Nu Guinea (Nu Genea) – Nuova Napoli

Da Napoli Centrale a una Nuova Napoli nel pieno rispetto – forse fin troppo ossequioso – di quella vecchia, senza che fascino e misticismo siano intaccati. Per quanto adori questo progetto, per potenziale e visione armonica, tutto si può dire fuorché suoni come qualcosa di “nuovo” o innovativo, una “retromania” però ben costruita e di spessore che ha solo “il vizietto” [sono un inguaribile scocciatore, lo so ndr] di guardare più indietro che avanti.  

Così nasce il progetto degli ei furono Nu Guinea, passati proprio da poche settimane alla nuova ragione sociale Nu Genea per motivi legati al politically correct che non sto qui a riportare [a proposito del politicamente corretto Emanuele Trevi ha riservato parole di brace, che condivido, nei confronti di una tendenza che rischia di sterilizzare ogni campo culturale ndr]. Quindi questa breve pillola è qui a reindirizzarvi sulla nuova identità dei Nu Guinea, in modo che non possiate lasciarvi sfuggire – da ora in poi – le nuove produzioni proposte dal duo Massimo Di Lena e Lucio Aquilina

Il progetto muove i suoi primi passi a Berlino, città agli antipodi di quella Napoli origine delle loro giovinezze e nella quale poi il duo è tornato al fine di registrare il disco. Nella capitale tedesca, Di Lena e Aquilina, incontrano la leggenda dell’afrobeat Tony Allen, col quale registrano qualche demo; è proprio in quel periodo prende forma l’idea musicale dei Nu Guinea. Di Lena e Aquilina capiscono che il progetto poggia su solide fondamenta e si può cominciare a costruire qualcosa di intrigante.  

La voce dialettale di Fabiana Martone svetta in tutto il disco, riconoscibile ed espressiva, ben sposandosi ai sintetizzatori e al sassofono di Pietro Santangelo. Avvalersi in studio di musicisti, amici e professionisti napoletani, ha consentito alla coppia Di Lena e Aquilina di rendere omogenee e fluide le bozze schizzate a Berlino. Un vero soffio di vita per un progetto che altrimenti avrebbe rischiato di apparire sintetico: valido sulla carta ma senz’anima. In tal senso, brani come ‘A Voce ‘E Napule, in cui il putipù segna il ritmo e si mischia al sassofono e ai sintetizzatori, o Parev’ Ajere, fotografia d’infanzia dei due Nu Genea a chiusura del disco, è pura poesia. 

E se Ddoje Facce si propone di descrivere le vie del Rione Sanità (O’ Ricuttaro ‘Nnammurato degli Squallor vi ricorda qualcosa?), con il ritmo alla Shaft scandito da Je Vulesse viene musicata la poesia di Eduardo De Filippo Io Vulesse Trovà Pace. Un continuo rimestare il passato, come a voler sottolineare oltre ogni evidenza quanta Napoli scorra nelle vene di Aquilina e Di Lena, anche nella scelta del nome per il disco che rispecchia in pieno il sound trasmesso dal disco, con quel Nuova Napoli (a cui segue la compilation Napoli Segreta) tributo a Massimo Troisi e Lello Arena proveniente dal film del 1982 No Grazie, Il Caffè Mi Rende Nervoso.

Nuova Napoli suona nostalgico di un’epoca non vissuta, oro che luccica e che non smette di abbagliare chi non ha toccato con mano le storture di un passato remoto; questo bagliore filtra nelle sonorità funk, soul, jazz, pop e musica napoletana abilmente ibridate nella città partenopea a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80 da Napoli Centrale e Nuova Compagnia di Canto Popolare, che si presenta come un giusto omaggio ai già citati Showmen, a Toni EspositoDonn’anna.  

Un cazzimma sound mesciato e che trapela da tutto il disco stimolando i più curiosi ad interrogarsi su queste radici, a ricercare pagine gloriose della nostra meravigliosa, quanto sfaccettata, storia musicale. 

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Céu – Tropix

Di pillole brasiliane ne abbiamo sciorinate fin troppe, ci si è dilungati tanto più del dovuto, sicché addì siam giunti all’ultimo capitolo con un’artista giovane rispetto a tutto il vecchiume fin qui trattato. Ed era ora. 

Potere ai giovani!  

Nei precedenti racconti mi sono lamentato, più o meno velatamente, di quanto lo spessore artistico – ed il contributo – delle nuove leve non fosse minimamente paragonabile a quanto prodotto in passato da quelli che poi si sono rivelati essere mostri sacri.
Vero, si giudica sul lungo passo e non sul breve, ma nella maggior parte dei casi, per quel che riguarda la scena attuale si tende ad esaltare – senza troppi giri di parole – chi partorisce il guizzo, salvo poi perdersi con successive produzioni non all’altezza. 

Céu ha avuto il merito di donarci un guizzo splendente con Tropix. Le pecche le ha (come ad esempio quel nefasto gusto di retromania anni ‘80 che ogni tanto si affaccia durante l’ascolto), ma è ampiamente meritevole di uno spazio in questo non-luogo, poi per carità sempre che de gustibus non disputandum est

Lo spazio se l’è guadagnato a suon di gomitate con una delle canzoni che potrebbe essere ritenuta – per affinità – una delle colonne sonore di Pillole: l’eterea, sottile e un po’ pop anni ‘90 Amor Pixelado, delicata e che in pochi si interessano a prendere come riferimento. Oppure il rimbrotto delle tastiere che si impone nel finale di Varanda Suspensa che ricorda tanto il sound dei primi anni duemila, che ridendo e scherzando sono accaduti venti anni fa. 

