Alice – Capo Nord

Continua il viaggio nel sentimento estivo, e uso come gancio Il Vento Caldo dell’Estate, brano in apertura di un disco monumentale.  

Gli artefici di questo capolavoro distillato in nove brani sono vecchie conoscenze dello spazio digitale di Pillole, che hanno risuonato più e più volte sulle casse dei vostri stereo anche prima che venissi io a ricordarvi della loro esistenza. Sto parlando proprio di Franco BattiatoGiusto PioAlberto Radius e Lino Capra Vaccina. Una squadra collaborativa che, di disco in disco, affina con gran gusto la sperimentazione in chiave pop.  

A questo gotha musicale si aggiunge Carla Bissi, alla prima collaborazione musicale con Franco Battiato. Si viene a creare, come avvenuto con Giuni Russo, una simbiosi nella quale la cantante non è semplice esecutrice dei divertissement musicali di Battiato Pio, quanto un valore aggiunto che consente di rendere riconoscibile – e differente – una produzione musicale che ha un humus condiviso con quella del proprio autore: da L’Era del Cinghiale Bianco a L’Arca di Noé

Sia Alice che Giuni Russo possono contare su una voce da sirena, seppure con le debite differenze dettate dall’estensione vocale – quasi anomala quella di Giuni Russo – e da un approccio canoro decisamente riconoscibile. 

Così, tornando al brano di apertura, Battiato e Pio arrangiano una Baba O’Riley pop e tutta italiana, con un tappeto sonoro che profuma tanto di minimalismo nel quale Alice suona in prima persona il sintetizzatore: Il Vento Caldo dell’Estate diventa così un inaspettato tributo di spessore ai maestri del genere come Riley Reich.  

Un generoso modo di introdurre dinamiche di musica cerebrale in un contesto squisitamente pop, prima che Radius imbastisca una ariosa fuga sulla chitarra che dà il là ad un dirompente infinito sonoro che scardina la claustrofobica prigione sulla quale è strutturato il brano. 

Chitarra che si ricollega a Bazar e al profumo medio-orientale che abbiamo imparato ad apprezzare con il Battiato di L’Era del Cinghiale Bianco, sul quale si adagia un testo naif che ammicca a Edward Lear; ma quello che sorprende l’ascoltatore più attento è un brano come Sarà, che non vede alcun contributo degli autori esterni nel testo e sembra ammiccare allo stile di scrittura di Ivan Graziani.  

Ecco, Alice ha contribuito a tutti i testi di Capo Nord, potendo contare anche su l’esperienza maturata nei due dischi precedenti con i quali si è fatta discretamente le ossa (lavorando a stretto contatto con lo zoccolo duro dei Pooh D’OrazioBattaglia) e trovandosi così pronta alla chiamata di Battiato.  

Il sentimento estivo torna con prepotenza in Lenzuoli Bianchi, vero brano scacciapensieri, che ricorda tantissimo quella St. Elmo’s Fire di Brian Eno per l’incedere con ritmo vorticoso e la conclusione breve – ma intensa – di Radius alla chitarra (che sembra voler omaggiare Robert Fripp). Mi preme divincolarmi da questa descrizione pezzo per pezzo, anche perché ci tengo a dire che Capo Nord è un meraviglioso disco nella sua interezza, un lp anni ‘80 che suona anni ‘80 e da ascoltare senza troppi giri di parole.  

Non è attuale. Semplicemente perché l’attualità temporanea è la retromania, e i gruppi si impegnano nel clonare i suoni anni ‘80, non vuol dire che lo facciano bene o che sia giusto.  

Capo Nord ha senso perché è figlio e manifesto degli anni ‘80

Ergo, questo disco suona dannatamente bene perché è remoto, opulento, concitato, che si anima per poi spegnersi, per poi mettersi nuovamente il pepe al culo con il finale di Guerriglia Urbana (altro brano che – così com’è registrato e composto – pare essere stato scartato dalla scaletta de L’Era del Cinghiale Bianco). Insomma, un monito per ricordarci che di musica bella ne abbiamo nei nostri archivi, ma è giusto anche guardare avanti, come Alice ha fatto con coraggio e bravura. 

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Queen – Innuendo

Through the sorrow all through our splendor  
Don’t take offence at my innuendo”  

Il salto è di quelli che infastidisce, passare da un disco leggero come Jazz Innuendo è una mossa spiazzante e difficile da comprendere. Come anticipato nel post a introduzione di questo ciclo, non me la sento di trattare in questo momento gli anni ‘80 dei Queen, anche se non escludo di farlo in futuro.  

Per l’aneddotica, gli anni ‘80 rappresentano l’Eldorado di divertenti avvenimenti da narrare, dal punto di vista musicale però Innuendo è la chiusura del cerchio cominciato a tracciare agli esordi. L’oscurità presente in Queen II ora diventa concreta e non più un vezzo, si percepisce in ogni afflato di Freddie Mercury una rassegnazione che eleva il valore esecutivo di ogni traccia.  

Si tornano a toccare picchi qualitativamente molto elevati, dopo un The Miracle che ha mostrato segni di ripresa, Innuendo è la degna chiusura ispirata – di una carriera artistica estremamente eclettica – capace di mascherare alcuni passaggi a vuoto del periodo “stadi”, caratterizzato da una apparente svogliatezza creativa. In primis questo impulso creativo traspare dalla copertina del disco e dalle artworks – che seguiranno a cascata i vari singoli provenienti da Innuendo – ispirate ai lavori di Grandville, che contribuiscono alla creazione di un’aura mistica e fuori dal tempo attorno all’ultima opera queeniana. 

