Alice – Capo Nord

Continua il viaggio nel sentimento estivo, e uso come gancio Il Vento Caldo dell’Estate, brano in apertura di un disco monumentale.  

Gli artefici di questo capolavoro distillato in nove brani sono vecchie conoscenze dello spazio digitale di Pillole, che hanno risuonato più e più volte sulle casse dei vostri stereo anche prima che venissi io a ricordarvi della loro esistenza. Sto parlando proprio di Franco BattiatoGiusto PioAlberto Radius e Lino Capra Vaccina. Una squadra collaborativa che, di disco in disco, affina con gran gusto la sperimentazione in chiave pop.  

A questo gotha musicale si aggiunge Carla Bissi, alla prima collaborazione musicale con Franco Battiato. Si viene a creare, come avvenuto con Giuni Russo, una simbiosi nella quale la cantante non è semplice esecutrice dei divertissement musicali di Battiato Pio, quanto un valore aggiunto che consente di rendere riconoscibile – e differente – una produzione musicale che ha un humus condiviso con quella del proprio autore: da L’Era del Cinghiale Bianco a L’Arca di Noé

Sia Alice che Giuni Russo possono contare su una voce da sirena, seppure con le debite differenze dettate dall’estensione vocale – quasi anomala quella di Giuni Russo – e da un approccio canoro decisamente riconoscibile. 

Così, tornando al brano di apertura, Battiato e Pio arrangiano una Baba O’Riley pop e tutta italiana, con un tappeto sonoro che profuma tanto di minimalismo nel quale Alice suona in prima persona il sintetizzatore: Il Vento Caldo dell’Estate diventa così un inaspettato tributo di spessore ai maestri del genere come Riley Reich.  

Un generoso modo di introdurre dinamiche di musica cerebrale in un contesto squisitamente pop, prima che Radius imbastisca una ariosa fuga sulla chitarra che dà il là ad un dirompente infinito sonoro che scardina la claustrofobica prigione sulla quale è strutturato il brano. 

Chitarra che si ricollega a Bazar e al profumo medio-orientale che abbiamo imparato ad apprezzare con il Battiato di L’Era del Cinghiale Bianco, sul quale si adagia un testo naif che ammicca a Edward Lear; ma quello che sorprende l’ascoltatore più attento è un brano come Sarà, che non vede alcun contributo degli autori esterni nel testo e sembra ammiccare allo stile di scrittura di Ivan Graziani.  

Ecco, Alice ha contribuito a tutti i testi di Capo Nord, potendo contare anche su l’esperienza maturata nei due dischi precedenti con i quali si è fatta discretamente le ossa (lavorando a stretto contatto con lo zoccolo duro dei Pooh D’OrazioBattaglia) e trovandosi così pronta alla chiamata di Battiato.  

Il sentimento estivo torna con prepotenza in Lenzuoli Bianchi, vero brano scacciapensieri, che ricorda tantissimo quella St. Elmo’s Fire di Brian Eno per l’incedere con ritmo vorticoso e la conclusione breve – ma intensa – di Radius alla chitarra (che sembra voler omaggiare Robert Fripp). Mi preme divincolarmi da questa descrizione pezzo per pezzo, anche perché ci tengo a dire che Capo Nord è un meraviglioso disco nella sua interezza, un lp anni ‘80 che suona anni ‘80 e da ascoltare senza troppi giri di parole.  

Non è attuale. Semplicemente perché l’attualità temporanea è la retromania, e i gruppi si impegnano nel clonare i suoni anni ‘80, non vuol dire che lo facciano bene o che sia giusto.  

Capo Nord ha senso perché è figlio e manifesto degli anni ‘80

Ergo, questo disco suona dannatamente bene perché è remoto, opulento, concitato, che si anima per poi spegnersi, per poi mettersi nuovamente il pepe al culo con il finale di Guerriglia Urbana (altro brano che – così com’è registrato e composto – pare essere stato scartato dalla scaletta de L’Era del Cinghiale Bianco). Insomma, un monito per ricordarci che di musica bella ne abbiamo nei nostri archivi, ma è giusto anche guardare avanti, come Alice ha fatto con coraggio e bravura. 

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Brian Eno – Music For Films

Brian Eno - Music For Films

Non so quanti di voi abbiano mai sentito parlare di questo curioso progetto messo in piedi dal buon Brian. Music For Films nasce come EP nel 1976 a seguito di un’altra idea di Eno: non lasciare il cibo sul piatto, che i bambini in Africa muoiono di fame (Drink your beer, there’s sober kids in India).

Ovvero, non sprecare quanto di buono scartato dalle registrazioni di Another Green World, riciccialo e facci i big money. Quindi, visto che le sessioni di AGW si sono rivelate estremamente costose – ma altrettanto proficue – perché non pescare dallo scatolone dei ricordi e costruirci un album?

Ma soprattutto, perché non monetizzare il tutto rendendosi più account degli account della E.G. records? È qui che Braianino prende il pallino in mano, va dal music manager David Enthoven (già ex manager di T.RexRoxy Music e successivamente dei Take That) con la proposta in mano “Senti maaaaa… ti ricordi di quelle recensioni che dipingevano Green World come un disco visionario? Ma tipo se ricicciassi gli scarti di Green World, ci facessimo un eppì in tiratura limitata [500 copie ndr] e dicessimo che sono ‘colonne sonore per film immaginari’ e lo inviassimo a delle case di produzione? Se tutto va bene famo i big money, altrimenti non ci abbiamo speso un kaiser. Bella Chì, pensece!”

