci hanno regalato, nel 1969, il Samba Delle Benedizioni che racchiude un po’ quanto portato in dote da Battisti: l’amore, la tristezza, le donne e un concetto che troviamo in Anima LatinaLa vita, amico, è l’arte dell’incontro, malgrado ci siano tanti disaccordi nella vita.

Non ci sono barriere tra il pubblico e i musicisti, ma unità di intenti e rispetto reciproco che esplode in un divertimento che non prevarica sull’ascolto, ma lo aiuta. Una gioia che traspare nonostante le complessità vissute in quegli anni dai paesi sudamericani.  

Quest’ultimo punto influenza pesantemente i mixaggi dell’album, che presenta diversi passaggi con voci sussurrate, parole non facilmente comprensibili, strumenti che prevaricano le linee vocali. Un escamotage intelligente da parte di Battisti per spingere ad ascoltare l’album e non parcheggiarlo in sottofondo; una lotta contro la pigrizia uditiva ma anche un pungolo nei confronti di chi troppo spesso si arrende ad un giudizio affrettato del primo ascolto. Della serie: se ti interesso mi ascolti, anche se la mia voce si confonde tra le note e le grida di sfondo.  

In fase di ultimazione del disco si sono verificate delle frizioni tra Mogol e Battisti, in quanto il Gran Mogol s’è messo di traverso imponendo di alzare il volume della voce che altrimenti sarebbe stato ancora più ridotto (Battisti avrebbe voluto in alcuni casi un sussurro da maniaco… su tutte La Macchina Del Tempo e Anonimo presentano momenti incomprensibili che potrebbero confondere gli ascoltatori occasionali). 

Ho trovato questa scelta meravigliosa, così fuori dal tempo, ma di gran cuore nei confronti del pubblico. Un tentativo coraggioso di svegliare le coscienze, anche perché sostenuto dalla fama di Battisti che all’epoca si interfacciava con un pubblico estremamente eterogeneo. Pensate, se già nel 1974 questa opzione veniva considerata coraggiosa ad oggi una scelta del genere scatenerebbe la collera dell’ascoltare, che preso da rrrabbia non capirebbe dando la colpa all’artista.  

Tornando al viaggio sudamericano [se non ve ne foste accorti questo disco è stato concepito in sudamerica e blablabla… l’ho già scritto trentordici volte ndr] Battisti riporta nella valigia le tematiche principali del disco, che sono identificabili nell’erotismo, l’amore e la vitalità. In particolare la sessualità viene affrontata in maniera estremamente delicata – a tratti raffinata – dal duo Battisti/Mogol, intenti a raccontarci la scoperta del corpo nel periodo dell’infanzia e dell’adolescenza.  

Con sensibilità fuori dal comune il duo delle meraviglie ci butta giù testi sui primi seghini, sul gioco del dottore e sulle prime pomiciatelle [naturalmente non in questi termini, nemmeno con queste parole… mi auguro Mogol non legga mai queste righe. Esimissimo Mogol, non legga la prego ndr], con l’innocente Il Salame e la meno innocente Anonimo, troviamo due capolavori da pesi massimi, con quest’ultima che termina con una strombettata da banda sulle note de I Giardini di Marzo.  

Poi su Due Mondi un Battisti in duetto con Mara Cubeddu, rifiuta di andare in vigna a ficcare duro, o meglio… lei parte in sordina, poi gli dice che lo vuole e parte la schitarrata mezza mariachi. Al che lei insiste, chiede più volte di appartarsi in vigna per ficcare, anche in falsetto, ma lui fa il sostenuto. Della serie, dico di no all’inizio, mi faccio vedere risoluto e sembra che sono un fichetto tetragono. Bravo Lucio, resisti e lavora che la vendemmia non aspetta te! Per chiavare c’è sempre tempo! 