Da O Menina e o Monstro a mio avviso si alza l’asticella raggiungendo picchi considerevoli: il brano citato, ad esempio, riesce senza difficoltà ad essere catalogato come fuori tempo e fuori dal tempo, ma si fregia di una identità propria (a dispetto di quanto citato prima).
Anche in Minhas Bics si riscontrano sonorità godibili, senza andare in apnea da nostalgia gratuita, dimostrando delle egregie intuizioni che producono un disco brasiliano fortemente atipico. In questi sprazzi Tropix è in grado di suonare internazionale e non annoiante, per tutti i fruitori allergici al portoghese zuccherino adoperato come strumento aggiuntivo. 

Sangrìa, ad esempio, coniuga sapientemente le radici della musica latino-americana al raffinato progresso dell’elettronica, occorso negli ultimi anni e, colto senza imbarazzo da Céu.  

Sin dal primo ascolto sarete capaci di carpire l’estrazione generazionale di Maria do Céu Whitaker Poças, quegli anni ‘80 che si riflettono pesantemente nell’estetica di Tropix.
Un’unione di elementi vintage alla tropicalità brasiliana: il pixel, l’introduzione della musica digitale, la leggerezza matura e le sonorità sintetiche.
Inoltre risalta una capacità compositiva molto verticale, diretta e riconoscibile, il più delle volte elegante, conseguenza delle fortunate origini genealogiche (essendo la figlia di Edgar Poças che ha collaborato negli anni con Moraes MoreiraGal CostaRoberto Carlos e Djavan

Insomma ascoltando Tropix avrete modo di chiudere con serenità questo – mi auguro poco doloroso – ciclo brasiliano. Un disco che, se ascoltato, difficilmente passerà senza lasciare traccia. 

“Finisce così questa pillola breve se ne va… 
Ma aspettate e altre ne avrete! C’era una volta il cantapillole dirà e un’altra pillola comincerà” 

 Breve Pausa e si torna col nuovo ciclo! 

Elza Soares – A Mulher do Fim do Mundo

Ebbene sì! Siamo alle battute finali, sento il friccicorio nell’aria di questo ciclo di pillole che si va esaurendo, e lo fa con un mini botto, con un minicicciolo, con un pop-pop, con una miccetta (senza scomodare raudi, zeus e mefisti vari).
Molti di voi staranno tirando un sospiro di sollievo, finalmente si torna a parlare di altro, ma in fondo la divulgazione è anche cercare di pisciare – in qualche modo – fuori dal seminato. Mi rendo conto di averlo fatto abbondantemente. 

Sono lieto però di dedicare proprio in calcio d’angolo un posto a Elza Soares: un caposaldo della musica brasiliana
[la metafora calcistica, come avrete modo di leggere, è pertinente; e prima di continuare con la lettura, vi consiglio caldamente di avviare A Mulher do Fim do Mundo, in modo da creare il pathos di cui abbisogniamo ndr]. 

La storia che andremo a rivivere è di quelle che gaserebbe Carlo Lucarelli, pertanto se doveste trovarvi a leggere le righe che seguono col suo tono di voce non fatene un dramma. 

Tornando a noi: certo, non molti conoscono Elza e di questo lungi da me dal farvene una colpa [mi rendo conto di aver tirato fuori dei nomi nel corso di questi mesi che solamente Max De Tomassi ei suoi ascoltatori avranno un minimo masticato ndr], ma chi la conosce forse non sa che la signora in questione è stata la moglie di Garrincha, per qualche anno e lo ha accompagnato in Italia nel periodo in cui Mané bazzicava i campi del Sacrofano

L’amore tra i due è di quelli che strappa i capelli (per dirla alla De André) e destano scalpore, tanto che Elza arriva a rasarsi il capo come pegno d’amore per fare desistere Mané dal vizio dell’alcool.  

Ma andiamo con calma. Lo scenario è il seguente: lui già sposato e padre di 7 figli, abbandona la moglie per Elza, che l’opinione pubblica investe del titolo di guastafamiglie.  

Alea iacta est.  

I due si sposano ma, il retrogrado bigottismo che ammanta Rio de Janeiro, li rende facili bersagli del rancore di una popolazione indolente verso lo star system ed i vezzi dei suoi protagonisti. 

Elza Mané prima si muovono in direzione San Paolo, ma dopo un susseguirsi d’eventi tragici che sconvolgono ulteriormente le loro vite (tra i quali la morte della madre di Elza in un incidente automobilistico nel quale Garrincha guidava l’auto, a cui è seguito un tentato suicidio), scelgono un ambiente più tranquillo e lontano dai riflettori.
Approdano così a Roma, città nella quale Garrincha torna a calcare i campi di calcio.  

Dopo un paio di anni trascorsi nel Bel Paese, nel 1972 decide di tornare in Brasile (nello stesso anno in cui rientrò Caetano Veloso dall’Inghilterra), da lì in poi il vortice della depressione e dell’alcoolismo si rivelerà incontrollabile. Arriva a malmenare Elza durante un eccesso di rabbia e i due rompono.
Dopo di questo solo una fine indecorosa spetta a uno dei calciatori più gloriosi della storia del Brasile, mentre Elza si trova a risistemare i cocci di un matrimonio che ha lasciato strascichi pesanti, tra i quali anche un figlio morto all’età di 9 anni. 

Tutta questa storia cosa c’entra col disco?  

In primis: avete ora avete contezza di chi siamo andati a scomodare con questo scritto e questo non fa mai male.  

In secundis: certo non si è ancora parlato di musica finora, ma ciò non significa che rispetto al passato non ci sia niente da dire su questo disco. 