David annuisce e il progetto va in porto, royalties a gogo, sia per Eno che per la E.G., piano piano quelle micro-composizioni sono state utilizzate in film, documentari, sigle televisive… in alcuni casi più e più volte (tanto da camparci di rendita e garantire una carta bianca perpetua – della lunghezza dei rotoloni Regina – a Eno).

L’ampio ventaglio di registrazioni lasciava già presagire adattamenti tra i più disparati, dalla fantascienza al documentario, dalla sigla di Stranger Things a Super Quark. Tanto da frenare un po’ il nostro amato dal pubblicare un’opera del genere al grande pubblico, conscio del fatto che la critica tenera non è, e difficilmente avrebbe digerito delle micro-composizioni.

Sarà nel 1978 che Music For Films vedrà la luce del giorno, con altri brani a completare l’idea e tante altre collaborazioni a garantire spessore comunicativo al disco. Annoveriamo oltre a Fripp, Cale e Collins anche l’ex Matching Mole Bill MacCormickDave Mattacks dei Fairport Convention e Fred Frith dagli Henry Cow.

Music For Films era la migliore compilation della storia. Era un’idea grandiosa, e il modo perfetto per far arrivare la musica di Eno nel mondo pubblicitario e così via. È stata tutta un’idea di Brian. Era davvero un venditore favoloso. Sono certo di aver detto soltanto: ‘Ottimo, mi pare magnifico.'”, ricorda David Enthoven.

Queste parole ci ricordano che il genio è fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione.

Brian Eno – Another Green World

Brian Eno - Another Green World

Capita a tutti di improvvisare, di arrivare ad un appuntamento completamente impreparati. Qualche volta (poche volte a dire la verità) fila tutto liscio, altre vieni sgamato in maniera miserabile.  

E dato che prevenire è meglio che curare, Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno ha l’idea giusta per affrontare il problema “mi circondo di musicisti coi controcazzi”. 

Non serve altro, ascoltatevi l’assolo di Robertino Fripp in St. Elmo’s Fire (nell’unico intervento che fa in questo disco), è l’immensità. Poi consideriamoci anche il contributo più consistente del buon Filippo Colline e Giovanni Cala (al secolo Phil Collins e John Cale con il quale ha anche collaborato nel concerto con Kevin Ayers e Nico [registrato in un disco dal fantasioso nome June 1, 1974 data dell’evento ndr]). 

Dopo tutte queste parentesi su parentesi, chiudiamo l’articolo qui? Che ne dite? 

Comunque, come avrete già notato da tempo, anche io ad inizio articolo improvviso quasi sempre: la “carta” bianca mi spaventa, ma appena vedo un paio di righe sommarsi in modo sconnesso – come i tetramini nel tetris – mi infervoro e mi appassiono. Direi quindi che ora posso smettere di scrivere cazzatelle e concentrarmi sul tema odierno. 

Torniamo su quanto scritto inizialmente, riguardo il concetto di improvvisazione. Brian Eno in principio paga per questa scelta, diversi sono i giorni passati a lillarsi in studio senza combinare nulla, non proprio la scelta più saggia pensando al costo d’affitto giornaliero pari a 420 sterline.  

Preso male dalla situazione – come un ragazzino delle medie in gita scolastica – tira fuori il mazzo delle strategie oblique, come fossero le carte UNO, e risolve tutto. Ora chiunque di voi conosca un po’ pillole ed il ciclo relativo alla Trilogia Berlinese, ascoltando Another Green World si imbatterà in una serie di idee musicali che Bowie mutuerà per Low, non sorprendetevi (l’attacco di Sky Saw vi apre un mondo in tal senso), fa tutto parte di un grande puzzle meraviglioso che disco dopo disco comincia a comporsi in questo spazio digitale. 

“Ogni giorno prendevo uno strumento diverso. Un giorno era un violoncello, un altro una marimba, un trombone… qualsiasi cosa. Non sapevo suonarne nessuno […]”, naturalmente tutto veniva registrato e qualche volta le idee che ne uscivano consentivano di cominciare lo sviluppo di nuove composizioni “non verticali” ovvero non canoniche o narrative, ma assimilabili alla kosmische musik e al minimalismo.  

In un processo di addizione perpetua (sovraincisioni ed idee confuse), vengono cavate fuori una trentina di idee. Successivamente, vengono ridotte a 14 ceppi musicali da sviluppare in canzoni, su di questi avviene un lavoro di sottrazione volto ad eliminare l’inutile (simile al concetto giapponese di muda).  