Questo articolo sta scadendo nella trivialità più becera, me ne rendo conto, ma è tutto un contraltare studiato a puntino per bilanciare lo spessore enorme del disco, che trovo perfetto sotto ogni suo aspetto.  

Sì, perfetto, non esagero.

Perché anche le imperfezioni sono al posto giusto, rendendo Anima Latina ancora più maestoso. Ma mettetelo sul piatto solo 5 minuti ragazzi miei, sentite quando suona bene da Dio ancora oggi? Ma lo sentite quanto è attuale? Fermatevi ad ascoltare i deliri, le jam che prendono la tangente, sono da pelle d’oca e non esagero. 

Vorrei tanto raccontare ogni sfumatura di questo capolavoro, ma non è il caso di tediarvi. In fondo questo spazio si chiama Pillole Musicali e il format negli ultimi tempi sta andando un po’ a baldracche. Mi accontento di avervi instillato la voglia di riprendere in mano questo disco, magari in maniera più consapevole rispetto ai bei tempi che furono.

A presto! 

Elio E Le Storie Tese – Eat The Phikis

Elio E Le Storie Tese - Eat The Phikis

Perché Eat The Phikis?

Credo che qualitativamente abbia toccato delle vette che difficilmente sono state raggiunte dagli Elii negli anni successivi, ma soprattutto perché risulta l’ultimo album in studio con l’amato Feiez, che come contributo creativo ha sempre avuto un peso specifico non trascurabile.

Eppoi perché ho amato tantissimo la copertina dello squalo con l’apparecchio ed ho consumato la musicassetta [già…] nella mia Twingo verde mela, mentre da adolescente macinavo chilometri nelle nottate di cazzeggio. Un album al quale sono profondamente legato perché ci sono cresciuto… in particolare sono affezionato alla Terra Dei Cachi, brano che ha contribuito all’effettiva consacrazione degli Elio E Le Storie Tese, con il conseguimento del disco di platino in poche settimane dalla pubblicazione di Eat The Phikis.

Un brano che fotografa l’Italia del passato, presente e futuro, con una dovizia di particolari meravigliosa. Una struttura che strizza l’occhio agli stilemi pop-folk dello stivale (Papaveri e Papere di Nilla PizziUna Lacrima Sul Viso di Bobby SoloLa Donna Cannone di De Gregori), con un vorticoso e frenetico uso di calembour che è impossibile non amare. Accettata al festival di Sanremo, rischia seriamente di vincere. Già, rischia, perché anni dopo si è scoperto che la vittoria è stata ottenuta veramente sul campo.

Proprio loro, quelli che 4 anni prima suonavano fuori dall’Ariston, al Controfestival, prendendo per culo alcuni partecipanti parodiando le loro canzoni (come dimenticare Ameri, Sono Felice o le versioni di Vattene Amore e Verso L’Ignoto), per un pelo non vengono classificati vincitori al concorso da loro schernito. Oltre ciò, Elio E Le Storie Tese hanno avuto il merito di vivacizzare un concorso imbolsito e ingessato, con esibizioni degne di memoria:

  • Una serata Elio si presenta con il braccio finto;
  • L’ultima esibizione avviene con la band travestita da Rockets;
  • Durante la penultima serata si compie la meraviglia, quando anziché proporre un estratto da un minuto del proprio brano, propongono il brano quasi per intero eseguendolo velocissimamente (in 55” per essere precisi, che potete ascoltare a chiusura del disco in Neanche Un Minuto di Non Caco, citando Lucio Battisti).

Fuori concorso si classifica la versione, altrettanto spettacolare, con Raul Casadei; un taglio in salsa balera che rende il brano ancora più nazionalpopolare, nonostante voglia di fatto buggerare quello stereotipo. La Terra Dei Cachi segna anche l’inizio del sodalizio tra gli Elii e il maestro Vessicchio.