“Credo sia arrivato il momento di rompere la routine disco-tour-disco-tour” con questa dichiarazione rilasciata alla BBC dopo l’uscita di The Miracle – un disco molto potente e che ben si sarebbe prestato ad un tour – Freddie spiazza gli altri membri della band.  

La diagnosi della malattia induce Mercury a comunicare agli altri Queen lo stato delle cose nel 1989, giustificando di fatto la sua esternazione alla BBC, ed il suo approccio in studio di registrazione è di quelli da pelle d’oca: “Fatemi cantare qualsiasi cosa, datemi più materiale possibile”. Con questa modalità, canzoni come I Can’t Live With You e Headlong (originariamente previste per il disco solista di May) prendono vita e vengono inglobate nel nuovo disco.

Dopo il rilascio di The Miracle, stranamente, Freddie torna in studio per registrare alcune demo – tra le quali compare anche Delilah (la canzone dedicata al proprio gatto preferito tra gli 11 che accudiva nell’abitazione di Kensington Road) – dimostrando una voglia di lasciare inciso più materiale possibile a disposizione dei restanti Queen. La musica rappresenta una distrazione dalla malattia ma anche il motivo principale dell’esistenza di Mercury, vivere in funzione dell’arte – come è stato in parte per Blackstar di Bowie -, il disco assume così un valore unico, un’uscita di scena che rende la vita una performance totale. 

Innuendo è un requiem, sebbene ormai i credits siano suddivisi parimenti tra i quattro Queen, resta semplice scoprire a chi appartenga l’idea principale alle spalle di ogni brano, la cifra stilistica è chiara e il messaggio che si cela in ogni canzone porta il pensiero al momento che la band sta affrontando. 

Ed è proprio la title-track ad aprire il disco, con un ritmo mutuato dal Bolero di Ravel si erge a diventare la Bohemian Rhapsody degli anni ‘90, con un climax ascendente – interpretato dalla chitarra flamenca di Steve Howe degli Yes – che si inerpica nella struttura, varia ed estremamente angosciante, supportata da uno dei videoclip più memorabili della carriera queeniana [che mi ha sempre fortemente intimorito ndr].  

Il video è girato mediante una elaborata combinazione di animazione e stop motion: viene mostrato un cinema pieno di spettatori in plastilina che assiste (come nel rappresentazione filmografica di 1984) alla visione di filmati riguardanti il raduno di Norimberga, il funerale di Umm Kulthum (uno degli idoli di gioventù di Freddie), la marcia Russa, battaglie dalla seconda Guerra Mondiale, etc… ai quali si intrecciano varie performance dei Queen, con immagini tratte dal Live At Wembley e dalla proficua videografia proveniente dall’album The Miracle (The MiracleInvisible ManScandalBreakthru, I Want It All). 

La rappresentazione di ogni membro dei Queen è differente: Deacon è illustrato nello stile picassiano; May seguendo il tratto degli incisori vittoriani; Mercury come una figura di Da Vinci; Taylor in una esplosione di colori tipica di Pollock. Non è un caso che i periodi artistici siano differenti, si è voluta calcare la mano sul concetto di identità ben distinte che confluiscono però – in egual modo – nell’accezione di arte in senso lato.  

Una valorizzazione esplicita che pone democraticamente – MercuryMayDeacon e Taylor – sullo stesso piano, quasi a voler esprimere il seguente concetto: indiscriminatamente dai gusti, possiamo piacervi o meno, ma non potete contestare il contributo che singolarmente abbiamo apportato nella nostra carriera e nel panorama musicale. 

Innuendo è un disco genuino, perché ogni parola assume un peso specifico tale da renderla un macigno, pertanto anche un brano all’apparenza leggero come I’m Going Slightly Mad – che sforna una serie di metafore assimilabili al non-sense di Lear – pone davanti a delle considerazioni sul vero senso che si cela dietro. È il tempo contato che rende pazzi, o il brano rappresenta un modo per dissimulare l’ineluttabilità del destino? 

Jim Hutton ricorda che, Mercury, durante la stesura del testo avvenuta con il suo amico Peter Straker, non la smetteva di ridere mano a mano che le frasi venivano fuori, in particolar modo “I’m knitting with only one needle“, “I’m driving on only three wheels these days” e “I think I’m a banana tree“. Mostrando di fatto quanto la musica sia stata un ancora di salvataggio per Mercury negli ultimi mesi della propria esistenza, trasmettendo questa leggerezza – vero leit-motiv della carriera di Freddie – anche nel videoclip: con May ad impersonare un pinguino, Deacon nei panni del giullare, Taylor con una teiera in testa in sella ad un triciclo e Mercury con un casco di banane in testa. 

Mi sto dilungando eccessivamente, ma sarebbe un peccato castrare questo articolo non citando Bijou (una delizia sapientemente assemblata a quattro mani da Mercury May senza alcun intervento da parte di Taylor Deacon) o These Are The Days of Our Lives.

Quest’ultimo è un brano che Taylor ha scritto sui i propri figli, in particolare su come la genitorialità lo abbia spinto a ripensare alla propria vita. Uno guardo malinconico, che nella voce di Mercury assume un significato differente, una finestra su ciò che sono stati i Queen (questa canzone dimostra come Taylor sia il nostalgico di turno ed il più avvezzo a guardarsi indietro dopo Was It All Worth It presente in The Miracle).

