Franco Battiato – Patriots

Scrivere di Giuni Russo e Alice in questo cantuccio digitale, senza tornare a raccontare del loro padrino artistico, non sarebbe stato narrativamente corretto. Pertanto la scelta di includere – all’interno di questo ciclo di racconti estivi – un disco come Patriots si è rivelata fisiologica più che una ipocrita forzatura dettata dalla recente dipartita di Franco Battiato

Patriots – che ha da poco compiuto il quarantesimo anno di età – è un disco funzionale a spiegare l’impronta sonora che Franco Battiato ha contribuito a sviluppare in album come Energie Capo Nord; vengono approfondite le idee seminate in L’Era del Cinghiale Bianco e che fioriranno con straripante clamore ne La Voce del Padrone, determinando la definitiva consacrazione di Franco Battiato al grande pubblico e la rivalutazione postuma dei precedenti dieci album. 

Dieci album per raggiungere il meritato riconoscimento: ad indicare che con la perseveranza, le idee e la qualità, prima o poi il pubblico si accorgerà di quello che hai prodotto. 

O meglio, dieci album per aggiustare il tiro e raggiungere un pubblico precedentemente inaccessibile. Lo stesso pubblico che prima trovava i suoi album inafferrabili e poi si è tuffato a pesce morto in ogni sua produzione.  

Franco Battiato ha adoperato i primi dieci dischi della carriera per forgiare un passpartout che lo ha reso – assieme a Giusto Pio – il Re Mida della musica pop italiana di inizio anni ‘80; trovando la possibilità di affinare la propria capacità compositiva – e percorrendo variazioni sul tema – grazie a vere teste di serie della scena musicale italiana come AliceGiuni Russo e Milva.  

Nonostante, apparentemente, vi siano degli album di Battiato concettualmente più centrati per questo ciclo, Patriots rivela un retrogusto estivo nemmeno troppo velato, per quanto la punta di diamante del disco – Prospettiva Nevski – è tutto fuorché una canzone che si lascia ascoltare durante un sorso di mojito in spiaggia, anche se pensarsi a bazzicare il Corso della Neva condividendo uno spritz con Nijinski Stravinskij – nel cuore dell’inverno russo – può funzionare come placebo per rinfrescarsi dalla calura dello scirocco di queste settimane. 

E se la scala di piano in Up Patriots to Arms, che inaugura i 28’ e 58” di disco [anche se, più precisamente il disco è inaugurato dal Tannhäuser di Wagner ndr], ha preconizzato con largo anticipo le primavere arabe ed i tumulti medio-orientali, non centrando ancora pienamente quel sentimento estivo di cui sono alla spasmodica ricerca per giustificare senza falle la presenza di Patriots in questo ciclo di pillole (oltre ad insegnarci che de facto non possiamo lamentarci del presente con la solita frase da vecchi bofonchioni che si stava meglio quando si stava peggio [perché mediamente siamo sempre stati così: uno schifo ndr]); troviamo finalmente quel sentore di vento sahariano  in Venezia-Istanbul in cui la chitarra di Alberto Radius apre il brano con un trottante assolo di chitarra, vicino nel suono alla chiusa di Il Vento Caldo dell’Estate

Successivamente, Arabian Song, legittima la scelta di Patriots in questo spazio e presta il fianco ad uno sculettamento estivo da far invidia a tante pop-hits scadenti che il mercato radiofonico ci impone; il caldo trasmesso dalle fricative faringali sorde (primo brano di Battiato in cui si cimenta con la lingua araba) e la freschezza donata dal sintetizzatore e dalle chitarre rende questa canzone una piccola gemma.  

Con Frammenti si scorgono le basi di quello che sarà l’intro minimalista de Il Vento Caldo dell’Estate, all’interno del testo Battiato dissemina tributi in frammento a Luigi Mercantini (Me ne andavo una mattina a spigolare, quando vidi una barca in mezzo al mare), Giosué Carducci (I cipressi che a Bólgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filarGiovanni Pascoli (Hanno veduto una cavalla storna riportare colui che non ritorna) e Giacomo Leopardi (La donzelletta vien dalla campagna in sul calar del sole e D’in su la vetta della torre antica 
Passero solitario alla campagna cantando vai, finché non muore il giorno), felicemente assemblati in poche linee di arrembante canzone. 

A conclusione del disco, Passaggi a Livello sembra volerci anticipare la percezione che avremmo ascoltando Sentimiento Nuevo, un senso di nostalgia in utero che figlierà ne La Voce del PadronePassaggi a Livello è una chiusura strepitosa per un disco, arricchita da un vorticoso incedere di violino con cui Giusto Pio fregia il brano nobilitandolo. 