Concettualmente Eat The Phikis si conferma come un’evoluzione dei precedenti album, pertanto nella scelta di un brano quale Burattino Senza Fichi possiamo scorgere l’eredità della favoletta del Vitello Dai Piedi Di Balsa, dove il protagonista è un Pinocchio adolescenziale su cui facili si sviluppano dei doppi giochi (tra i quali il fatto che sia stato fatto con una sega e altri divertenti cliché).
Mentre T.V.U.M.D.B. racconta l’ennesima sfaccettatura della donna, quella romantica e giovane, interpretata da Giorgia che sogna il bomba dei Take That (Gary Barlow)sulla base della melodia di After The Love Has Gone degli Earth, Wind and Fire (band citata a detta di Faso per non cadere nel plagio). C’è il tempo anche per salutare Piattaforma ed il famoso PAM (“Senti come grida il peperone?”). Il meraviglioso assolo di sassofono eseguito da Feiez in questo brano, aprirà il successivo Craccracriccrecr in sua memoria.

I cameo sono ormai consuetudine e alcune ospitate sono consolidate, come nel caso di Enrico Ruggeri che appare in Lo Stato A, Lo Stato B, presenziano al disco anche Aldo (dal trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo) in Mio Cugino, il meraviglioso James Taylor (in First Me, Second Me che interpreta Peak Of The Mountain, storico brano composto agli inizi di carriera dagli Elii dal testo tradotto in un inglese maccheronico ma reso immortale dal cantautore di Boston) ed Edoardo Vianello in Li Mortacci, brano compendio nel quale vengono citati i grandi morti dell’universo musicale all’interno di uno stornello romano che sembra eseguito direttamente a La Parolaccia.

Nello specifico vengono citati

  • er Chitara: Jimi Hendrix 
  • er Mafrodito: Freddie Mercury 
  • er Rastamanno: Bob Marley 
  • er Guardiano der Faro: Federico Monti Arduini 
  • er Pelvicaro: Elvis Presley 
  • ‘a figlia der Pelvicaro: Lisa Marie Presley
  • er Trilleraro: Michael Jackson 
  • er Canaro: malvivente della Magliana (alla cui figura è stato ispirato il film diretto da Garrone Dogman)
  • er Lucertolaro: Jim Morrison 
  • er Quattrocchi Immaginaro: John Lennon 
  • er Tromba: uno tra Louis Armstrong, Miles DavisChet Baker (giudicando la morte violenta direi proprio quest’ultimo)
  • er Vedraro: Luigi Tenco 
  • l’Impiccato: Ian Curtis 
  • er Fucilense: Kurt Cobain  
  • er Piscina: Brian Jones 

(grazie infinite a marok.org per la lista)

Per citare altri easter egg degni di nota, al termine di El Pube, viene raccontata una barzelletta tramite il MacinTalk della Apple. L’effetto ottenuto è quello del Central Scrutinizer, narratore di Joe’s Garage, (uno dei vari inchini al grande idolo della band, Frank Zappa). Altra checca… ups chicca, è presente in Omosessualità, un trash metal che vede Elio al basso, in quanto Faso si è rifiutato di interpretare il brano per l’odio nei confronti di questo genere musicale. Omosessualità, apprezzato e di molto dai circoli omosessuali per l’onestà intellettuale e l’apertura mentale (nonostante il linguaggio crudo), si è aggiudicato il premio dal circolo di cultura Mario Mieli.

Il brano simbolo – però – gli Elii lo piazzano alla fine, quel Tapparella che narra il dramma del ragazzino eterno complessato, sfigato, bullizzato e pisciato da chiunque alla festa delle medie. Uno spleen [d’altronde in Eat The Phikis è presente anche il brano Milza ndr] decadente di frustrazione totale che si conclude in un’estasi collettiva dal momento che il ragazzetto scioglie l’aspirina nell’amarissima aranciata. Il brano è un omaggio palese ad Hendrix con Little Wing ed Hey Joe che dominano il tema musicale iniziale.