In These Are The Days of Our Lives, Mercury, allo stadio terminale della malattia, affronta le riprese sforzandosi visibilmente, pur di poter salutare il proprio pubblico per un’ultima volta con quelle quattro parole che sono entrate nell’immaginario collettivo del pubblico queeniano. 

A dispetto di quanto credano i più, come These Are The Days of Our Lives, anche The Show Must Go On non è un brano nato da Freddie, bensì è tutto frutto di un ispirato Brian che ha inizialmente tessuto la base musicale assieme all’aiuto di Roger e John, per poi decidere in seguito con Freddie la tematica ed alcune parti del testo. Successivamente, ha aggiunto altre melodie e le restanti parole, cesellando un ponte ispirato al canone di Pachelbel.  

C’è una storia curiosa dietro il completamento di questa canzone che rende oltremodo leggendario il brano; Brian presenta a Freddie un demo in falsetto, in quanto alcuni punti raggiungono delle vocalità estremamente alte.  

Brian è incapace di nascondere le proprie perplessità ad un Freddie – fortemente debilitato – riguardo la possibilità che riesca ad eseguire quel range vocale. In tutta risposta Mercury si schianta un bicchiere di vodka secco e lo tranquillizza “cazzo se ce la faccio tesoro!”, andando spedito a registrare la sua parte. 

“È una lunga storia questa canzone, ma ho sempre creduto che sarebbe diventata importante, perché avevamo a che fare con situazioni di cui era difficile parlare all’epoca, anche se la musica ti offre la possibilità di farlo” ricorda May. 

Non vi nego che un velo di tristezza è sceso su di me durante la redazione di questo ultimo articolo sui Queen, sono stato felice di aver ripreso in mano la loro storia e di averla ripercorsa passo passo. Ho avuto modo di elaborare ulteriormente la loro produzione, rivalutando nel bene e nel male alcuni lavori.

Spero di non aver deluso le aspettative in merito e di aver onorato la memoria di una band così iconica. Le informazioni su di loro sono una montagna, filtrarle tutte quante è stato un lavoro intenso e mi auguro che la storia raccontata sia stata all’altezza. 

L’anno in pillole si chiude così in maniera malinconica con Innuendo.  

A presto cari lettori. 

“Tutti abbiamo affrontato problemi di ego, come ogni altra band, ma non li abbiamo mai assecondati fino in fondo, ci siamo semplicemente detti ‘ok dimentichiamocene’, perché credo che ognuno di noi quattro sentisse che questa chimica avrebbe sempre funzionato veramente. Perciò perché uccidere la gallina dalle uova d’oro, questo spirito di sopravvivenza che ho e che penso abbia anche il resto del gruppo, ci porterà a continuare attraverso ogni avversità – che sia la morte di uno di noi o di qualcos’altro – semplicemente lo rimpiazzeremo. Voglio dire, se io me ne dovessi andare, in loro scatterebbe questa sorta di meccanismo, e mi rimpiazzerebbero. Anche se non credo sia facile rimpiazzarmi, no?!”

Squallor – Troia

Squallor - Troia

“Nell’Iliade appaiono due modi di rappresentazione. Il primo si ha quando Omero descrive lo scudo di Achille: è una forma compiuta e conchiusa in cui Vulcano ha rappresentato tutto quello che egli sapeva e che noi si sa su una città, il suo contado, le sue guerre i suoi riti pacifici. L’altro modo si manifesta quando il poeta non riesce a dire quanti e chi fossero tutti i guerrieri Achei: chiede aiuto alle muse, ma deve limitarsi al cosiddetto, e enorme, catalogo delle navi, che si conclude idealmente in un eccetera. Questo secondo modo di rappresentazione è la lista o elenco.”

Così Umberto Eco introduceva Vertigine della Lista, uno delle sapienti guide redatte dal “fetentone” (come lo qualificava il compianto – forse più di EcoMichele Giordano), un gancio quasi scritto ad hoc dal buon Umberto-berto-erto-to ispirato probabilmente dall’ascolto del disco d’esordio degli Squallor.

Una doppia rappresentazione quindi, ma in che senso?

“Cantami, o Diva, del pelide Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei”

Ascoltando le prime note della title-track la sensazione è di avere a che fare con l’ennesima realtà cantautorale intellettuale, l’animo partenopeo di Cerruti viene in soccorso mantenendo il tutto in equilibrio su di un filo che vibra costantemente tra il serio e la presa in giro.

Una fitta trama di calembour volta a confondere l’ascoltatore sulla falsa riga del Pippo Franco di Cesso (uscita due anni prima), viene smantellata definitivamente al nitrito di Cerruti, interprete di tutte le ballate lente targate Squallor.

“Inventai Troia, così un ragazzino per andare a comprare, alla signorina… chiedigli Troia e ce l’ha anche se non sa cos’è”, Cerruti spiega l’idea dietro al primo titolo della discografia degli Squallor e il divertimento è proprio sito nelle soluzioni fantasiose dei ragazzini per nascondere il disco una volta arrivati a casa (testimoniato nel documentario sugli Squallor del 2012).

Eppure l’origine dei quattro è più che nobile, veri deus ex machina della musica leggera italiana appartenenti alla gloriosa CDG, talent scout ed autori di alcune delle canzoni italiane più celebri e belle incastonate nel Mille Note. Se cominciassi a elencarle avrei bisogno delle muse citate da Eco e potrei tediarvi non poco, vi consiglio pertanto di approfondire di persona se interessati.