Sì. Perché A Mulher do Fim do Mundo è di una cupezza unica, corrusca, attraente, nel quale è meraviglioso crogiolarsi: dall’apertura con la poesia Coração do mar di Oswald De Andrade  (musicata José Miguel Wisnik) all’apocalittica Comigo che si conclude con la preghiera laica in ricordo della madre, passando attraverso la title-trackLuz Vermelha o la danza stonata di Dança e Benedita o il flow navigato in Maria Da Vila Matilde

Un disco che ha avuto grande risonanza internazionale, che non dimentica le origini samba (Pra Fuder) ma le spinge più in là, nel pieno rispetto del manifesto antropofago; si impone e sorprende per la sonorità aggressiva che combinata alla grinta di una – all’epoca – 85enne, mette in luce tutta la freschezza mentale e spirituale di Elza Soares, capace di trattare temi come la violenza domestica, la negritudine, la transessualità e il degrado urbano. 

Mulher do Fim do Mundo è un Derelict riuscito magnificamente. 

Caetano Veloso – Abraçaço

Abraçaço è un’estasi, di quelle che ti scombinano fortemente la vita.  

Ricordo benissimo il giorno in cui l’ho ascoltato la prima volta, Il frevo della title-track è entrato con martellante convinzione nella mente, senza che essa riuscisse a porre troppe resistenze. 

Il pensiero balenato è stato “ma siamo seri?”.  

Sì perché un disco come questo ti sorprende anche se conosci abbastanza bene la parabola disegnata da Veloso negli anni, la sua poetica e il suo passato.  

Per chi avesse dubbi, o fosse puramente reticente riguardo la discografia di Caetano Veloso, questo è il classico esempio che aiuta a scopare via ogni singolo dubbio: chi è capace di tirare fuori a 70 anni un disco simile merita solo ammirazione. 

La freschezza che traspare da Abraçaço è non solo attuale, ma anche corroborante. Possibile che le produzioni più originali provengano sempre dai “dinosauri” anziché dalle giovani leve? La domanda è lecita e Abraçaço ci lascia intendere che il ricambio generazionale non c’è stato, o se c’è stato è debole e con un flebile battito. 

Quel flebile battito nel disco si registra con la presenza del figlio Moreno, che lo segue da tempo nei tour dal vivo e che abbiamo ritrovato con gli altri due figli di Caetano durante lo spettacolo Ofertório. Proprio grazie a Moreno Veloso è legata la partecipazione ad Abraçaço del suo vecchio compagno di scuola Pedro Sé, colui che ha contribuito a far coesistere la musica elettronica alla samba in questo disco. La mescolanza di idee e di impulsi musicali dimostrano quanto l’ideale tropicalista non sia morto, bensì batta ancora forte in Caetano Veloso anche a distanza di oltre 40 anni dalla registrazione del disco. 

Ed è proprio il battito uno degli elementi cardine di questo disco. In un’intervista per il tour italiano relativo al disco, Veloso ricorda i tempi dell’esilio in Inghilterra, quelli che hanno contribuito alla registrazione di Transa.
Proprio in quegli anni ha sviluppato la sua tecnica chitarristica cavando le note dal battito della mano sulle corde. Quel battito è stata la chiesa al centro del villaggio per la costruzione degli arrangiamenti di Abraçaço: un occhio al futuro con il cuore ancorato al passato, capace di rivelare all’ascoltatore un compendio della musica brasiliana contemporanea. 

Questo spirito avvia il disco con l’incedere risoluto e marciante di A Bossa Nova É Foda un saluto alla nuova era della bossa nova, un modo anche di porre l’accento sul pensiero che la bossa nova non morirà mai [hey hey, my my, bossa nova never die ndr].
Poi troviamo lo stesso spirito scalpitante nell’eternità di Um Comunista, una prosa alla Neil Young o alla Nick Cave, nella quale Veloso celebra Carlos Marighella, martire comunista di origine italiana assassinato ferocemente a San Paolo dagli squadristi di ALN (Ação Libertadora Nacional).
Nella canzone c’è una esaltazione romantica dell’ideologia di gucciniana o lolliana memoria, quando “i comunisti custodivano i sogni”: 

“[…] Quando la canto in Brasile ci sono reazioni molto forti, la gente canta il ritornello, applaude, urla il nome di Marighella, è un pezzo che piace e il pubblico rispetta la storia che racconto, anche i giovani, trovano commovente raccontare di un comunista che guardava verso un sogno. Io non sono mai stato violento, ma quella storia mi piaceva, nel pezzo ci sono tutte le contraddizioni del caso, non l’ho mai incontrato e non sono mai stato vicino a quelle storie, anche se a un certo punto lo sono stato, più di quanto pensassi, perché una mia amica fu imprigionata e torturata perché faceva parte di quel gruppo, ma per fortuna lei è sopravvissuta ed è ancora mia amica. Mi chiese di aiutarli logisticamente, io dissi sì, ma non feci granché perché non avevo il tempo e la possibilità di aiutarli realmente.” 

Trovo una curiosa analogia tra quanto accaduto a Caetano Veloso e quanto raccontato nello spazio dedicato a Tom Zé. Ricordate come Tom sostenesse quasi di non essere all’altezza di Caetano Gilberto Gil riguardo la dissidenza politica, la sensazione di aver fatto troppo poco – o nulla – nonostante fosse stato imprigionato per ben due volte.  

Quando Veloso sostiene di non aver fatto molto per aiutarli realmente, è mosso da un simile senso di inadeguatezza nei confronti di Carlos Marighella, il cui epitaffio composto da Jorge Amado recita: “non ebbe tempo per avere paura”.  

Si attiva sempre il dannoso e viscido meccanismo del “senno di poi” quando si verificano drammi come quello occorso al Brasile, si ha la sensazione che si sarebbe potuto fare di più, questo Oskar Schindler lo ha insegnato a tanti, anche a chi ha avuto la fortuna di non vivere questi momenti.  