È qui che la creatività di Eno prende il sopravvento compensando i limiti tecnici; chi di voi ha il disco originale, avrà notato la presenza di strumenti mai sentiti nominare come la desert guitardigital guitar e snake guitar 

In un’intervista – rilasciata alla pover’anima di Lester Bangs – Eno spiega tutto “tutte queste parole sono le descrizioni di come dovrebbero essere suonati gli strumenti, o il suono al quale vorrei somigliassero; ad esempio la snake guitar volevo che mi facesse pensare alle movenze di un serpente […] energico e veloce. La digital guitar è una chitarra con un delay digitale ma ha generato molto feedback su sé stessa fornendo un suono che sembra fuoriuscito da un tubo di cartone. La Wimhurst guitar in St. Elmo’s Fire, deriva da un’idea che ho condiviso a Fripp ‘Conosci la macchina di Wimhurst?’, praticamente è un dispositivo che genera dei voltaggi estremamente elevati tra due poli, ed ha una forma erratica, perciò gli ho detto ‘Immagina una linea di chitarra che si muova velocissimamente e imprevedibilmente’, e Frippone ha suonato un solo che per me è veramente molto Wimhurst [anche il titolo della canzone, il fuoco di Sant’Elmo, fa riferimento ad un fenomeno che crea una sorta di plasma… la smetto di addentrarmi in cose che non so, approfondite voi, non scambiatemi per Alberto Angela o Neil Degrasse Tyson ndr]”. 

Quando la struttura musicale assume un senso, Eno comincia a mugolarvi sopra le linee vocali, per assonanza poi butta giù i testi delle canzoni, ed è così che si viene a creare Another Green World, titolo che prova a descrivere i panorami – tanto inquietanti quanto verdeggianti – immaginati da Eno ascoltando le canzoni che compongono il disco.  

Come notate sto cercando di togliermi dalle balle il vezzo di commentare brano per brano, vorrei perciò che sognaste ascoltando il disco, il dettaglio avrete modo di carpirlo all’ennesimo ascolto che sicuramente affronterete.  

Godete del lavoro di Eno Rhett Davis, senza preconcetti, senza paura.  

Nine Inch Nails – The Downward Spiral

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Ecco, un altro di quei dischi sui quali puoi scrivere un libro, premetto che sarà dura essere concisi ma ci proverò.

In primis, l’album è fortemente ispirato a Low, sia nella struttura che nella metodologia di lavoro, tant’è che Reznor chiama Belew e lo sottopone alla stessa richiesta che Bowie ha avanzato a lui per Lodger – e prima ancora a Fripp per Heroes – “suona liberamente e concentrati nel fare rumore”. Si perché le registrazioni avvengono tramite un Mac e i suoni sottoposti a brutali variazioni tramite software digitali. Un approccio che può ricordare le campionature dei Depeche Mode, ma rispetto a loro siamo dinanzi ad un album brutale, pesante e aggressivo nel suo sound.

Siamo all’alba di una nuova era e questa era appartiene a Trent Reznor.

Letteralmente Downward Spiral significa spirale verso il basso, ed è quella nella quale Reznor sprofonda in un viaggio di oltre un’ora, partendo dalla frenesia di Mr. Self Destruct e precipitando sino alla title-track – che termina col suicidio del protagonista – fino ad Hurt e al rombo che la conclude. “Quando ho cominciato a lavorare su Downward Spiral, ero veramente depresso e il tema dell’autodistruzione è rimasto fortemente nella mia testa. Volevo fare un disco che esplorasse la sensazione di isolamento, di autodistruzione, di tutto quanto riguardi la propria vita. Ho tirato giù le diverse modalità di autodistruzione. E’ il mio tentativo di spazzar via l’oscurità interiore. […] è il punto di vista di una persona che getterebbe via ogni aspetto della propria vita, dall’incapacità di relazionarsi con gli altri fino a se stessi, dalla religione alla paura delle malattie. Non è rabbia ma ansia.”

Quest’ultima osservazione ci aiuta nella comprensione di Closer, brano che ha da sempre suscitato le fantasie dei più con quel ritornello esplicito che lascia intendere alla lussuria sfrenata. Un’interpretazione del tutto mendace in quanto Closer si concentra sull’ossessione e sull’odio verso sé stessi. Il suono della grancassa – come a simulare il battito cardiaco – è un sample preso da Nightclubbing di Iggy Pop. Il videoclip è un “monumento” ambientato nei laboratori di quei medici dell’800, e ci illustra attraverso dei simboli i temi ed i lati che appartengono alla nostra cultura e società (religione, politica, test sugli animali, sessualità e terrore) è quindi possibile scorgere: delle teste di porco; dei diagrammi di vagine; una scimmia legata ad una croce; una donna pelata con un crocifisso in mano; Reznor prima vestito in latex e poi con una ball gag. Insomma un bordello stile American Horror Story.

Una visione nichilista e paurosa della vita, uno stato – quello della depressione – alimentato dalla scelta di trasferirsi al 10050 Cielo Drive durante le registrazioni dell’album, per i più distratti, casa Tate. “Durante le registrazioni vivevo nella casa nella quale venne uccisa Sharon Tate. Un giorno incontro sua sorella che mi lapida: ‘Stai sfruttando la morte di mia sorella vivendo nella sua casa?’ […] Per la prima volta pensai che aveva perso la sorella per mano di gente becera e ignorante. Parlandomi realizzai ‘Se fosse stata mia sorella?’ e pensai ‘fanculo Manson‘. Andai a casa e piansi tutta la notte facendomi vedere le cose da un’altra prospettiva.”

What I’ve Become?The Downward Spiral è l’intero processo di disintegrazione dell’uomo, un uomo che distruggendosi perde ogni debolezza divenendo in parte automa – trasformazione evidenziata dalle battute impetuose delle batterie e dei suoni campionati – e ferendo chi è vicino a lui; accorgendosi di quanto è successo prova il suicidio e quello che c’è dopo ci viene spiegato in Hurt. L’autodistruzione viene cantata come un abuso di droga, ma è una metafora che apre ad ogni tipo di abuso (tranne quello edilizio): di chi annulla sé stesso per seguire la religione ciecamente o chi lo fa per amore, di chi in pratica viene cambiato nella propria essenza. Un viaggio nella propria coscienza, che spinge alla consapevolezza dell’errore alla comprensione di dove si è sbagliato e alla redenzione virtuale.