Si continua sulla falsa riga di Troia, un continuo detto non detto che ondeggia placido su ritornelli pop, o su delle vere e proprie parodie come nei casi di The Mosquito dei The Doors (divenuta Non Mi Mordere il Dito), Sex Clubs di Serge Gainsbourg (Morire in Porsche), o con La Risata Triste copiata con carta carbone da Slush dei Bonzo Dog Band (che in parte può essere ascritta come antesignana de Il Circo Discutibile di Elio e Le Storie Tese).

Non sono esentate da questo trattamento anche composizioni in stile cinematografico (come Indiani a Warlock), insomma i brani sono permeati da un doppio senso reiterato che quando è assente viene rimpiazzato dalla narrazione delle scene quotidiane ad un apparente non-sense che avrebbe fatto impallidire anche Edward Lear nel proprio periodo di maggiore fertilità creativa.

Cerruti inquadra il manifesto degli Squallor con questa frase “Io e miei compagni d’avventura eravamo organici al mondo della musica. Avevamo a che fare con i cantanti e i cantanti, non so se lo sa, sono degli scassacazzi senza eguali. Egotici, arroganti, autoreferenziali. Volevano questo e pretendevano quell’altro. Gente micidiale. Usciti dai nostri incontri quotidiani con le stelle della musica, eravamo neri come la notte. Allora pensammo di donarci un po’ di luce. Parodiammo il nostro universo e in quel modo ci salvammo l’anima”.

Quindi il non-sense apparente, valorizzato dalla capacità di improvvisazione nei testi a tratti eroica, è la presa del culo degli Squallor al mondo dal quale provengono, una sorta di esorcismo per sopravvivere agli eccessi di un ambiente che oltre i lustrini sa essere più crudele dell’Isola della Regina Nera. Savio, Pace, Bigazzi e Cerruti son soliti svergognare i cantautori con i quali collaborano da una vita.

Il ruolo da loro ricoperto nel mercato musicale impone un iniziale riserbo sulle loro figure, gli Squallor celano la propria identità evitando anche promo, concerti o eventi pubblici, salvo poi gettare la maschera e cominciare con il turpiloquio ponderato che ha caratterizzato le successive sortite discografiche.

Affetti dalla sindrome di Bruce Wayne, si può tranquillamente affermare che son bischeri al pari del Mascetti, del Perozzi, del Sassaroli, del Necchi e del Melandri… insomma chi li ha vissuti ed amati li nomina come la formazione della nazionale italiana dell’82, sono gli Amici Miei della musica: irriverenti, cinici, fastidiosi, sboccati e senza freni, seri durante il giorno, cazzoni la notte. Capaci di lanciare strali verso le lobby senza nascondersi dietro un dito.

Gli Squallor sono nati così, un cazzeggio continuo al lavoro con una cascata di battute alle quali è seguita una domanda più che lecita: perché lasciarle disperdere nel vento?

E se magari i dubbi su quanto vi ho detto persistessero, credo che dobbiate fugarli con la meravigliosa 38 Luglio (primo singolo, registrato all’insaputa di Cerruti e Pace, alla base della nascita del progetto Squallor e con il quale hanno venduto 100mila copie senza nemmeno pubblicità) o con Ti Ho Conosciuta In Un Clubs, capolavori in climax ascendente di intensità tragicomica.

Signori, amo gli Squallor ed i loro tempi comici. Spero per voi sia lo stesso

 

Per questo articolo si ringraziano i siti:

https://spazio70.net/tag/troia-squallor/

http://www.lindiependente.it/gli-squallor-il-documentario-sulla-darkroom-della-musica-italiana/

dai quali sono state reperite informazioni per la redazione dello stesso.

Matching Mole – Matching Mole

Matching Mole - Matching Mole

“Hey sì, pronto? Parlo con il signor Ellidge? Salve, come sta? È la CBS che parla. Sa, abbiamo saputo che ha mollato i Soft Machine, è un vero peccato. Ma indubbiamente lei merita di avere carta bianca ragazzo, è veramente un bel soggetto e crediamo che debba formare un nuovo gruppo con il quale registrare un album. Che ne dice? Ah… dimenticavo, ovviamente niente cloni di The End of An Ear.”

E così venne il giorno in cui Robert lasciò i Soft Machine, dopo un periodo più che depressivo (triste costante per Wyatt), non tardò molto prima che venne la CBS in suo soccorso, così con Dave Sinclair (ex Caravan e musicista in The End Of An Ear), il vicino di casa Bill MacCormick e Phil Miller (ex collega di Lol Coxhill), vengono a formarsi i Matching Mole.

Lo spirito di Edward Lear scorre forte in Robert, che per il nome della band si ricorda di uno dei primi tour con i Soft Machine avvenuto in Francia, dove – in pieno spirito nazionalista francese – vengono presentati come Machine Molle. L’assonanza con Matching Mole è voluta ed appare come un modo per salutare raffinatamente – non senza rancore – i colleghi che lo hanno esautorato, tant’è che rafforza il concetto con l’immagine di copertina, con due talpe che si trovano una di fronte all’altra, tra la sorpresa ed il rincoglionimento [matching mole tradotto vorrebbe dire talpe accoppiate ndr].