Forse con Um ComunistaVeloso, ha provato a colmare quel senso di inadeguatezza intimo  andando a raccontare la figura di un uomo vittima di omicidio politico e dei suoi ideali, rendendoli immortali.

Julia Holter – Tragedy

Julia Holter - Tragedy.jpg

Capita di trovare analogie tra differenti articoli dello stesso ciclo, similitudini non calcolate durante la scelta dei dischi da approfondire. È bello trovare dei sentieri differenti che si muovono paralleli alla strada maestra per poi perdersi e ritrovare – quando meno te l’aspetti – la via principale, ramificazioni, connessioni quasi neurali che rendono artisti apparentemente distanti più vicini di quanto noi crediamo.

Abbiamo parlato degli Einsturzende e del ceppo del tutto similare (concettualmente parlando) con John Cage, ritroviamo in Julia Holter una declinazione interessante di quel mondo musicale, fortemente connotato dall’apparente stramberia di rumori che si susseguono in modo casuale. Siamo al confine di ciò che viene definito musica e non musica, un po’ come avviene per l’arte contemporanea, quando la corrente filosofica che caratterizza la formazione di un dato pensiero prevale sulla tecnica canonica.

Per intenderci, facciamo l’esempio di Picasso e del suo studio alla ricerca della quarta dimensione, la necessità di intrappolare su tela il movimento – la fluidità. A chi non ha studiato un minimo Storia dell’Arte e non si è interessato a Picasso e ai suoi periodi, il pittore spagnolo apparirà come un eccentrico artista che spennellava casualmente sulla tela; la verità sta nel fatto che il cubismo è la sublimazione di un determinato pensiero artistico – formatosi negli anni e attraverso altri periodi (come il blu e il rosa) – partito sempre da uno studio accademico notevole. Picasso non è che non sapesse disegnare, era un ottimo esecutore, ma da lì è partito, non si è sentito arrivato.

Tutto questo pippone pseudo-intellettuale vuole porre l’attenzione su John Cage e Julia Holter, lo studio svolto dai due – con le debite distanze – non deve portare a liquidare causticamente un determinato approccio musicale, ma è volto alla necessità di porsi delle domande ben precise: “Cos’è la musica?” e “Cosa si vuole ottenere?”.

Julia Holter ha cercato di musicare – in solitaria (registrazione e produzione) – la tragedia dell’Ippolito Coronato di Euripide, trovo una similitudine molto marcata con le Ocean Songs dei Dirty Three, sarà per quello sbuffo della nave all’inizio della Introduction, o per la voglia di narrare con la musica delle storie articolate in una sorta di viaggio concettuale. In Try To Make Yourself A Work Of Art, si percepisce il senso epico nonostante la ripetizione ad libitum di due semplice strofe che proseguono sotto un unico presagio “This was my plot“, ad indicare la mancanza di libero arbitrio, come a dire “Hey è tutto scritto, così deve andare, è il destino baby”, lo stesso destino beffardo che vuole che Ippolito e Fedra muoiano in situazioni disgraziate.

In tutto questo la Holter sembra impersonare il ruolo di una musa narrante, una figura tra leggenda e realtà caratterizzata da una voce distante, come in Goddess Eyes nel quale il refrain anni ‘80 al vocoder si intreccia con una voce molto simile a quella di PJ Harvey e appartiene – insieme a The Falling Age – a quella schiera ridotta di brani “canonici” presenti in Tragedy.

“Per me non è divertente cantare canzoni che non sono direttamente correlate a qualche evento specifico. Sono più legata al concetto di storytelling” .

Sì perché Interlude – che indica il passaggio alla seconda parte del disco – propizia anche un cambio di registro, una sperimentazione grandiosa in Celebration. Basta lasciarsi trasportare dalla musica per immaginare la sacralità di questo pezzo che ricorda il canto disperato di Wyatt a cavallo tra Sea Song e Little Red Robin Hood Hit The Road, con un sax che ricorda la tromba di Mongezi Feza che si palesa e senza il senso di ansia che permea il capolavoro di Wyatt. Un filo comune con Cage lo si ha per esempio in So Lillies, brano nel quale la Holter registra i rumori ambientali in una stazione ferroviaria per poi costruirci l’intera struttura, nella sensazione di avere a che fare con un qualcosa di cinematico (e qui ci ricolleghiamo a Blixa & Teho oltre che alla kosmische musik di Neu e Kraftwerk), in quel discorso di riuscire a trasmettere con facilità delle immagini tramite i suoni.

Non ho le risposte naturalmente, o meglio, le mie risposte me le sono date e sono del tutto soggettive, ma mi aiutano ad apprezzare il percorso inusitato della Holter che – con i suoi collage musicali – si erge a nuova figura di riferimento per la musica d’avanguardia con un disco d’esordio ambizioso ma al tempo stesso estremamente definito e che ha ben chiaro in mente dove vuole andare.

“Se ascoltate Tragedy, è pieno di grandi idee all’interno […] Non ho nessun rammarico pensando di aver lavorato da sola su Tragedy, ma è ovvio che stavo cercando di creare qualcosa di più grande di quel che potessi fare. Si può vedere in quest’ottica, stavo cercando di fare qualcosa di talmente più grande rispetto a ciò che effettivamente avrei potuto fare da sola.”

Mac Demarco – Salad Days

Mac Demarco - Salad Days.jpgMac Demarco è un imbecille. 

Di quelli irritanti, un pusillanime fastidioso, di quelli che ti toccano sempre o ti si mettono seduti appiccicati quando tutte, ma proprio tutte, le sedie nella stanza sono libere. Per intenderci è quello che mentre pisci nell’orinatoio, viene a pisciare vicino a te e si affaccia di tanto in tanto a controllare misura e getto. 