Vorrei soffermarmi tanto di più, ma non intendo sollecitare la vostra attenzione. In fondo son qui per stuzzicare non per dimostrarmi enciclopedico.
Permettetemi di aggiungere poche righe però: scrivere di Battiato non era semplice prima e lo è ancora meno adesso, si scade sempre nella banalità e gli inciampi sono dietro ogni angolo, ma trovo doveroso mantenere alta l’attenzione nei confronti di un intellettuale che ha saputo stimolare e coltivare un dibattito costruttivo e continuo attorno alla propria musica e all’interno di una società che – per quanto lo neghi – abbisogna di riferimenti spirituali che sappiano porre le riflessioni giuste. 

A presto amici miei. 

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Alice – Capo Nord

Continua il viaggio nel sentimento estivo, e uso come gancio Il Vento Caldo dell’Estate, brano in apertura di un disco monumentale.  

Gli artefici di questo capolavoro distillato in nove brani sono vecchie conoscenze dello spazio digitale di Pillole, che hanno risuonato più e più volte sulle casse dei vostri stereo anche prima che venissi io a ricordarvi della loro esistenza. Sto parlando proprio di Franco BattiatoGiusto PioAlberto Radius e Lino Capra Vaccina. Una squadra collaborativa che, di disco in disco, affina con gran gusto la sperimentazione in chiave pop.  

A questo gotha musicale si aggiunge Carla Bissi, alla prima collaborazione musicale con Franco Battiato. Si viene a creare, come avvenuto con Giuni Russo, una simbiosi nella quale la cantante non è semplice esecutrice dei divertissement musicali di Battiato Pio, quanto un valore aggiunto che consente di rendere riconoscibile – e differente – una produzione musicale che ha un humus condiviso con quella del proprio autore: da L’Era del Cinghiale Bianco a L’Arca di Noé

Sia Alice che Giuni Russo possono contare su una voce da sirena, seppure con le debite differenze dettate dall’estensione vocale – quasi anomala quella di Giuni Russo – e da un approccio canoro decisamente riconoscibile. 

Così, tornando al brano di apertura, Battiato e Pio arrangiano una Baba O’Riley pop e tutta italiana, con un tappeto sonoro che profuma tanto di minimalismo nel quale Alice suona in prima persona il sintetizzatore: Il Vento Caldo dell’Estate diventa così un inaspettato tributo di spessore ai maestri del genere come Riley Reich.  

Un generoso modo di introdurre dinamiche di musica cerebrale in un contesto squisitamente pop, prima che Radius imbastisca una ariosa fuga sulla chitarra che dà il là ad un dirompente infinito sonoro che scardina la claustrofobica prigione sulla quale è strutturato il brano. 

Chitarra che si ricollega a Bazar e al profumo medio-orientale che abbiamo imparato ad apprezzare con il Battiato di L’Era del Cinghiale Bianco, sul quale si adagia un testo naif che ammicca a Edward Lear; ma quello che sorprende l’ascoltatore più attento è un brano come Sarà, che non vede alcun contributo degli autori esterni nel testo e sembra ammiccare allo stile di scrittura di Ivan Graziani.  

Ecco, Alice ha contribuito a tutti i testi di Capo Nord, potendo contare anche su l’esperienza maturata nei due dischi precedenti con i quali si è fatta discretamente le ossa (lavorando a stretto contatto con lo zoccolo duro dei Pooh D’OrazioBattaglia) e trovandosi così pronta alla chiamata di Battiato.  

Il sentimento estivo torna con prepotenza in Lenzuoli Bianchi, vero brano scacciapensieri, che ricorda tantissimo quella St. Elmo’s Fire di Brian Eno per l’incedere con ritmo vorticoso e la conclusione breve – ma intensa – di Radius alla chitarra (che sembra voler omaggiare Robert Fripp). Mi preme divincolarmi da questa descrizione pezzo per pezzo, anche perché ci tengo a dire che Capo Nord è un meraviglioso disco nella sua interezza, un lp anni ‘80 che suona anni ‘80 e da ascoltare senza troppi giri di parole.  

Non è attuale. Semplicemente perché l’attualità temporanea è la retromania, e i gruppi si impegnano nel clonare i suoni anni ‘80, non vuol dire che lo facciano bene o che sia giusto.  

Capo Nord ha senso perché è figlio e manifesto degli anni ‘80

Ergo, questo disco suona dannatamente bene perché è remoto, opulento, concitato, che si anima per poi spegnersi, per poi mettersi nuovamente il pepe al culo con il finale di Guerriglia Urbana (altro brano che – così com’è registrato e composto – pare essere stato scartato dalla scaletta de L’Era del Cinghiale Bianco). Insomma, un monito per ricordarci che di musica bella ne abbiamo nei nostri archivi, ma è giusto anche guardare avanti, come Alice ha fatto con coraggio e bravura.