David Bowie – Lodger

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Tony, Brian e io abbiamo creato un linguaggio di suoni potente, angosciato, a volte euforico. […] Nient’altro aveva il suono di quegli album e nient’altro gli si è avvicinato. Non avrebbe avuto alcuna importanza se non avessi fatto più nulla dopo quei 3 dischi, lì dentro c’è tutto me stesso. E’ il mio DNA.”

Lodger fatica ad arrivare, dopo il tour di Low/Heroes Bowie se ne va in giro per il mondo: Kenya, Giappone, Stati Uniti, è tutto un viaggiare. Il titolo del disco esprime proprio il concetto di “ospite”, in giro e senza fissa dimora, alla ricerca di contaminazioni. I tempi di Berlino sono quasi dimenticati – nonostante Lodger venga considerata la punta del trittico Berlinese. In comune con i precedenti Low e Heroes c’è la band ed il contributo di Visconti e Eno. Al posto di Fripp, alla chitarra solista c’è Adrian Belew, scippato a Frank Zappa dopo un concerto a Berlino dello Sheik Yerbouti Tour.

Piccola Parentesi

*Belew vede in zona mixer Bowie e Iggy Pop, Bowie gli propone di diventare il suo chitarrista per il tour di Heroes e Low (The Isolar II) che sarebbe cominciato due settimane dopo la fine dello Sheik Yerbouti Tour di Zappa. Vanno a cena insieme, destino vuole che Zappa va nello stesso ristorante… Dio ci salvi… Frank si avvicina al tavolo di Bowie e Belew sentendo puzza di tradimento. Il dialogo che ne segue è riportato di sotto:

DB: “Che gran bel chitarrista che hai Frank!”

FZ: “Fottiti Capitano Tom”

Al che Bowie cerca di attaccare bottone provando ad essere ancora cordiale e

FZ: “Fottiti Capitano Tom”

DB: “Non hai veramente nient’altro da dire?”

FZ: “Fottiti Capitano Tom”

Al che Bowie e Belew si alzano e se ne vanno in limo. Bowie col suo aplomb e umorismo britannico liquida la questione con un “Penso che sia andata piuttosto bene!”. E scippo fu.*

Lodger fatica ad arrivare, perché dopo aver vissuto gomito a gomito l’epopea di Heroes, Eno e Bowie si son persi di vista sviluppando visioni musicali non più tanto comuni. Questo sfocia in una acrimonia che non fa bene al disco, facendo nascere un ibrido dall’identità sporca, nel quale le personalità di Eno e Bowie cozzano in maniera prepotente. Eno a differenza delle prime due fatiche entra in maniera più determinante nelle logiche del disco, sia come musicista che come cultore di novità. Mentre le Strategie Oblique sono largamente accettate dopo le sessioni di Heroes, altre tecniche di pensiero laterale vengono difficilmente digerite dai musicisti – annoiando soprattutto Alomar. Creando quel senso di lezione scolastica dove Eno si comporta da professorino.

Lodger fatica ad arrivare, in quanto dopo aver terminato le sessioni delle basi musicali, Bowie fa passare 5 mesi prima di riprendere in mano il progetto e registrare il cantato. Con Visconti e Belew si va a New York a completare il disco, ma gli studi non sono mica come in Europa e l’attrezzatura non è tale da consentire un lavoro ottimale.

Lodger arriva, per quanto critica e principali artefici lo definiscono un incompiuto, per quanto le inimicizie interne abbiano inficiato sul risultato finale del disco, Lodger è un gran bel disco con un potenziale enorme espresso in parte.

Il tema del viaggio – evidenziato anche dalla cartolina dell’artwork – è prodromo di un certo tipo di world music e segue il concetto di motorik intrapreso da Neu!, Kraftwerk e in Station to Station. Così come il riciclo di canzoni passate dimostra una strepitosa attitudine allo studio della diversità.

Red Money è Sister Midnight – scritta durante lo Station to Station tour e donata a Iggy Pop – e che dire di Move On, una versione di All The Young Dudes al contrario ri-arrangiata, ma la figata si raggiunge con la Strategia Obliqua che suggerisce di suonare Fantastic Voyage con interpreti diversi agli strumenti, i musicisti così si scambiano le postazioni ed esce fuori una versione più veloce e decisamente più ritmata: Boys Keep Swinging.

Lodger è arrivato e ha chiuso un cerchio strepitoso che ancora oggi ci fa sognare.

Roxy Music – Roxy Music

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I Roxy Music sono quel gruppo con gente travestita e fintamente effemminata con il cantante che sembra l’incrocio tra Will Ferrell e Donald Trump. I Roxy Music sono quel gruppo che ha fatto il Glam (con la G maiuscola) con Bolan e Bowie. I Roxy Music sono quel gruppo con musicisti cazzuti e che faceva qualsiasi genere volesse fare perché in grado di farlo.