Mac Demarco è deficiente. E badate bene che lui sa di esserlo… ma attenzione, non è il comportamento sopra le righe di una persona che lo fa in maniera forzata. Semplicemente è un deficiente. 

“Perfezionismo? Non è qualcosa che ha a che fare con me”, i suoi dischi sono condizionati dal buon vecchio motto “buona la prima” e questa rilassatezza la si percepisce totalmente nei suoi album e ancor di più in Salad Days, nel quale le corde della chitarra vengono continuamente sottoposte a bending e tremolo, dando l’idea di trovarsi continuamente in un pezzo di Del Shannon con piccoli soli e inframezzi di chitarra che si susseguono ricamati con delizia e senso pratico. 

Salad Days è permeato dalla ricerca di un sound nostalgico, che sia frutto del ripescare un loop synth anni ‘70 di Shigeo Sekito (ザ・ワード2 – The Word II) che fa da tappeto sonoro a Chamber of Reflection o della sua fida chitarra sempre sul punto di sembrare scordata. In particolare Chamber of Reflection – a differenza delle altre canzoni tutte fortemente ispirate alla vita vissuta da Mac – fa riferimento alla Massoneria, in particolare all’iniziazione “è la stanza nella quale la gente accede prima dell’iniziazione alla Massoneria. È come una camera per la meditazione, nella quale ti chiudono dentro per un po’ di tempo. Lo scopo è di riflettere su ciò che si è fatto nella vita e come progredire. È quello che praticamente ho fatto in studio. È stato terapeutico. Mi sento illuminato, più leggero.” 

Come già scritto poco sopra, il disco è molto personale con brani dedicati alla propria ragazza storica – Kiera McNally – e alla loro decisione di trasferirsi dal Quebec a Brooklyn. “Vivo come un reietto… però è economico” tiene a puntualizzare Vernor Winfield McBriare Smith IV (ma conosciuto dai più come McBriare Samuel Lanyon “Mac” DeMarco) , e Alex Calder – membro della sua vecchia band Makeout Videotape – ci da manforte aiutando a capire la dimensione di questo individuo, ricordando di quante volte si è svegliato con il pisello di Mac a riposare sulla sua faccia.  

Mac è un burlone, debosciato e genuino. Analizzando questi brevi aneddoti si riesce a comprendere anche il suo approccio alla musica e il suo metodo di songwriting “Il mood con il quale ho affrontato Salad Days è ‘fanculo sono in tour da un anno e mezzo e sono stanco’”, il prodotto di tutto questo è un album delizioso a tratti dolce e con una sensibilità spiccata che trasmette di canzone in canzone. 

Nick Cave & The Bad Seeds – Skeleton Tree

Nick Cave & The Bad Seeds - Skeleton Tree.jpg

“Resisti al bisogno di creare 

Resisti alla fede nell’assurdo 

Resisti attraverso la provocazione 

Resisti attraverso la malattia e la tristezza 

Resisti attraverso la masturbazione 

Resisti attraverso manuali di motivazione 

Resisti lavorando per gli altri 

Resisti attraverso il paragone con gli altri 

Resisti attraverso l’opinione degli altri 

Questi sono i Nove tormenti dell’avanzamento. Ci scorrono nel sangue, nella pelle e nei nervi. Rappresentano per il nostro progresso una minaccia reale e disastrosa come un treno fuori controllo che ci tuona incontro, mentre irrigiditi dalla paura restiamo fermi sui binari”. 

Con questo estratto da Sick Bag Songs ho deciso di cominciare un articolo che reputo estremamente complesso per i temi trattati, per la vicinanza con l’uscita discografica e per la valenza che ha il disco, sia dal punto di vista musicale quanto di quello umano. 

I tormenti dell’avanzamento sono le paure che ammantano chi ama più di sé stesso la propria vocazione, succedeva con Zappa, solito rinchiudersi 18 ore su 24, sette giorni su sette in studio, o a Neil Young che per la sua musa sarebbe capace di passare sopra chiunque, sono i tormenti di chi vive per progredire e ha in qualche modo timore di non lasciare una traccia del proprio passaggio.  

È la paura che ha assalito Nick Cave dopo la morte di Arthur – uno dei suoi gemelli – la paura di perdere tutto e di non sapere più il come si fa.  Molte delle canzoni in Skeleton Tree sono già state pensate prima che accadesse il luttuoso evento; la drammaticità giace nella sensazione che le canzoni siano state scritte dopo ciò che è accaduto in quanto il tema della morte è ricorrente e alcuni brani risuonano tristemente profetici.  

Succede che Cave rimetta mano ai brani rendendoli di una intensità unica, come se la perdita avesse donato nuova linfa alla propria capacità creativa “Ho scritto un mucchio di canzoni dopo la morte di Arthur, ma le sentivo quasi un tradimento nei confronti di tutto ciò che mi circondava, come se stessi tradendo mio figlio; come se non avessero il giusto potenziale emotivo, le ho scartate. Andrew Dominik le ha trovate tra i miei appunti e se n’è innamorato, le ho usate come voce fuoricampo per il film One More Time with Feeling. Posso scorgere adesso, con chiarezza, che si trattava di qualcosa di veramente potente, ed ero incapace di vederlo al tempo. Tuttavia, sono ancora galleggianti. Ma sto scrivendo tante cose. Un mucchio di nuove cose”.  