Quando poi si parte con O’Caroline e Signed Curtain, si percepisce proprio il bisogno di una boccata d’ossigeno per Wyatt. La voglia di divagare e scherzare con due canzoni dalla struttura apparentemente semplice appare palese: la prima è una canzone d’amore melensa dedicata a Caroline Coon (nominata nell’articolo su The End of An Ear e con la quale Robert ha avuto un intrallazzo), la peculiarità di questo brano è l’inizio nel quale Wyatt in fase di scrittura descrive la situazione che si configurerà in fase di esecuzione del brano “David’s on piano and I may play on a drum“; nella seconda questa idea si incanala verso il non-sense, pronta ad abbattere la quarta parete in una comunicazione continua con l’ascoltatore, al quale viene descritto ogni singolo passaggio della canzone.

Questo non significa che le composizioni sopra citate fossero qualitativamente poco valide, anzi… come detto sembra quasi uno scherzo architettato sapientemente da Wyatt, perché entrambe le canzoni non terminano ma proseguono in altre idee piuttosto articolare come Instant Pussy e Part of the Dance. Per un ascoltatore poco attento apparirebbe che il batterista uscente dei Soft Machine – proveniente da Third e da The End of An Ear – abbia quasi le idee siano confuse.

Invece no, Wyatt seppur istintivo, ha di fondo un’identità musicale estremamente definita, talvolta il focus potrebbe essere nebuloso ma inconsciamente sa già dov’è il traguardo da raggiungere. I Matching Mole quindi garantiscono a Wyatt di assecondare il proprio estro, un’evasione dalla razionalità imposta dal dittatoriale Ratledge.

E quindi non a caso troviamo Instant Pussy ed Instant Kitten ad inebriare le orecchie più raffinate ed esigenti, alla ricerca di altri esempi del “Wyatt strambo”, oppure l’ammiccamento a Canaxis 5 in Immediate Curtain, un brano a mio avviso meraviglioso e quasi prodromico in un certo senso di Rock Bottom per le atmosfere compresse e fosche.

Matching Mole è il progetto che lascia intravedere altro potenziale di Wyatt, per chi non lo conoscesse questo è un disco da ascoltare ed apprezzare perché contiene tante intuizioni e perle che troverete nel proseguo di carriera del dio-batteria.

Robert Wyatt – The End Of An Ear

Robert Wyatt - The End Of An Ear

La fine di un orecchio, il gioco di parole è sottile ma semplice da cogliere per chi ha una conoscenza seppur minima dell’inglese. Sinceramente non pensavo che mi sarei trovato a parlare di questo disco – per il quale Wyatt si è profondamente ispirato a Scatman John (ve ne accorgerete ascoltando con perizia Las Vegas Tango Pt.1) – ma i tempi cambiano e si rivelano maturi per spendere due parole su Pillole.

Wyatt è un maestro capace di galleggiare nella sottile linea tra significato e significante alla Edward Lear (campione del limerick), mostrando uno spiccata volontà di fornire varie chiavi di lettura a chi ascolta e interpreta, “C’è la parola ‘play’, che può avere differenti significati. Io cerco di metterli tutti insieme. Giocare come giocano i bambini, quasi l’opposto di lavorare, o suonare gli strumenti come i musicisti [non ho avuto modo di rendere l’idea delle parole di Wyatt per via della polivalenza della parola play, nell’intervista dice Play as in children playing, almost the opposite of working, and then musicians play instruments. Ndr]. Per me, suonare o giocare coincidono, così come tutti differenti significati della parola ‘play’ coincidono quando lavoro, suono o come diavolo vuoi chiamare ciò che faccio”.

Come per Third, The End Of An Ear è un’opera indefinibile, profondamente ispirata al free jazz di Davis, con Bitches Brew (vera e propria epifania per Wyatt) capace di imporsi come disco seminale per la deriva della cricca di Canterbury (e non solo). Gli ascoltatori più attenti noteranno nei vocalizzi e nelle strutture compositive delle similitudini con Moon In June. La risposta è: EEEEEEEEEEESATTA! (se non ci avevate pensato non vi siete applicati e vi consiglio di studiare nuovamente da capo i vecchi articoli).

Tant’è che questo disco viene proposto a Wyatt dalla CBS – etichetta detentrice dei diritti sui Soft Machine – per cercare di replicare il successo di Moon In June, unico brano cantato in Third dalle venature più pop rispetto al contenuto presente nel disco. Già, non vi suscita una risata pensare che la CBS considerasse Moon In June un brano pop (dalla durata di ben 19 minuti)?

Vabè, Wyatt accetta di buon grado, la CBS tronfia dell’accordo in tasca non immagina con chi ha a che fare e trova un Robertino frustrato da morire per esser stato relegato a ruolo di comparsa nei Soft Machine. Stanco della routine nelle Macchine Soffici, da sfogo a tutta la propria creatività repressa, senza però venir meno ai patti con la CBS, lo stile adottato nel brano di apertura del disco Las Vegas Tango Pt.1 prevede un ampio uso del multi-tracking alla Moon In June… peccato non ci sia una parola sensata in tutto il disco, solo un miscuglio di suoni gutturali.