“Stavo ascoltando dopo anni The Bob (Medley), una mini-suite di 6 parti, e mi venne da ridere. Era puro prog. L’album suona veramente strano, un mischiaticcio di robe. I Roxy non sarebbero stati messi sotto contratto al giorno d’oggi.” Phil Manzanera ci da l’idea di come sia cambiato il mercato musicale in 40 anni.

L’intento condiviso non è quello di fare le comparse – da one-hit-band – bensì l’idea musicale precisa è di non essere underground ma garantire un’offerta musicale di livello. “Quando abbiamo cominciato non pensavamo di essere commerciali […] ci vedevamo come una band di studenti d’arte […] King Crimson ad un estremo, Bowie all’altro, noi in mezzo”. Ferry capisce che la miscela può diventare più interessante se degli elementi vengono pescati dalle altre arti, il brano di apertura Re-Make/Re-Model – per essere fedele al proprio titolo – include la linea di basso di Day Tripper e La Cavalcata delle Valchirie, un vero e proprio rifacimento e ri-modellamento di composizioni che hanno influenzato direttamente i Roxy Music.

La musica classica è presente anche in Ladytron dove la linea di oboe rende tributo al concerto per piano n°3 di Prokofiev mischiandosi ad una canzone dai tratti hippy e che fa ciao ciao con la manina ai Jefferson Airplane. Il resto del disco ha una forte connotazione cinematografica, per questo motivo i riferimenti alle pellicole sono diversi: Chance Meeting ispirata a Breve Incontro, The Bob a I Lunghi Giorni delle Aquile (titolo originale Battle Of Britain acronimo di Bob) e 2HB a Casablanca. Curioso che in un album del genere sia presente anche un accenno di country con tanto di steel guitar simulata – con lo slide per fare l’effetto Ben Keith – certo, poi si evolve in una cagiara Glam con l’oboe di MacKay che sale in cattedra come se ci trovassimo davanti il Lol Coxhill di Shooting At The Moon.

Il lato  definito Crimsoniano lo troviamo nei cambi di ritmo di 2HB – tipici del prog – e in The Bob (Medley), come ci ha ricordato Manzanera. La produzione di Sinfield – figura cardine della prima fase Crimson – è il trait-d’union tra l’ispirazione e la realtà, mentre in precedenza l’amicizia tra Ferry e Fripp ha permesso di ottenere il contratto discografico con la Island Records (già etichetta dei King Crimson).

Non è un caso che il disco termini con un brano che ammicca agli anni ’50 e al doo-woop – nel quale Ferry fa quel che gli riesce meglio sfoggiando le sue doti da crooner con voce impostata – l’ennesimo genere del disco, sapientemente omogeneizzato che mostra a tutti quanto i Roxy siano bravi a fare tutto e bene. Brian Eno imparerà la lezione, mostrandocela 5 anni dopo in Before And After Science, lavorando di stiletto ad un disco che avrà tanto dei Roxy Music.

King Crimson – In The Court Of The Crimson King

King Crimson - In The Court Of The Crimson King.jpg

1194, siamo nella piazza di Jesi, nella Marca Anconitana, e viene montato in fretta e furia un tendone in mezzo al quale viene condotta Costanza d’Altavilla. Ella partorì davanti al popolo l’Imperatore del Sacro Romano Impero, Federico II, uno dei sovrani più illuminati della storia: eclettico, estremamente colto e capace di parlare correntemente 6 lingue facendo da traino per l’avanzamento culturale – anticipando di fatto il Rinascimento – in un mondo oscuro come il medioevo.

Osannato da chi gli era vicino, denigrato da chi gli era nemico, gettò le basi della società laica e per questo si guadagnò il titolo di Re Cremisi (il colore del diavolo) perché in aperto contrasto con i dettami di una chiesa più temporale che spirituale – tanto da ottenere la scomunica da Onofrio III.

Federico II è il Simbolo nel senso originale e radicale del termine – colui che unifica – capace di coniugare in modo sapiente le origini gettando uno sguardo lungimirante al futuro riuscendo ad unire oriente ed occidente – condividendo i dettami di Averroè e dimostrandosi immune dai preconcetti diffusi dalle crociate – divenendo così il simbolo di una nuova era (un po’ come Griffith in Berserk, per chi lo seguisse), tra mitologia ed alchimia. Averroè credeva nella Kabbalah – come già evidenziato in Station to Station – si può riassumere nella ricerca di trovare, attraverso la differenza, il Simbolo.

La vicinanza di Federico II ad artisti, filosofi, astrologi, alchimisti, cantori e così via, ci viene raccontata dai King Crimson nella title-track. O meglio questa è l’idea e l’interpretazione che Jon Green ci da, di un parallelismo molto credibile che vi riporto in maniera più o meno fedele (ed è difficile sostenere che non calzi a pennello). Così come la visione di un futuro devastato e messo nero su bianco da Sinfield – con delle frasi sconnesse, metafore immaginifiche – in 21st Century Schizoid Man. La canzone fa espressi riferimenti alla guerra del Vietnam (in senso lato all’orrore della guerra) e alla piaga del consumismo eccessivo (che poi è sfociata in un capitalismo corrotto).

Devo essere sincero, mi sono avvicinato tardi a questo disco, spaventato da quel faccione in copertina che mi respingeva nella sua bruttezza grottesca. Impossibile non conoscere quell’immagine angosciante:

Barry Godber non era un pittore, bensì un programmatore. Quel dipinto fu l’unico che fece. Era amico di Peter Sinfield e morì nel 1970 di infarto all’età di 24 anni. Peter ci portò il dipinto negli studi e la band se ne innamorò. […] Il volto all’esterno è l’Uomo schizoide, quella all’interno è il Re Cremisi. Se si copre la faccia sorridente, gli occhi rivelano una tristezza incredibile [nemmeno avevo capito che stesse ridendo Ndr]. Riflette la musica.”