Tapparella è un inno generazionale per chi è stato underground; inno con il quale gli Elii hanno chiuso concerti dal 1996 al 2018 e che dal 1999 è la consuetudine con la quale viene salutato ogni volta il vuoto enorme lasciato dal grande Panino: Paolone Feiez.

FORZA PANINO!

Ebbene sì! Non smetterò mai di ringraziare infinitamente il sito Marok.org dal quale ho attinto diverse informazioncine preziose. Come di consueto, se voleste approfondire, consiglio vivamente di spulciarvi tutte le chicche che i ragazzi hanno raccolto.

http://www.marok.org/Elio/Discog/phikis.htm

 

Ivan Graziani – Pigro

Ivan Graziani - Pigro

Può apparire strana questa scelta, ne sono cosciente.  

Di fatto Graziani non può essere annoverato all’interno della musica demenziale, anzi. Però la sua figura ed i suoi testi ben si incastrano tra i dischi di questo mini-ciclo.  

Sì, perché la cifra stilistica, la sensibilità – oltre che la naturalezza – con cui determinate tematiche vengono snocciolate da Ivan, lo fanno entrare di diritto nel club degli anticonformisti.  

Condivide con gli altri autori sin qui affrontati, l’ironia ed il distacco. La capacità di affrontare argomenti all’apparenza banali con un lessico ricercato, cesellato con semplicità, leggerezza e delicatezza che di prim’acchito smorzano la forza espressiva ma che di fatto rendono ancora più tagliente il messaggio.   

Pigro può essere considerato un concept dedicato ai vizi e ai vinti, agli imperfetti e ai deboli di spirito. Un viaggio nelle oscurità del carattere umano – che tendenzialmente cerchiamo di sopprimere -, un’accumulazione di devianze che ci fanno vergognare pubblicamente ma che caratterizzano i comportamenti di ogni singolo essere vivente.  

L’album nasce a Teramo nella casa dei genitori di Ivan, nella quale ogni estate la famiglia Graziani era solita ritrovarsi. Nel contesto familiare Ivan entra in contrasto con il fratello Sergio – docente universitario in Canada – per l’eccessiva rigidità dimostrata nell’educare il figlio che mal combacia con la permissività di Ivan. In questo quadretto, la cognata di Ivan è solita rimproverare il marito per l’inflessibilità che lo contraddistingue “tu rimproveri nostro figlio per delle stupidaggini, ma intanto non facciamo mai nulla… e io mi annoio”. 

Ivan cattura proprio questo aspetto e lo trasforma prima in canzone e poi ne trae spunto per svilupparlo in album. “Tu sai citare, i classici a memoria” è un chiaro riferimento alla formazione classica di Sergio e alla pigrizia mentale (o bigottismo) che dimostra. 

Aldilà della capacità poetica di Graziani, l’altro aspetto che mi preme sottolineare è la grande qualità e tecnica che viene espressa alla chitarra, con delle scelte compositive non scontate sublimate grazie a testi apparentemente naif.  

È stato in grado di rendere il proprio stile internazionale partendo da una base tradizionale italiana, con pochi elementi ha creato arrangiamenti riconoscibili, resi tali dalla sua attitudine a suonare da solo (la si nota anche da quanto le chitarre acustiche fossero rovinate dove il polso era solito battere il ritmo mentre suonava).  

“La chitarra è uno strumento un pochino più grande della matita, del pennarello o del pennello. […] La musica ha un potere di comprensione superiore alle immagini, anche quando sembra ostica all’ascolto […] ha soprattutto il potere di persuasione, che è importantissimo”. 

Il passato nell’Accademia delle Belle Arti di Urbino rende Ivan un artista completo, spingendolo verso un approccio iper-realista, ovvero come spiegato da Graziani cercare di “sfuggire alla realtà attraverso la realtà stessa”. 