Dice il buon Wyatt di aver tratto molta ispirazione dai dipinti di Chagall e Picasso, nel tentativo di rappresentare musicalmente le pennellate ed i colori dei due artisti, così prende forma un disco senza punti deboli. Gli riesce anche di fare un saluto a tutta la cricca canterburina e non, ogni canzone viene intitolata ad una persona o ad una band vicino a Wyatt:

  • To Mark Everywhere, dove Mark Ellidge è il fratellastro che suona il piano nella canzone;
  • To Saintly Bridget, a Bridget St. John;
  • To Oz Alien Daevyd and Gilly, a Daevid Allen dei Gong e alla sua Gilli, noché co-fondatore dei Soft Machine;
  • To Nick Everyone, al compagno nei Soft Machine Nick Evans;
  • To Caravan and Brother Jim, beh i Caravan sono i Caravan, mentre Jim è Jimmy Hastings, turnista più che conosciuto della scena canterburina;
  • To The Old World, dedicata a Kevin Ayers e alla sua band tra i quali figurano i nostri amici Bedford, Coxhill, Oldfield (lo avreste potuto desumere dall’uso del kazoo – quasi a voler scimmiottare la sezione dei fiati della band – se foste stati preparati);
  • To Carla, Marsha and Caroline, per Carla Bley (amica e jazzista di caratura enorme per chi non la conoscesse), Marsha Hunt ex moglie di Ratledge alla quale il buon Jagger dedicò Brown Sugar e con la quale ebbe una figlia rinnegata per tempo dal viscidone (momento gossip paxxissimo!1!1!!), e Caroline Coon che ha ispirato O’Caroline dei Matching Mole (che andremo poi ad approfondire nell’articolo dedicato alle talpe). Ciò che unisca queste tre figure è un mistero.

Las Vegas Tango è l’unico brano che non nasce dalla farina del sacco di Wyatt, bensì è un tributo a Gil Evan, che poi viene ripensato in maniera brillante da Robertino.

Con The End of An Ear non solo Wyatt vuole tracciare un solco con il passato e con i Soft Machine – band formata e dal quale è stato estromesso – ma vuole incuriosire guidando ad un ascolto differente, avvicinando ad un’idea differente di musica. Ecco che in questo l’ispirazione dettata da Chagall e Picasso assume consistenza e senso, perché entrambi a modo loro hanno contribuito ad ampliare il concetto di bellezza, uscendo dal seminato, da standard precostituiti.

Così Wyatt ha creato un nuovo luogo di ascolto, la fine di un orecchio, ma anche la fine di un’era. Wyatt ci ha aperto gli occhi, o meglio, ci ha stappato le orecchie.

Kevin Ayers – Joy Of A Toy

Kevin Ayers - Joy Of A Toy

“Quando in Aprile le dolci piogge cadevano

E penetravano la siccità di marzo alla radice, e tutte

Le vene erano impregnate di umore in tale potere

Da portare al generarsi dei fiori,

Quando anche Zeffiro con il suo fiato dolce

Ha esalato aria in ogni bosco e in ogni brughiera

Sopra i teneri germogli, e il nuovo sole

Ha percorso la sua metà del cammino in Ariete,

E gli uccellini hanno fatto melodia

Che dormono tutta la notte con gli occhi aperti

(Così la natura li punge nei loro cuori impegnati)

Allora la gente va lontano in pellegrinaggio

E i pellegrini (vanno) lungamente alla ricerca di lontani santuari

Variamente noti, si trovano in contrade forestiere,

E specialmente, fin dalle più lontane parti

Dell’Inghilterra, loro si recano a Canterbury […]”

 

Nel prologo delle Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer, si può leggere tra le righe di ciò che accadrà con il movimento musicale di Canterbury. Dove il santuario della psichedelia e del progressive viene preso a modello d’ispirazione da una generazione di band.

Uno dei fautori delle Canterbury Tales targate anni ’60 è stato Kevin Ayers, capostipite -assieme a mastro Wyatt – dei Soft Machine, successivamente abbandonati per una pigrizia congenita. Succede che dopo un tour dei Soft Machine come spalla a Jimi Hendrix e la sua Experience, Ayers vuole staccarsi dallo showbiz e dai suoi meccanismi. Jimi cuore d’oro che non è altro, gli regala una Gibson acustica affinché possa continuare ad esercitarsi nello scrivere canzoni. Lui così fa, va a vivere prima a Ibiza – dove butta giù i testi della sua prima fatica solista – poi a Londra e Peter Jenner lo produce.

Nei versi di Chaucer c’è anche il manifesto del primo disco solista di Ayers, Joy of A Toy. Un risveglio, come una primavera musicale, l’allegria nel disco ed il suo disordine è coinvolgente e ha molto in comune con il Syd Barrett scanzonato di The Madcap Laughs – album coevo che risente oltre che dell’influenza di Jenner anche della presenza dei vari Soft Machine.

Hopper, Ratledge e Wyatt, hanno contribuito in maniera determinante alla realizzazione del capolavoro di Barrett.

Ayers figura come una versione più disciplinata del lisergico Syd, ma con le medesime radici.  Non solo, anche la necessità di staccarsi dalle band che hanno fondato trasmette chiaramente la voglia di intraprendere un progetto diverso, svincolato dalla “serietà” della musica prodotta e da tutto ciò che ne consegue in termini di impegni.

I due si troveranno a collaborare in un singolo di punta di Ayers, Singing a Song in the Morning, dove Barrett suona la chitarra in una versione inedita fino agli inizi del 2000. Ayers a tal proposito ricorda Syd come una presenza flemmatica, incapace di accordare la chitarra o di suonare gli accordi giusti. Vabè, semplicemente quello che ci è stato raccontato anche dagli altri musicisti durante le sessioni che hanno contribuito alla registrazione dei suoi due dischi.

Tornando a Joy of A Toy, il titolo dell’album è un tributo alla passata esperienza del bassista, nello specifico al primo singolo rilasciato negli USA da parte dei Soft Machine, facente parte di un enclave musicale all’interno della suite Hope For Happiness. La composizione che apre il disco si intitola Joy of A Toy Continued, come a voler indicare una continuità con quanto fatto sino a quel momento con la sua band, distaccandosene con un bailamme di suoni che fanno festa ad ogni vibrazione.