Ogni singola traccia è un pugno nello stomaco, dalla sirena di Jesus Alone alla preghiera di I Need You, ripetuto allo sfinimento come fosse un mantra, con la voce rotta, insicura e colpita al cuore, o nella soavità di Distant Sky e nella title-track, nella quale sembra tornare la calma dopo la tempesta, quasi a voler dimostrare a tutti che le cose possono cambiare, ma tutto scorre nonostante Cave sia sopravvissuto a suo figlio, in un dolore forse impareggiabile “Per me andare in studio a Parigi non era una buona idea, spero di non dover ripetere un’esperienza simile. Erano passati appena pochi mesi dalla scomparsa di Arthur. Era troppo presto. Ma ho creduto fosse importante che lo facessi. Sai, la vita va avanti e anche tutto il resto. È stato terrificante. Un disastro. Così per tutti. La maggior parte di ciò che facevamo semplicemente non andava. Abbiamo provato a registrare nuovamente delle canzoni. La maggior parte di ciò che facevamo suonava male. Era come se le registrazioni rozze semplicemente si rifiutassero di essere ripulite o migliorate. Perciò Skeleton Tree è stato un po’ il prodotto di questo”. 

Qualche riga sopra è stato menzionato One More Time With Feeling, il film che funge da stele di Rosetta per comprendere a pieno Skeleton Tree ed ogni suo brano, per non dare scontate alcune situazioni (come la tempistica nella creazione dei brani) e per cercare di capire come il lutto sia stato metabolizzato dal punto di vista umano e professionale da Cave, la sua band e la propria famiglia “Inizialmente avevamo idea di girare un film per la promozione del disco. Niente più della registrazione dei brani live per invogliare la gente a vederlo al cinema e comprare il disco. Ma dopo la morte di Arthur tutto è cambiato. L’unica cosa che mi ha tenuto in vita in al tempo è stata pensare al lavoro che sarebbe continuato”. 

Skeleton Tree è un disco che non può essere classificato come tale, è dolore, è un requiem straziante ridotto all’essenza, scarnificato di ogni orpello musicale, parole e voce, Cave è sempre meno propenso a cantare (ricordando la parte finale di carriera di Johnny Cash), sempre più votato a raccontare le storie, le sensazioni, cercando di buttar fuori quanto più possibile ciò che ha vissuto, anche se come ammette lui stesso “vorrei dire tante cose su Arthur, ma non riesco”.  Skeleton Tree è un’opera totale consolidata da One More Time With Feeling, grazie al quale si completa e si assesta in una dimensione tutta sua.  

Per quanto l’album lasci dei punti di sospensione, la pellicola è schietta, un calcio all’ipocrisia della cultura occidentale che non consente di affrontare un lutto come ha fatto Cave con la propria famiglia. Nick Cave getta – in un atto di istinto ragionato – la maschera pirandelliana, non senza impaccio; smonta le impalcature e le sovrastrutture che hanno caratterizzato la sua persona, torna all’essenza musicale oltre che comportamentale, decidendo di mostrare il dolore in piazza per esorcizzarlo, per viverlo a pieno e viaggiare dentro di esso, con un messaggio di speranza finale “è come se avessimo fatto qualcosa di buono per Arthur, tutti noi, con il pensiero di lui tra le stelle”. 

PJ Harvey – The Hope Six Demolition Project

Pj Harvey - The Hope Six Demolition Project

Questo disco, dal titolo curioso, offre un seguito concettuale e musicale a Let England Shake, prosegue la denuncia di Polly che si mostra sempre più focalizzata alle dinamiche socio-culturali, diventando probabilmente la principale interprete della protesta in musica del nuovo millennio.

La vena polemica di PJ matura col passare degli anni, non che prima fosse assente, ma forse affrontare determinate tematiche ad inizio carriera – senza la comprensione totale delle stesse – può portare ad un lavoro scialbo che poco avrebbe aggiunto al panorama musicale.

Interessante un passaggio di un’intervista rilasciata ad NME – nel 1992, agli arbori della carriera – nel quale le viene fatta notare una mancanza di risonanza politica nel primo disco: “Non mi sento a posto con me stessa perché so di aver trascurato questo aspetto […], non sono abbastanza preoccupata da queste cose. Potrebbe essere molto pericoloso se non facessi qualcosa riguardo presto, il mio ego potrebbe svilupparsi eccessivamente […]”. Questa intervista a distanza di 19 anni da Let England Shake e di 24 da The Hope Six Demolition Project, spiega il periodo di incubazione dei due dischi, con annessa la volontà di sviluppare non solo una coscienza ben precisa in tal senso, ma un linguaggio e una narrazione consona per trattare determinati argomenti.

Non a caso da White Chalk a Let England Shake è passato un lustro, stesso tempo maturato tra quest’ultimo e il Demolition Project, lasso necessario per vivere in prima persona i luoghi delle sperequazioni sociali ed etniche, o le aree delle guerre dell’ultimo ventennio toccando con mano la devastazione e i suoi frutti. Il viaggio con il fotoreporter delle zone calde Seamus Murphy, ha consentito a PJ di portare a compimento un libro di poesie sul tema – The Hollow Of The Land – e un disco pieno di domande e avaro di risposte, si ripresenta quindi nel ruolo di narratrice di ciò che – in questo caso – osserva con i propri occhi.

Il titolo dell’album fa riferimento al progetto Hope VI del governo degli Stati Uniti ideato proprio nel 1992 – e reso operativo nel 1998 – volto alla riqualifica degli spazi urbani connotati da alta criminalità, povertà e alti tassi di analfabetismo. Purtroppo al rifacimento edile e alla rivalutazione della zona, non è seguito un miglioramento della vita media, rendendo lo standard inaccessibile ai nativi, questo viene cantato nella canzone che apre il disco The Community of Hope, scritta dopo un viaggio a Washington D.C. 