Capire chi è l’Uomo Schizoide, ci permette di arrivare a comprendere il Re Cremisi, due personalità all’interno di una stessa persona. La dicotomia, la diversità e l’unicità, tutti elementi già presentati in precedenza. Alla voce troviamo Greg Lake – l’urlo dell’Uomo Schizoide – che squarcia la canzone assieme alla chitarra di Fripp (che ci fa dono di uno dei soli più belli della storia) e il magistrale sax di Ian McDonald si fondono in un bailamme di suoni incazzati. Sicuramente è un brano che ha ispirato tante band, mescolando il jazz a riff duri, vorticando su un improvvisazione catastrofica capace di evocare gli orrori della guerra.

Fripp – con la sua faccia psicopatica -ci racconta un altro aneddoto riguardante la canzone di apertura del disco:

“Io non sono mai stato impressionato dall’heavy metal. Nessuno all’epoca ci aveva etichettato così. Per me ‘Schizoid’ è la prima canzone heavy metal, il suono del sassofono che passa dall’amplificatore Marshall… Come per Michael Giles, era un batterista straordinario. Nessun batterista avrebbe potuto raggiungerlo nel ’69”

Brian Eno – Before And After Science

Brian Eno - Before And After Science.jpg

Dopo due anni di lavoro – un’eternità per chi fa dischi negli anni ’70 – e oltre 100 brani registrati con le Strategie Oblique, Brian Eno si è avvalso della collaborazione di questi signori: Phil Manzanera, Robert Wyatt, Jaki Liebezeit, Fred Frith, Phil Collins, Moebius, Roedelius, Conny Plank, Andy Fraser, Dave Mattacks, Bill MacCormick. E non solo!

Ecco chi ha lavorato a Before And After Science, un disco come composto – secondo Eno – da musica oceanica, in netta contrapposizione alla definizione di musica del cielo per Another Green World (commercializzato nel 1975).

Prima e dopo la scienza è un po’ come dire prima e dopo Cristo, il disco infatti è perfettamente divisibile in due, la prima sezione frenetica la seconda riflessiva. Nella prima facciata si denotano le influenze passate, presenti e future, le canzoni funk e tirate tra il Bowie di Low (in No One Receiving) ed i Talking Heads che andrà a produrre negli anni successivi.

La collaborazione con Byrne e soci comincerà immediatamente dopo Before And After Science, nonostante questo, alle Teste Parlanti dedica King’s Lead Hat – anagramma di Talking Heads – che se non ci fosse il faccione di Eno in copertina sembrerebbe proprio una loro canzone (con la chitarra solista di Fripp che fa grandi cose) tant’è che l’avrebbero cantata anche insieme questa canzone se Byrne e combriccola non fossero stati impegnati. Con questo brano possiamo anche identificare dei tratti distintivi dell’impronta che Eno da un anno a questa parte andrà a dare su Q: Are We Not Men? A: We Are Devo!

Before And After Science, è una radio accesa che cambia stazione di volta in volta, e nella quale possiamo ascoltare anche la frequenza di Canterbury. In Backwater, spuntano i massimi esponenti del non-senseBarrett e Ayers – con scioglilingua continui e atmosfere scanzonate degne di Joy Of A Toy; soprattuto quando nella coda del brano la chitarra elettrica è ancor più marcata (un po’ come per Religious Experience).

La stessa sensazione la si ha con il brano successivo: Kurt’s Rejohinder ha una linea di basso prettamente zappiana e un ritmo tribale di sottofondo al quale si aggiunge la voce campionata – dagli anni ’30 – del poeta dada Kurt Schwitters. L’intuizione di utilizzare una voce ripescata da un programma radiofonico ci offre un’anteprima di My Life In The Bush Of Ghosts, nel quale Eno e Byrne useranno le registrazioni, campioneranno suoni e… insomma ne parlerò un’altra volta su.

Frith invece mette lo zampino in Energy Fools The Magician con la sua chitarra “pimpata”, parte da una base jazz fino a diventare una classica sigla da Law And Order se fosse stato girato negli anni ‘80… per capirci una cosa tra la sigla di Attenti a Quei Due e Stranger Things, con una linea di basso jazz.

Il secondo lato si asciuga delle sovrastrutture pronunciate – della prima parte – guadagnandone in intensità, con la sensazione di trovarsi nel lato B di Low senza però avere l’angoscia e la potenza di Warszawa. Here He Comes nella sua malinconia è spensierata, ci si incupisce con Julie With – dove la musica oceanica risalta grazie ad una base musicale quasi acquatica – preparatoria alla perla By This River, con annessa conclusione delicata di Spider And I.

“Spider and I

Sit watching the sky

On our world without sound

We knit a web

To catch one tiny fly

For our world without sound”

P.S. vi sembrava che non avrei approfondito By This River? E’ un brano praticamente scippato da Eno durante le registrazioni del disco Cluster & Eno – che vedeva anche la partecipazione di Czukay. Niente praticamente Roedelius suona la melodia al piano, Moebius lo accompagna al basso, Eno dice “Weee Giampi! Guardate là ci fregano l’attrezzatura!” e mentre si girano ciula By This River ai Cluster scrivendoci il suo testo e cantandoci sopra. Easy no?

