Alice – Capo Nord

Continua il viaggio nel sentimento estivo, e uso come gancio Il Vento Caldo dell’Estate, brano in apertura di un disco monumentale.  

Gli artefici di questo capolavoro distillato in nove brani sono vecchie conoscenze dello spazio digitale di Pillole, che hanno risuonato più e più volte sulle casse dei vostri stereo anche prima che venissi io a ricordarvi della loro esistenza. Sto parlando proprio di Franco BattiatoGiusto PioAlberto Radius e Lino Capra Vaccina. Una squadra collaborativa che, di disco in disco, affina con gran gusto la sperimentazione in chiave pop.  

A questo gotha musicale si aggiunge Carla Bissi, alla prima collaborazione musicale con Franco Battiato. Si viene a creare, come avvenuto con Giuni Russo, una simbiosi nella quale la cantante non è semplice esecutrice dei divertissement musicali di Battiato Pio, quanto un valore aggiunto che consente di rendere riconoscibile – e differente – una produzione musicale che ha un humus condiviso con quella del proprio autore: da L’Era del Cinghiale Bianco a L’Arca di Noé

Sia Alice che Giuni Russo possono contare su una voce da sirena, seppure con le debite differenze dettate dall’estensione vocale – quasi anomala quella di Giuni Russo – e da un approccio canoro decisamente riconoscibile. 

Così, tornando al brano di apertura, Battiato e Pio arrangiano una Baba O’Riley pop e tutta italiana, con un tappeto sonoro che profuma tanto di minimalismo nel quale Alice suona in prima persona il sintetizzatore: Il Vento Caldo dell’Estate diventa così un inaspettato tributo di spessore ai maestri del genere come Riley Reich.  

Un generoso modo di introdurre dinamiche di musica cerebrale in un contesto squisitamente pop, prima che Radius imbastisca una ariosa fuga sulla chitarra che dà il là ad un dirompente infinito sonoro che scardina la claustrofobica prigione sulla quale è strutturato il brano. 

Chitarra che si ricollega a Bazar e al profumo medio-orientale che abbiamo imparato ad apprezzare con il Battiato di L’Era del Cinghiale Bianco, sul quale si adagia un testo naif che ammicca a Edward Lear; ma quello che sorprende l’ascoltatore più attento è un brano come Sarà, che non vede alcun contributo degli autori esterni nel testo e sembra ammiccare allo stile di scrittura di Ivan Graziani.  

Ecco, Alice ha contribuito a tutti i testi di Capo Nord, potendo contare anche su l’esperienza maturata nei due dischi precedenti con i quali si è fatta discretamente le ossa (lavorando a stretto contatto con lo zoccolo duro dei Pooh D’OrazioBattaglia) e trovandosi così pronta alla chiamata di Battiato.  

Il sentimento estivo torna con prepotenza in Lenzuoli Bianchi, vero brano scacciapensieri, che ricorda tantissimo quella St. Elmo’s Fire di Brian Eno per l’incedere con ritmo vorticoso e la conclusione breve – ma intensa – di Radius alla chitarra (che sembra voler omaggiare Robert Fripp). Mi preme divincolarmi da questa descrizione pezzo per pezzo, anche perché ci tengo a dire che Capo Nord è un meraviglioso disco nella sua interezza, un lp anni ‘80 che suona anni ‘80 e da ascoltare senza troppi giri di parole.  

Non è attuale. Semplicemente perché l’attualità temporanea è la retromania, e i gruppi si impegnano nel clonare i suoni anni ‘80, non vuol dire che lo facciano bene o che sia giusto.  

Capo Nord ha senso perché è figlio e manifesto degli anni ‘80

Ergo, questo disco suona dannatamente bene perché è remoto, opulento, concitato, che si anima per poi spegnersi, per poi mettersi nuovamente il pepe al culo con il finale di Guerriglia Urbana (altro brano che – così com’è registrato e composto – pare essere stato scartato dalla scaletta de L’Era del Cinghiale Bianco). Insomma, un monito per ricordarci che di musica bella ne abbiamo nei nostri archivi, ma è giusto anche guardare avanti, come Alice ha fatto con coraggio e bravura. 

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Sufjan Stevens – Illinois

Sufjan Stevens - Illinoise

Oggi provo a raccontarvi un disco estremamente complesso, ambizioso e pieno di spunti intriganti. Sufjan Stevens è una delle figure più valide della scena musicale contemporanea, non si limita al compitino, osa, con tutto quello che ne consegue: grandi intuizioni e qualche passaggio a vuoto.