Kazoo, organetto, trombette, frizzi, lazzi, scazzi, si sente l’influenza dei Pink Floyd dello UFO, con il quale i Soft Machine hanno condiviso il palco, si sente l’outro di Bike in questa melodia.

Il bambino paffutello coi calzetti tirati su, il tamburo in mano e l’esultanza alla Paolo Rossi, danno l’idea del clima che si può trovare nel disco: allegria, esaltata da una rana che suona un trombone e che ci lascia intendere che magari anche un po’ di psichedelia all’interno dell’album non ci sfuggirà.

La sua voce impostata e baritona – aiutata dai fiati dominanti nel disco – è camaleontica e con sfumature diverse ad ogni ascolto ed ogni ritornello, unica nella sua poliedricità, in Town Feeling il suo canto deciso e trascinato ricorda leggermente Roger Waters, in Clarietta Rag il canto veloce, onirico e spensierato contro le leggi della metrica incontra in tutto e per tutto Syd Barrett, così come la chitarra con punte di acidità e distorsione palesa un’influenza dalla Vegetable Man floydiana memoria. In Song For Insane Times ricorda a tratti Nick Drake nell’intimità dell’esecuzione

Scanzonato, ma niente di innovativo, idee sviluppate con grazia e raffinatezza, intrecci e armonizzazioni che danno un corpo consistente ai suoi brani, vestiti che indossa perfettamente. Sicuramente un apporto deciso ad una corrente musicale che già si è sviluppata con forza negli anni passati. Un disco da ascoltare per cominciare ad assemblare i pezzi di un puzzle sconosciuto ai più.

Syd Barrett – Barrett

Syd Barrett - Barrett

C’era una volta, tanto tempo fa, in un’epoca lontana lontana gente capace di comporre, scrivere e produrre musica di alto livello schioccando le dita… No! Non è l’introduzione di Star Wars e non sto parlando di fantascienza, è accaduto veramente. Gruppi e artisti in grado di pubblicare più di un album entro un anno… album di livello eccelso. Com’è possibile spiegare questo periodo di Eldorado musicale? Lo approfondiremo magari fra qualche tempo.

Syd Barrett ad esempio dopo aver pubblicato nel Febbraio del 1970 The Madcap Laughs – e dopo averlo promosso solamente con una canzone durante una trasmissione radiofonica – torna a lavorare dopo una manciata di giorni al suo secondo album solista: Barrett. Il disco arriva per merito di David Gilmour che – avendo trovato l’interpretazione dello show radiofonico esaltante – decide di scommettere ancora su di lui e produrlo assieme a Richard Wright. Il secondo disco non è riuscito a raggiungere lo stesso livello di vendite del suo predecessore, ma nei contenuti non ha nulla da invidiargli, risultando a tratti leggermente superiore.

Come per il primo lavoro ci troviamo di fronte ad una psichedelia incalzante e ossessiva,  continui scioglilingua si intrecciano a filastrocche non-sense ispirate dalle opere di Edward Lear, il tutto però concretizzato dalla presenza dei due membri Pink Floydiani alla produzione; garantendo sessioni meno snervanti e dispersive rispetto a quelle di The Madcap Laughs e dei tempi di realizzazione di gran lunga inferiore rispetto al primo lavoro.

A tal proposito Richard Wright ha trovato molto stimolante la collaborazione con Barrett, ma al contempo estremamente difficoltosa e complicata. L’idea a monte è stata quella di aiutare Syd in qualche modo – visto la sua tendenza all’abuso di sedativi, droghe e quant’altro – oltre che un senso di colpa latente a seguito del peccato originale di rinnegare il cervello della band esiliandolo dai Pink Floyd. Storm Thorgerson, fondatore dello studio Hipgnosis e amico di infanzia di Barrett (nonché anche coinquilino per un certo periodo), lo descrive come una persona totalmente smarrita e con dei continui black-out, incapace a tratti di avere cura di se stesso.

David Gilmour – l’unico capace di comunicare effettivamente con Barrett –  invece ha trovato tre vie alternative per collaborare con lui:

– la prima, suonare su quanto ha già scritto (quasi impossibile) come per Gigolo Aunt;

– la seconda, buttar giù qualche traccia prima, per farci suonare sopra Barrett;

– la terza, lasciargli elaborare l’idea di base con voce e chitarra, con successiva costruzione armonica da parte dei musicisti e collaboratori.

In sintesi la terza opzione prevede un ruolo alla Brian Wilson dei Beach Boys, stesso ruolo offertogli dai Pink Floyd per farlo rimanere all’interno della band almeno per la fase creativa, ma da lui rifiutato per pudore e orgoglio solamente due anni prima.

Per capire la situazione in cui versa Syd Barrett durante le sessioni del suo secondo lavoro solista, basta tornare al 6 Giugno del 1970 quando in una esibizione – accompagnato da Dave Gilmour e Jerry Shirley (batterista degli Humble Pie) – si sfila la chitarra e lascia il palco durante il quarto brano, lasciando il pubblico basito.

Il disco si chiude con Effervescing Elephant, una fiaba-filastrocca scritta da Barrett a 16 anni che può essere considerato come una sorta di congedo nei confronti del suo pubblico con una voce pigra e addormentata, i fiati che danno l’impressione di una ninna-nanna che svanisce con un sordo rumore di punto in bianco.