La parte finale della canzone, caratterizzata dal refrain “They’re gonna wanna put a Wallmart here” è una provocazione nei confronti della multinazionale americana che nel piano di riqualifica aveva previsto l’apertura di nuovi centri commerciali nelle aree riqualificate. In riferimento a The Wheel – primo singolo estratto dal disco e che narra l’eccidio avvenuto in Kosovo – la cosa che balza all’orecchio è lo stridio tra testo e melodia “quando sto scrivendo una canzone, visualizzo tutta la scena. Posso vederne i colori, posso capire l’ora del giorno, l’umore, posso vedere la luce cambiare, le ombre muoversi, tutto questo in un’immagine. Raccogliere informazioni da fonti secondarie ti fa sentire troppo lontano da ciò che stai cercando di scrivere. Voglio annusare l’aria, sentire il terreno e incontrare la gente dei paesi dei quali sono affascinata”.

Ci tengo a menzionare un grande brano che – come abitudine di PJ – nasconde riferimenti di artisti che l’hanno formata musicalmente, The Ministry Of Social Affair suona aggressiva, con la voce che cresce accompagnata dai due sax a contrasto (vera forza della canzone), sulla base di un brano di Jerry McCain che apre la canzone “That’s What They Want”, ripreso, reso decisamente scuro e ripetuto ad libitum nel finale.

I tempi cambiano, la controcultura e le sue canzoni di protesta partorite ogni settimana – e pronte a dominare le frequenze – sono un ricordo sbiadito; il mood è diverso e sembra quasi si sia persa un’attitudine alla protesta, deteriorata – tra le altre cose – dal bombardamento mediatico e da una progressiva perdita dei valori umani nella società odierna. Ecco perché Let England Shake prima e The Hope Six Demolition Project giocano un ruolo fondamentale al giorno d’oggi, quasi a voler risvegliare le coscienze sopite delle ultime generazioni.

Per registrare questo disco, Polligigia è riuscita a buttar su una band da sogno, composta da inossidabili compagni come John Parish, Mick HarveyFlood a signori musicisti del calibro di: Jean Marc-Butty, Terry Edwards, Mike Smith, James Johnston, Alain Johannes, Kenrick Rowe, ed i nostri Alessandro Stefana e Enrico Gabrielli.

Proprio quest’ultimo ha speso parole al miele per la nostra: “PJ Harvey è una delle poche artiste che preferisce strade di sfida personale senza cedere mai a nessuna lusinga. Artisti del suo livello si trovano davanti a un bivio: progettare la loro carriera come un cerchio che torna su se stesso, o come una freccia che corre avanti. Lei ha fatto la seconda scelta.”

PJ Harvey – Let England Shake

Pj Harvey - Let England Shake

“Mi sono veramente goduta questa differente, enorme, ampiezza di sonorità che l’autoharp da. È un suono delicato, ma al tempo stesso è anche come avere un’orchestra sulla punta delle dita. Ho cominciato a scrivere molto sull’autoharp, poi lentamente col passare del tempo, la mia scrittura ha cominciato a muoversi verso la sperimentazione con differenti chitarre, usando diverse applicazioni sonore, alcune delle quali non ho mai avuto a che fare prima”.

Nasce qui la nuova vita di PJ, l’autoharp è un po’ il simbolo della sua nuova parentesi musicale… in molti degli articoli e delle interviste del periodo che ho raccolto, Let England Shake viene considerato come l’inizio di un nuovo corso; a distanza di anni – e con la possibilità di vedere la piega che la carriera artistica di PJ ha preso – non me la sento di dissentire.

“Non sento il dovere di spiegare ogni intenzione dietro ad ogni cosa”

Si gira pagina quindi e si scopre una Polly Jean – accompagnata dai prodi John Parish e Mick Harvey – consapevole di quanto fatto nei vent’anni precedenti, è conscia di essere un’icona e una delle personalità più brillanti della scena musicale, il suo metodo di scrittura vira verso lidi differenti, vengono introdotti il sax e la tromba – oltre all’autoharp – e l’uso della voce cambia “non potevo cantare con una voce matura ed estremamente ricca senza apparire completamente fuori luogo. Le parole hanno già un loro peso specifico e non avevo intenzione di aggiungere un ulteriore fardello su di loro, perciò ho lentamente trovato la voce e ci ho cominciato a lavorare, sviluppando così il ruolo del narratore… è stato un processo a livelli”.

La volontà di Polly è chiara: non dire alla gente ciò che deve sentire o pensare, la necessità è proprio quella di affermarsi come narratrice, una cronista che vuol fare uno spaccato del mondo, sulla guerra contemporanea e sulle radici dei conflitti. Per riuscire a fare questo, Polligegia ha raccolto testimonianze da parte di chi ha vissuto in prima persona tanti conflitti (Iraq e Afghanistan) nei differenti periodi storici (documentandosi sulla campagna di Gallipoli, non quella in Puglia).

The Words That Maketh Murder fa proprio riferimento alla guerra afghana, è una critica alla diplomazia e fa riferimenti ai conflitti mondiali del secolo scorso. Una delle peculiarità di Polli è la capacità di inserire spessissimo alcuni easter egg volti a tributare artisti con i quali è cresciuta, avviene anche in questo brano dove il refrain finale “what if I take my problem to the United Nations?” è basato su Summertime Blues di Eddie Cochran. Un modo di rendere più paradossale il brano e il significato, contrapponendo la spensieratezza di Summertime Blues alla semplicità con la quale si spediscono in guerra le persone.

Questa canzone in particolare ha impressionato Patti Smith che – come in un passaggio di consegne – ha benedetto la canzone di “Polly Harvey“: “mi rende felice di esistere. Ovunque qualcuno faccia qualcosa di valore, inclusa me stessa, mi rende felice di essere viva. Per questo ascolto questa canzone tutte le mattine, completamente allegra.”

