PJ Harvey – The Hope Six Demolition Project

Pj Harvey - The Hope Six Demolition Project

Questo disco, dal titolo curioso, offre un seguito concettuale e musicale a Let England Shake, prosegue la denuncia di Polly che si mostra sempre più focalizzata alle dinamiche socio-culturali, diventando probabilmente la principale interprete della protesta in musica del nuovo millennio.

La vena polemica di PJ matura col passare degli anni, non che prima fosse assente, ma forse affrontare determinate tematiche ad inizio carriera – senza la comprensione totale delle stesse – può portare ad un lavoro scialbo che poco avrebbe aggiunto al panorama musicale.

Interessante un passaggio di un’intervista rilasciata ad NME – nel 1992, agli arbori della carriera – nel quale le viene fatta notare una mancanza di risonanza politica nel primo disco: “Non mi sento a posto con me stessa perché so di aver trascurato questo aspetto […], non sono abbastanza preoccupata da queste cose. Potrebbe essere molto pericoloso se non facessi qualcosa riguardo presto, il mio ego potrebbe svilupparsi eccessivamente […]”. Questa intervista a distanza di 19 anni da Let England Shake e di 24 da The Hope Six Demolition Project, spiega il periodo di incubazione dei due dischi, con annessa la volontà di sviluppare non solo una coscienza ben precisa in tal senso, ma un linguaggio e una narrazione consona per trattare determinati argomenti.

Non a caso da White Chalk a Let England Shake è passato un lustro, stesso tempo maturato tra quest’ultimo e il Demolition Project, lasso necessario per vivere in prima persona i luoghi delle sperequazioni sociali ed etniche, o le aree delle guerre dell’ultimo ventennio toccando con mano la devastazione e i suoi frutti. Il viaggio con il fotoreporter delle zone calde Seamus Murphy, ha consentito a PJ di portare a compimento un libro di poesie sul tema – The Hollow Of The Land – e un disco pieno di domande e avaro di risposte, si ripresenta quindi nel ruolo di narratrice di ciò che – in questo caso – osserva con i propri occhi.

Il titolo dell’album fa riferimento al progetto Hope VI del governo degli Stati Uniti ideato proprio nel 1992 – e reso operativo nel 1998 – volto alla riqualifica degli spazi urbani connotati da alta criminalità, povertà e alti tassi di analfabetismo. Purtroppo al rifacimento edile e alla rivalutazione della zona, non è seguito un miglioramento della vita media, rendendo lo standard inaccessibile ai nativi, questo viene cantato nella canzone che apre il disco The Community of Hope, scritta dopo un viaggio a Washington D.C. 

La parte finale della canzone, caratterizzata dal refrain “They’re gonna wanna put a Wallmart here” è una provocazione nei confronti della multinazionale americana che nel piano di riqualifica aveva previsto l’apertura di nuovi centri commerciali nelle aree riqualificate. In riferimento a The Wheel – primo singolo estratto dal disco e che narra l’eccidio avvenuto in Kosovo – la cosa che balza all’orecchio è lo stridio tra testo e melodia “quando sto scrivendo una canzone, visualizzo tutta la scena. Posso vederne i colori, posso capire l’ora del giorno, l’umore, posso vedere la luce cambiare, le ombre muoversi, tutto questo in un’immagine. Raccogliere informazioni da fonti secondarie ti fa sentire troppo lontano da ciò che stai cercando di scrivere. Voglio annusare l’aria, sentire il terreno e incontrare la gente dei paesi dei quali sono affascinata”.

Ci tengo a menzionare un grande brano che – come abitudine di PJ – nasconde riferimenti di artisti che l’hanno formata musicalmente, The Ministry Of Social Affair suona aggressiva, con la voce che cresce accompagnata dai due sax a contrasto (vera forza della canzone), sulla base di un brano di Jerry McCain che apre la canzone “That’s What They Want”, ripreso, reso decisamente scuro e ripetuto ad libitum nel finale.

I tempi cambiano, la controcultura e le sue canzoni di protesta partorite ogni settimana – e pronte a dominare le frequenze – sono un ricordo sbiadito; il mood è diverso e sembra quasi si sia persa un’attitudine alla protesta, deteriorata – tra le altre cose – dal bombardamento mediatico e da una progressiva perdita dei valori umani nella società odierna. Ecco perché Let England Shake prima e The Hope Six Demolition Project giocano un ruolo fondamentale al giorno d’oggi, quasi a voler risvegliare le coscienze sopite delle ultime generazioni.

Per registrare questo disco, Polligigia è riuscita a buttar su una band da sogno, composta da inossidabili compagni come John Parish, Mick HarveyFlood a signori musicisti del calibro di: Jean Marc-Butty, Terry Edwards, Mike Smith, James Johnston, Alain Johannes, Kenrick Rowe, ed i nostri Alessandro Stefana e Enrico Gabrielli.