Ciò che sorprende ancora di Barrett è la capacità di trasmettere emozioni proprie, sensazioni vissute nell’intimità di un animo disturbato – e con mille sfaccettature – con una semplicità disarmante, tralasciando l’aspetto musicale al quale è stato applicato un make-up pesante da parte di Gilmour. L’ultimo lavoro di Barrett prima del ritorno all’anonimato ci lascia con l’amaro in bocca, facendoci chiedere: quanto avrebbe potuto contribuire al mondo della musica più di quanto non abbia già fatto?

La copertina dell’album è un dipinto con gli insetti, trovato da Barrett nella sua cantina, nello scatolone dei ricordi d’infanzia. Sospeso nella sua storia effimera.

Pink Floyd – The Piper At The Gates Of Dawn

 

Pink Floyd - The Piper At The Gates Of DawnTutto ha origine nella seconda metà dell’ottocento, quando Edward Lear inventa il non-sense, influenzando così una schiera di artisti che attingeranno a piene mani dal calderone dell’autore inglese. Su tutti: Ayers, Wyatt e Syd Barrett.

Quest ultimo sembra essere la reincarnazione di Lear e decide di mettere in musica quei limmerick fantasiosi, quei giochi di parole appesi nel nulla, costruendo l’atmosfera adatta e trovando la giusta dimensione musicale in accompagnamento. Un collage dadaista di suoni e rumori in apparente anarchia, che si sposano perfettamente con il mondo incantato di The Piper At The Gates Of Dawn.

Oh sì, questo album è un delirio dove il caos ordinato regna sovrano, tra fiaba e magia.

Il titolo prende direttamente spunto da un altro classico della letteratura fanciullesca britannica: Il vento tra i salici. Barrett è fortemente ispirato e il suo essere stralunato è una derivazione delle letture che lo hanno formato – da Lear a Huxley, da Crowley a Belloc, fino all’I-ching – accompagnandolo sin dall’infanzia; l’abuso di droghe lo aiuta a concentrarsi su quel mondo e a descriverne ogni singola sfaccettatura.

Astronomy Domine comincia con un segnale Morse simulato da un Farfisa; Peter Jenner presta la sua voce distorta all’inizio del brano, poi subentra Barrett – vero deus ex machina di questi Pink Floyd – che porta con se un libro tascabile sui Pianeti consultato costantemente durante la composizione del testo. Il resto lo fanno la sua Telecaster con gli specchi e la sua voce cadenzata.

Lucifer Sam ha un tappeto musicale tra Shadows e Ventures, qui Waters usa l’archetto sul basso dando al brano uno spessore memorabile. Il riferimento alla “Jennifer Gentle” che si fa nella canzone, è rivolto ad una fiamma mozza-fiato (termine vetusto e sempre più desueto) con la quale Syd uscì per un breve periodo – tale Jenny Spires.

POW R TOC H invece è l’esempio di sperimentazione nell’ambito pop dell’uso di voci e rumori all’interno di una composizione. La canzone – seppur accreditata al gruppo – è di Waters, la sua voce è riconoscibile ed il buon esito di tale sperimentazione gli offrirà la possibilità di battere questa strada con maggiore convinzione anche in brani futuri.

Durante le registrazioni alla EMI – coeve all’uscita di Sgt. Pepper – è capitato spesso a Barrett e colleghi di incontrare membri dei Beatles. In particolar modo McCartney durante le sessioni, dimostrava di apprezzare molto il lavoro dei Pink Floyd e del produttore Jenner; sembrerebbe perciò che i Beatles abbiano interceduto per garantire dei privilegi ai ragazzi (come ad esempio poter giocare con il mixer durante le sessioni… mixer considerato sacro dai capoccia della EMI).

Una delle concessioni più grandi però fu la possibilità di poter riportare su disco quello che era oramai l’inno della psichedelia allo UFO: Interstellar Overdrive. Peter Jenner racconta l’origine di questa composizione “L’ho raccontato talmente tante volte che ormai non so nemmeno più se sia vero o meno, ma mi sono avvicinato a Syd per canticchiargli quella che credevo essere una canzone dei Love… ero talmente tanto fuori tempo e stonato che – Syd che aveva la chitarra in mano – la risuonò all’istante sulla base di quanto gli avevo cantato ed era una canzone totalmente differente. La canzone non era nemmeno dei Love, bensì di Burt Bacharach (My Little Red Book)… Potete immaginare quanto abbia distrutto l’originale”.

L’album si conclude con un brano che condensa i vari trend del disco all’interno di 3 minuti e 21 secondi di filastrocca e musica concreta. Bike è dedicata sempre a Jennifer Spires, almeno la prima parte è dedicata a lei, la seconda è un bailamme di rumori riuniti in un collage – tra i quali: violini, orologi, campane, un loop al contrario e velocizzato della band che ride.

Questo è l’ABC, questa non è semplice psichedelia, è qualcosa di trasversale al quale molti gruppi in futuro cercheranno di ispirarsi. Gli stessi Pink Floyd, perdendo Barrett, non riusciranno a replicare la leggerezza e la capacità di essere stralunati volgendo verso un sound molto più cupo e claustrofobico, a tratti ridondante, auto-celebrativo e fine a se stesso.

P.S. la foto che immortala la band in copertina, venne scattata da Vic Singh, un fotografo indiano che ricevette il caleidoscopio col quale scattò la foto da George Harrison in persona. David Baley – fotografo che condivideva lo studio con lo stesso Singh – era un amico molto intimo del chitarrista dei Fab Four, ciò spiega questo curioso dono.