A conferire un’ulteriore aura di sacralità al disco, contribuisce senz’ombra di dubbio la scelta di registrare il disco in una chiesa del 18esimo secolo, davanti la quale Polli passava spesso durante la sua permanenza a Yeovil. La sensazione è che – più che in passato – ogni singolo brano arrivi a toccare le corde emotive dell’ascoltatore, una dichiarazione d’amore e odio verso la propria madre patria, che potrebbe essere traslata senza problemi in altri macro-ambienti.

Nonostante ella non abbia mai scritto sino a questo punto di queste tematiche, non significa che fosse scevra, anzi la propria coscienza politico sociale l’ha condotta alla creazione di Let England Shake, che di fatto è stato un lavoro propedeutico per The Hope Six Demolition Project con l’annessa denuncia sociale che si porta appresso “sono dovuta andare a guardare dietro a tante canzoni che ascoltavo da piccola, come Southern Man o Ohio di Neil Young. Così come tante canzoni di Dylan, specialmente dei primi anni ‘60, o Dachau Blues di Beefheart. Ricordo che ascoltandole da ragazzina, fantasticavo ‘di cosa canteranno?'”

Forse per questo motivo Let England Shake è l’album più “verboso” di PJ, nei cinque anni che sono passati da White Chalk, la penna ha versato fiumi di inchiostro per due anni consecutivi – tra revisioni ed elaborazioni, tra prose e poesie – andando a comporre successivamente la musica per i 12 brani, che spostano il baricentro creativo di Polli annoverandola di fatto nella sfera cantautorale.

Blixa Bargeld & Teho Teardo – Still Smiling

Blixa Bargeld & Teho Teardo - Still Smiling

Still Smiling è un disco inaspettato, che sembra far capolino da epoche distanti – a cavallo tra anni ’20 e ’30 del secolo passato – con due signorotti distinti intenti a comporlo dinanzi ad un camino mentre sono soliti tirare la pipa e attizzare i carboni. Still Smiling è gentile, ha modi d’altri tempi, è un disco che va ascoltato in maniera attenta, perché riserva numerose sorprese.

La prima sicuramente è nella coppia… chi non si è mai chiesto cosa ci facesse l’austero crucco Blixa con il paffutello italico Teho; l’apparenza inganna e l’abito non fa il monaco, Teardo da giovincello ha seguito la nascita e la crescita dell’ambiente industrial, tanto che partecipando tra il pubblico a uno dei primi concerti degli Einsturzende ha avuto una gran paura, ed il fatto di suonare un disco con Blixa ha di fatto “esorcizzato la paura” (per dirla con le sue parole).

A distanza di 80 anni si riforma l’asse RomaBerlino, fortunatamente con scopi tutt’altro che bellicosi, Teho Blixa si incontrano a teatro anni – dopo quel concerto di inizio anni ’80 – nasce quindi l’idea di un progetto collaterale alle carriere principali dei due. A Teho – che compone di solito colonne sonore – viene proposto di lavorare sulla soundtrack del film Una Vita TranquillaTeho contatta Blixa, nasce così la coinvolgente A Quite Life, brano poi riproposto all’interno di Still Smiling.

Il sodalizio sembra funzionare, l’intesa è eccellente e matura nei due la curiosità di conoscere verso quali vette potrebbe portare la collaborazione. L’asse RomaBerlino è stato ricomposto, in due anni Teho Blixa si sono spostati tra le due capitali lavorando vis à vis, perché si sa le tecnologie aiutano, ma la concretezza la si ha quando uno si guarda negli occhi e vive l’altro in ogni istante. Come già scritto, sembra quasi un lavoro d’altri tempi, sarà per l’uso del megafono in Defenestrazioni, per le atmosfere taglienti dettate dal quartetto d’archi, o per l’encomiabile e buffo tentativo di Blixa nel cantare in italiano (che riporta alla mente i fasti della nostra lingua quando veniva utilizzata per cantare da artisti stranieri tra anni ’50 e ’60).

La contaminazione linguistica diviene un elemento fondamentale di Still Smiling, nel quale si intrecciano l’inglese, l’italiano ed il tedesco, quasi come fosse una barzelletta (chissà se anche questo è un modo per esorcizzare i vecchi cliché), tanto da sfociare in What If? capolavoro del disco che ci mette di fronte ad un tema interessante: quanto cambiano le sensazioni e le scelte in fase di traduzione? Quanto la traduzione inficia un pensiero originario disturbandone sfumature e concetti?

Potete capire che ha preso forma un disco estremamente imaginifico, in grado di produrre diapositive che si susseguono costantemente, Still Smiling è un disco visivo nato quasi con l’intento di fare da colonna sonora a più momenti della nostra vita, un po’ come Brian Eno fece per Music For Films (una sorta di compilation con mini-colonne sonore create da Eno sulla base di alcuni film da lui immaginati ed inviati a vari registi affinché le utilizzassero per i propri film futuri), ma con la necessità di rendere autonomo e dal carattere forte il disco, evitando lo schiaffo di essere un mero sottofondo da camera.

Tutto questo rientra in un’idea ben precisa “il disco è frutto di una ricerca continua della perfezione, la voglia di migliorare le tracce fin quando tutto non risulta omogeneo con il resto”, non si parla però unicamente di musica, bensì dell’opera nel complesso; confezionata a dovere grazie agli scatti di Thomas Rabsch (già collaboratore di Nick Cave Radiohead) capace di immortalare Blixa Teho con tecniche fotografiche che richiamassero le immagine degli spiritisti ad inizio ‘900 – scattate con le prime macchine.

Il set fotografico è stato allestito a casa di Bargeld, nel quale entrambi figurano in pose estremamente naturali, andando a formare una grande connessione tra immagini e video; un credo artistico caposaldo della poetica di Man Ray, nume tutelare di Teardo (capace nel corso degli anni di sonorizzare con dedizione tre film muti di Ray tra i quali Le Retour à La Raison).