Proprio quest’ultimo ha speso parole al miele per la nostra: “PJ Harvey è una delle poche artiste che preferisce strade di sfida personale senza cedere mai a nessuna lusinga. Artisti del suo livello si trovano davanti a un bivio: progettare la loro carriera come un cerchio che torna su se stesso, o come una freccia che corre avanti. Lei ha fatto la seconda scelta.”

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PJ Harvey – Let England Shake

Pj Harvey - Let England Shake

“Mi sono veramente goduta questa differente, enorme, ampiezza di sonorità che l’autoharp da. È un suono delicato, ma al tempo stesso è anche come avere un’orchestra sulla punta delle dita. Ho cominciato a scrivere molto sull’autoharp, poi lentamente col passare del tempo, la mia scrittura ha cominciato a muoversi verso la sperimentazione con differenti chitarre, usando diverse applicazioni sonore, alcune delle quali non ho mai avuto a che fare prima”.

Nasce qui la nuova vita di PJ, l’autoharp è un po’ il simbolo della sua nuova parentesi musicale… in molti degli articoli e delle interviste del periodo che ho raccolto, Let England Shake viene considerato come l’inizio di un nuovo corso; a distanza di anni – e con la possibilità di vedere la piega che la carriera artistica di PJ ha preso – non me la sento di dissentire.

“Non sento il dovere di spiegare ogni intenzione dietro ad ogni cosa”

Si gira pagina quindi e si scopre una Polly Jean – accompagnata dai prodi John Parish e Mick Harvey – consapevole di quanto fatto nei vent’anni precedenti, è conscia di essere un’icona e una delle personalità più brillanti della scena musicale, il suo metodo di scrittura vira verso lidi differenti, vengono introdotti il sax e la tromba – oltre all’autoharp – e l’uso della voce cambia “non potevo cantare con una voce matura ed estremamente ricca senza apparire completamente fuori luogo. Le parole hanno già un loro peso specifico e non avevo intenzione di aggiungere un ulteriore fardello su di loro, perciò ho lentamente trovato la voce e ci ho cominciato a lavorare, sviluppando così il ruolo del narratore… è stato un processo a livelli”.

La volontà di Polly è chiara: non dire alla gente ciò che deve sentire o pensare, la necessità è proprio quella di affermarsi come narratrice, una cronista che vuol fare uno spaccato del mondo, sulla guerra contemporanea e sulle radici dei conflitti. Per riuscire a fare questo, Polligegia ha raccolto testimonianze da parte di chi ha vissuto in prima persona tanti conflitti (Iraq e Afghanistan) nei differenti periodi storici (documentandosi sulla campagna di Gallipoli, non quella in Puglia).

The Words That Maketh Murder fa proprio riferimento alla guerra afghana, è una critica alla diplomazia e fa riferimenti ai conflitti mondiali del secolo scorso. Una delle peculiarità di Polli è la capacità di inserire spessissimo alcuni easter egg volti a tributare artisti con i quali è cresciuta, avviene anche in questo brano dove il refrain finale “what if I take my problem to the United Nations?” è basato su Summertime Blues di Eddie Cochran. Un modo di rendere più paradossale il brano e il significato, contrapponendo la spensieratezza di Summertime Blues alla semplicità con la quale si spediscono in guerra le persone.

Questa canzone in particolare ha impressionato Patti Smith che – come in un passaggio di consegne – ha benedetto la canzone di “Polly Harvey“: “mi rende felice di esistere. Ovunque qualcuno faccia qualcosa di valore, inclusa me stessa, mi rende felice di essere viva. Per questo ascolto questa canzone tutte le mattine, completamente allegra.”

A conferire un’ulteriore aura di sacralità al disco, contribuisce senz’ombra di dubbio la scelta di registrare il disco in una chiesa del 18esimo secolo, davanti la quale Polli passava spesso durante la sua permanenza a Yeovil. La sensazione è che – più che in passato – ogni singolo brano arrivi a toccare le corde emotive dell’ascoltatore, una dichiarazione d’amore e odio verso la propria madre patria, che potrebbe essere traslata senza problemi in altri macro-ambienti.

Nonostante ella non abbia mai scritto sino a questo punto di queste tematiche, non significa che fosse scevra, anzi la propria coscienza politico sociale l’ha condotta alla creazione di Let England Shake, che di fatto è stato un lavoro propedeutico per The Hope Six Demolition Project con l’annessa denuncia sociale che si porta appresso “sono dovuta andare a guardare dietro a tante canzoni che ascoltavo da piccola, come Southern Man o Ohio di Neil Young. Così come tante canzoni di Dylan, specialmente dei primi anni ‘60, o Dachau Blues di Beefheart. Ricordo che ascoltandole da ragazzina, fantasticavo ‘di cosa canteranno?'”

Forse per questo motivo Let England Shake è l’album più “verboso” di PJ, nei cinque anni che sono passati da White Chalk, la penna ha versato fiumi di inchiostro per due anni consecutivi – tra revisioni ed elaborazioni, tra prose e poesie – andando a comporre successivamente la musica per i 12 brani, che spostano il baricentro creativo di Polli annoverandola di fatto nella sfera cantautorale.