David Bowie – Heroes

David Bowie - Heroes.jpgC’è la old wave. C’è la new wave. E poi c’è David Bowie.”

La RCA si lecca i baffi, Bowie ha in mano una perla e stavolta la vuole promuovere in lungo e in largo. Non solo, è previsto un tour unico per Low e Heroes… roba da sfregarsi le mani.

L’esilio losangelino è alle spalle e piano piano Bowie riesce a ristabilire la propria mente grazie alla nuova formula: meno droghe e più sbornie in compagnia di Iggy. L’obiettivo dichiarato è quello di esporsi per difendere le scelte che hanno condotto alla deriva musicale di Low e Heroes. Già, perché a tanti è piaciuto Low, ma chi non l’ha compreso ha cercato di affossarlo alla grande e non è passato inosservato.

Inoltre David prende la decisione di non accompagnare Iggy per il tour di Lust For Life; David vuole concentrarsi sul suo progetto, ha già chiamato Brian Eno – in stallo creativo per Before And After Science (completato dopo le sessioni di Heroes) – per continuare quanto cominciato con Low.

La squadra è sempre la solita: il trio Murray/Davis/Alomar, Tony Visconti come produttore, la presenza di Eno per tutto l’album e Robert Fripp a consolidare il team (sia Fripp che Eno erano già attesi da Bowie per le sessioni di The Idiot ma i due diedero buca per impegni solisti). Il rapporto consolidato tra i musicisti contribuisce ad una rilassatezza mentale di Bowie, in continuità con Low e The Idiot – nel quale si instaura un clima cameratesco con i membri della band.

Stavolta lo studio scelto è l’Hansa Tonstudio 2, vicinissimo al muro di Berlino. Come per Station to Station, The Idiot e Low, si comincia a registrare in modo del tutto casuale, tant’è che Brian Eno – ancora incontaminato dell’approccio di Bowie – rimane totalmente sconvolto da questo metodo… proprio lui, finito in una bonaccia creativa per Before And After Science non poteva credere che le brevi istruzioni di Bowie potessero sfociare in un “buona la prima”.

Eno ricorda: “Pensavo: ‘Merda non può essere così facile’. Facemmo anche delle seconde take, ma mai si rivelarono buone quanto le prime.”

Per questo motivo il mitico Visconti spende le prime settimane di lavoro per mettere a punto tutte le jam session registrate, a fare un taglia e cuci sapiente sui nastri (che venivano lasciati accesi dal produttore tutto il tempo dall’entrata all’uscita dallo studio, cosciente del fatto che ogni momento musicale potesse rivelarsi prezioso).

Il disorientato Eno non si perde d’animo, raccoglie le forze e suggerisce – ai musicisti presenti nelle session – dei metodi inusitati : in principio non riceve una piena collaborazione in cambio; successivamente riesce a far breccia in qualche modo nelle convinzioni di Alomar e soci. Certo, alcune di questi suggerimenti si rivelano arditi e perciò non sbandierati ai quattro venti, come le Strategie Oblique (in soldoni un mazzo di tarocchi con delle indicazioni volte a superare un blocco creativo) nascoste ai musicisti ed utilizzate con Bowie quando si trovavano nello studio da soli.

Molte delle tracce di Heroes devono la loro forma finale alle Strategie Oblique, su tutte Sense of Doubt, infatti Bowie ed Eno pescarono due carte diametralmente opposte e come per una partita di Risiko se le tennero nascoste fino alla fine. Il titolo della canzone deriva proprio dall’incertezza di base segnata dalle indicazioni interpretate dai due.

E’ divertente poi pensare al cameo di Robert Fripp in studio. Atterrato a Berlino – da New York – di sera, entra in studio e riceve le solite indicazioni da Bowie “suona come se non dovesse suonare per il tuo disco”… e via di Frippertronics, si tira fuori la chitarra e si comincia a familiarizzare con le registrazioni, ma non troppo, che poi si cambia subito. La mattina il lavoro è terminato e Fripp se ne torna a New York. Figo no?

Come per i precedenti album appartenenti alla sfera della Trilogia Berlinese, servirebbe un libro per poter raccontare tutti gli aneddoti con calma, ma l’articolo non si può dilungare più di tanto e quindi concluderò scrivendo della title-track.

Heroes è maestosa e deve questo alla ricerca da parte di Eno di un suono tra Can e Velvet Underground, un lavoro certosino avvenuto dopo la stesura delle armonie di Bowie e della band.

Come avvenuto per Low in alcuni brani, Heroes rischiava di rimanere strumentale. Nonostante in altre situazioni la tecnica Iggy Pop funzionasse sempre meglio, in questo caso Bowie si prende il tempo necessario, registra qualche parte, torna indietro fino a quando non viene folgorato dall’epifania definitiva. In maniera distratta – affacciandosi dagli studi di registrazione – vede due amanti abbracciarsi fugacemente sotto il muro di Berlino… quei due amanti sono il Visconti fedifrago (sposato all’epoca) e Antonia Maass (ai cori di Beauty And The Beast). Tale informazione è rimasta secretata sino al 25esimo anniversario del disco quando Baui ce la racconta smascherando il vile Visconti.