Illinois nelle sue 22 tracce si impone al pubblico, facendosi notare, raccogliendo critiche positive e contribuendo ad alimentare la leggenda secondo la quale – dopo Michigan del 2003Stevens avrebbe deciso di comporre un disco per ogni stato americano. La strada è lunga…

“È solamente uno scherzo” ci tiene a precisare Stevens, quasi rincuorando chi lo avesse preso sul serio, l’idea di fondo non sarebbe stata nemmeno malvagia, cantare di fatti o di persone che hanno caratterizzato la storia di un particolare stato… come fa in Illinois e nelle sue canzoni dal titolo improbabile ed infinito (uno a caso The Black Hawk War, or, How to Demolish an Entire Civilization and Still Feel Good About Yourself in the Morning, or, We Apologize for the Inconvenience but You’re Going to Have to Leave Now, or, ‘I Have Fought the Big Knives and Will Continue to Fight Them Until They Are Off Our Lands!). Per praticità eviterò di scrivere altri titoli del genere, altrimenti finirei di fatto l’articolo semplicemente citando i brani😀

Illinois parte spedito, con fanfare meravigliose e ragtime anni ’30, per poi rallentare ad una più rassicurante velocità di crociera, apparentemente senza sussulti per un orecchio distratto. Oibò! Non cadete in codesto tranello, poiché una volta assimilato il disco e accettata la sua struttura, prestando attenzione ci si imbatterà in tante piccole gemme delicatissime, riferimenti su riferimenti all’imprinting musicale di Stevens, ogni canzone ha degli arrangiamenti spettacolari – estremamente complessi – si ha l’impressione di ascoltare delle micro colonne sonore [a tal proposito, il prossimo ciclo riguarderà in parte questo discorso ndr]

Quante volte ascoltando Illinois ho avuto la sensazione di vivere una scena di un film, di compiere un viaggio all’interno dello stato americano; ha delle atmosfere da sogno nelle quali è facile perdersi. La ricerca, lo studio di libri, documenti e storie sull’Illinois, la necessità di trasmettere la propria visione genuina di uno stato e dei suoi elementi distinguibili, conducono all’immedesimazione nel clima di festa dell’expo del 1893 [per i 400 anni dalla scoperta dell’America da parte di Colombo ndr] descritta in Come On! Feel the Illinoise! [titolo che prende spunto dalla canzone di Slade del 1973 Cum On Feel The Noize, giocando sulle parole Illinoise e Feel The Noize. Sufjan si è giocato la carta dell’assonanza per intitolare l’album e creare scompiglio in tutti gli ascoltatori che non sanno se il titolo dell’album è Illinois o Illinoise ndr] e che ha il celebre refrain di Close To Me dei The Cure a tributare uno dei radi slanci di gioia di Smith.

“Uso la formula dello short story: attenzione ai dettagli, linguaggio sensoriale, scenari, sviluppo dei personaggi. Talvolta penso che ogni canzone abbia un punto di conflitto, una crisi, un climax e un punto nel quale si rivela tutto quanto. Questa è sicuramente una struttura letteraria. Ma forse è perché appartengo alla vecchia scuola”, non ci sono dubbi che la metodologia di scrittura di Sufjan sia incline alla narrazione, questo spiega la scelta di titoli estremamente narrativi e le canzoni talvolta dilatate.

“Per quanto grande possa apparire questo disco, posso assicurarvi che è stato accuratamente tagliato. Era essenziale avere un particolare punto di vista che conciliasse ogni elemento all’interno di questa visione. Perciò molto è stato scartato. Ho ignorato tutti i temi popolari, ho cercato di cantare di Springfield, Pittsfield, il lago Carlyle. Cose che non c’entravano col resto dell’album e sono state scartate”. È forse questa la magia di trovare nell’artwork Al Capone con Superman che si stagliano di fronte lo skyline di Chicago, un’illustrazione che per beghe legali è stata ritoccata più volte, sino a rimuovere l’uomo dal mutandone sopra al pantalone e sostituirlo con dei palloncini rossi e blu. Quello stesso Superman citato in The Man Of Metropolis Steals Our Heart, nella quale Metropolis (città dell’Illinois autoproclamatasi città di Superman) è il teatro delle avventure di Nembo Kid, il Gesù del secolo scorso, il salvatore dell’umanità in una chiave di lettura molto cattolica ed estremamente cara alla DC ai fini narrativi.

Capite da voi che questo disco non poteva mancare in questo gruppo, anche se forse le sensazioni di gioia che trasmette in alcuni brani va un po’ in controtendenza con altri lavori trattati, decisamente più abbacchiati e tetri. In comune c’è l’approccio lo-fi, un registratore a 8 tracce che Sufjan è solito portare in studio con sé… nessun ingegnere del suono, nessun parametro pre-impostato, solo lui, gli strumenti ed il registratore ad 8 tracce.

Il fai da te come missione, forse per questo motivo Illinois mi sembra ancora di più accattivante, perché dietro ad arrangiamenti complessi, quasi rari visti i tempi che corrono, Sufjan si mette la mano sulla coscienza e compone un potpourri dal profumo inebriante: “Ho studiato l’oboe alle superiori […]. La maggiorparte di ciò che ho studiato è musica barocca, classica, ed il repertorio per oboe è interessante. Ho suonato molto con quintetti e fiati, ho ascoltato musica barocca per molto tempo. Recentemente mi sono imbattuto in Stravinskij, Rachmaninov e Grieg. Credo che parte dei miei arrangiamenti provengano da lì e da influenze minimali quali Terry Riley, Steve Reich e Phillip Glass“.