La fuga è un concetto che si materializza in Scappo di Casa, brano a conclusione del disco, che lo stesso Ivan indica come “la chiave di tutto”. Racconta la storia di un ragazzino stanco delle limitazioni e delle negazioni alle quali è sottoposto, che fugge nell’indifferenza di tutti, sperando di trovare la libertà ma sbattendo con un mondo tanto complesso quanto feroce.  

La dilaniante strofa finale ci sottopone al fallimento della fuga oltre che ad una immedesimazione istantanea “mi coprirò con le braccia la testa come facevo da bambino…”. 

L’Accademia ha segnato indelebilmente Ivan, spingendolo – tra le varie cose – ad un viaggio a Parigi, dove ha modo di visitare il Louvre. Sua moglie Anna Bischi Graziani ricorda quella giornata “Siamo andati al Louvre insieme, Monna Lisa l’ha vista e non l’ha vista, perché è passato oltre. […] Dopo averla vista en passant si è messo fuori dal Louvre a fare schizzi di tutte le persone che entravano al museo.” 

Buffo constatare quanto poca attenzione abbia dedicato alla Monna Lisa, tanto quanto basta per dargli lo spunto di musicare il furto del quadro – avvenuto nel 1911 – da parte di Vincenzo Peruggia 

Monna Lisa, espone concretamente la capacità di Graziani di sparigliare le carte facendo parteggiare l’ascoltatore per l’anti-eroe – nel torto – mettendo in luce le storture e conflittualità dei soggetti coinvolti (come il custode abietto con tendenze pedofile). La ritmica del brano è scarna ma in levare, così come la voce di Graziani (che non è un falsetto!), su questi si appoggia un riff di chitarra – molto espressivo – simile ad un ticchettio d’orologio che lascia intendere l’incedere del tempo. 

Semplicità ed eccellenza sono i tratti distintivi dell’album, conseguenza anche della band che contribuisce alla registrazione di questa pietra miliare con un dinamismo da far invidia ai musicisti d’oggi. Claudio Maioli alla tastiera, Walter Calloni alla batteria, Hugh Bullen al basso e Claudio Pascoli al sax, con Graziani alla chitarra, un parterre de rois che ha contribuito alla registrazione di Lucio Battisti, la batteria, il contrabbasso, eccetera. Insomma, tanta roba. 

Ogni brano ha una storia, ma scriverne significherebbe trasformare la pillola in supposta 8 bit. Pertanto chiudo con Gabriele D’Annunzio, una meraviglia acustica [la versione elettrica spacca, ascoltatela è una gemma preziosa ndr] che si intreccia in un climax ascendente nel quale Graziani descrive D’Annunzio come se lo avesse conosciuto di persona. 

Sì perché Graziani era un grande esperto di D’Annunzio – abruzzese come lui – e ne amava visceralmente la poetica e la figura, tanto da vestire a casa una vestaglia di velluto. Sempre Anna Bischi Graziani ricorda “Sono stata molto fortunata perché mi sono addormentata con mio marito che mi leggeva Gabriele D’Annunzio, e come lo leggeva lui io non l’ho più sentito leggere. Se lo gustava. La canzone è stata un omaggio”.  

Pigro entra prepotente nell’immaginario collettivo per la copertina illustrata da Mario Convertino, vincitrice del premio di copertina dell’anno. Un maiale con gli occhiali a montatura rossa, segno distintivo di Graziani. Ma il disco rappresenta soprattutto la vittoria di una discografia illuminata che non ha cercato il successo immediato con Ivan, ma ha saputo aspettare il suo sesto album per raccoglierne i frutti. 

Un disco con canzoni centrate e ben strutturate, dove nemmeno una nota appare fuori posto, caratterizzata da una eccellenza che traspare in tutti i secondi registrati. 

Come ha detto Mara Maionchi “Pigro è un disco maturo, consapevole, di un signore che aveva fatto tanto lavoro prima di arrivare a questa opera”. 

Lasciatemi aggiungere che, questo signore, con la sua sensibilità, vena artistica, sagacia e ecletticità, manca terribilmente oggi.