Heroes viene percepita come un inno alla speranza a causa del potente crescendo della canzone, ma Bowie vuole celebrare la disperazione di un amore fugace, la malinconia di dover vivere in clandestinità qualcosa che può bruciare in un attimo, come dice lui stesso: “l’unico atto eroico è il semplicissimo piacere di essere vivi.”

Della title-track vengono registrate anche una versione francese ed una tedesca, con videoclip annesso volto a pubblicizzare il ritorno alla vita – e all’ottimismo – di David Bowie dopo un periodo più che vergognoso dal punto di vista personale.

Ultimissimo accenno al disco che mi vale anche come link ad un altro album, V-2 Schneider è il brano di apertura del lato B, un ponte diretto tra i primi 5 brani di una potenza dirompente ed un lato più rilassato. Il titolo è un tributo a Florian Schneider dei Kraftwerk – di cui Bowie è un grande estimatore e non ha mai mancato di farcelo intendere – al termine di un circolo virtuoso di omaggi che comprende Trans-Europe Express (dall’omonimo album) nella quale viene citata Station to Station:”di stazione in stazione tornando a Düsseldorf per incontrare Iggy Pop e David Bowie“.

Devo – Q: Are We Not Men? A: We Are Devo! 

Devo - QA


I Devo sono fonte di ispirazione e stella polare di una miriade di band, purtroppo però, il loro successo è vincolato ad una acclamazione totale da parte della critica musicale (in via del tutto eccezionale) ma non dal pubblico. Perché? Forse sono troppo complessi e cervellotici, ma una band così è veramente singolare e d’impatto

Nel 1977 David Bowie ed il suo amicone Iggy Pop – durante il periodo di The Idiot e della Trilogia Berlinese – hanno ricevuto un nastro con delle demo da parte dei Devo. All’ascolto hanno presenziato anche Brian Eno e Robert Fripp (noto principalmente per esser stato fondatore dei King Crimson) che hanno espresso forte interesse nel produrre il primo lavoro della band.

Lo stesso Bowie al concerto di debutto dei Devo ha affermato: “Questa è la band del futuro, li produrrò a Tokio in inverno.”

Alla fine, Q: Are We Not Men? A: We Are Devo! è stato registrato in Germania e se n’è occupato Brian Eno, considerato che Bowie è stato incastrato nelle riprese di Just a Gigolo (una mano a Eno l’ha comunque data durante i weekend).

Le sessioni di registrazione risultano frustanti per il gruppo ed il produttore, Eno è deluso dalla scarsa tendenza dei Devo alla sperimentazione e al cambiamento dei demo registrati. Come gli stessi Devo hanno ammesso, le proposte di Eno sono state veramente interessanti, l’introduzione dei sintetizzatori e di sonorità sperimentali sicuramente avrebbero completato maggiormente l’album, ma queste modifiche sono state applicate solamente sue tre-quattro brani.

L’album vede la luce nel 1978 e rappresenta un gran bel biglietto da visita.

Sicuramente spicca la cover del brano dei Rolling Stones (I Can’t Get No) Satisfaction, che ha portato i Devo sotto le luci della ribalta ed al quale è legato un curioso aneddoto. I Devo sono portavoce di un cosiddetto manifesto sulla teoria della de-evoluzione, questo pensiero viene esplicitato attraverso Satisfaction, sostenendo che il mondo procede al contrario indi per cui la Satisfaction originale è attribuibile ai Devo, mentre i Rolling Stones sono i veri interpreti della cover.

Questa versione robotica – e denaturata – è stata molto apprezzata da Mick Jagger.

Da Joko Homo deriva invece il titolo del disco con la domanda “Are we not men?/ We are Devo” presente nel ritornello e considerata come l’inno dei Devo. Mentre Joko Homo è il titolo di un trattato contro la teoria dell’evoluzione del 1924, difatti nella canzone sono presenti elementi di satira sulla de-evoluzione.

Mongoloid invece è il primo singolo rilasciato dai Devo, anche in questo caso è presente il concetto di devoluzione, espresso in maniera sempre più esplicita. Con il passare del tempo l’uomo vive un costante degrado che viene dimostrato dal deterioramento psichico che l’americano medio si trova ad affrontare costeggiato da una società sempre più incapace (troviamo un parallelismo molto interessante con lo Zappa di Over-Nite Sensation ed Apostrophe).

L’involuzione dell’uomo perciò è direttamente proporzionale all’evoluzione tecnologica, l’incapacità di provare delle emozioni lo fa diventare sempre più una macchina. Le voci sincopate, quasi piatte ed all’unisono di Mothersbaugh e Casale fanno apparire il brano come se fosse cantato da un automa. Il soggetto della canzone è una persona affetta dalla sindrome di down che ha una vita “normale”; la frase “happier than you and me” (più felice di me e te) descrive il protagonista come più felice di tutte le persone che si considerano normali, oramai rese aride e prive di mordente dalla società che li circonda. Naturalmente la canzone è stata incompresa e criticata da gran parte dell’opinione pubblica “benpensante”,  che non ha avuto la capacità di interpretare il testo.

Nota curiosa: la cover dell’album rappresenta il golfista Juan Rodriguez.  Era una immagine presente in una tracolla da golf, illustrata successivamente da Joe Heiner per evitare di incorrere in uso improprio dell’immagine ed eventuali beghe legali tra la Warner e il golfista.