Jackson C. Frank – Jackson C. Frank

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Ascoltando Jackson C. Frank non possono non venire in mente tanti altri artisti, questo perché Jackson è la base. La base di tanti dei folksinger che sono passati per i nostri stereo.

Lo chiamano “leggenda dimenticata”, ma può anche essere ricordato come “l’uomo dei due mondi” o infelicemente “colui che è rimasto scottato”. Partiamo da quest’ultimo soprannome.

“Colui che è rimasto scottato”: all’età di 11 anni la vita di Frank cambia drammaticamente (la prima svolta drammatica di una lunga serie purtroppo), durante una lezione a scuola la caldaia esplode uccidendo parte della sua classe – 15 alunni – compresa la sua prima ragazza, lui si salva rimanendo ustionato. Durante la degenza in ospedale la maestra gli porta una chitarra con la quale può distrarsi ed imparare i rudimenti dello strumento. Negli anni sviluppa una sensibilità tale che lo portano ad avventurarsi come giornalista e al tempo stesso come cantautore in erba nel Greenwich Village.

“L’uomo dei due mondi”: a 21 anni la sua musica è ancora acerba, inoltre la sua vita si trova dinanzi ad un altro bivio: riceve una ingente cifra come risarcimento per l’incidente di 10 anni prima. Deluso dall’amore e dall’attuale situazione al Greenwich Village se ne va in Inghilterra, dove continua a scrivere brani riuscendo a fondere in maniera unica gli stili del folk newyorkese e inglese. Cominciano le collaborazioni con Bert Jansch e John Renbourn dei Pentangle, che si dimostrano grandi estimatori della musica di Frank.

L’Inghilterra lo ha fatto sbocciare completamente dal punto di vista musicale, tant’è che Paul Simon decide di produrre il suo primo – e unico – lavoro in studio. Scriveva tante canzoni Frank, ne componeva più di una contemporaneamente, non si distaccava da un’idea sino a quando non prendeva forma. La musica veniva sempre prima del testo, tranne per Yellow Wall, nella quale parla delle allucinazioni da dolore durante il ricovero in ospedale.

Le registrazioni vanno lisce come l’olio, salvo per il fatto che Frank richiede di rimanere nascosto durante le registrazioni, dimostrando ciò che ha sempre cercato di negare, ovvero un principio di schizofrenia paranoide conseguenza del tremendo incidente subito durante l’infanzia.

“Leggenda Dimenticata”: come nella gran parte delle storie musicali, il lieto fine non c’è. Jackson C. Frank si fermerà al primo lavoro solista, la morte del figlio e la separazione dalla moglie saranno le mazzate definitive che ne segneranno vita e carriera, addirittura tornerà a vivere dai genitori, per poi ottenere come sempre un riconoscimento postumo. “Era l’opposto del chiassoso americano, non promuoveva sé stesso […] Mi sono sentito K.O. quando l’ho sentito suonare. Aveva una chitarra Martin con sè, totalmente sconosciuta in Europa sino a quei giorni. Jackson Frank è stato molto più di quanto fosse Paul Simon. Ma Paul Simon ottenne la fama e Jackson Frank cadde nel dimenticatoio” ricorda John Renbourn.

Jackson C. Frank è un album che ha dentro Tim Buckley, Nick Drake, Phil Ochs, Simon & Garfunkel, Bert Jansch, Tim Hardin, prima che ci arrivassero loro. Blues Run The Game è l’apertura del disco, ed è stata interpretata più e più volte da tantissimi degli artisti citati prima (Drake, Simon & Garfunkel, Jansch, Renbourn, Fairport Convention, Mark Lanegan e tanti altri), così come Milk & Honey adesso forse conosciuta al pubblico più per la versione di Nick Drake che per l’originale (il che è tutto un dire se consideriamo la notorietà di cui ha goduto Drake fino a fine anni ’80).

Jackson Frank appartiene alla nostra musica più di quanto crediamo, lo ascoltiamo tutti i giorni senza saperlo, perciò d’ora in poi quando ascolterete un brano folk, rivolgete almeno un pensiero a quello che ci ha regalato Frank, forse finalmente si renderà conto di quanto di buono ha fatto per tutti noi.

 

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Phil Ochs – I Ain’t Marching Anymore

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Ho sempre pensato a Phil Ochs come a un Luigi Tenco a stelle e strisce, non tanto per le canzoni che hanno approcci opposti, quanto per l’affinità delle carriere e del destino che ha imposto loro un finale che non avrebbero meritato.

Phil Ochs a mio avviso è stato uno dei più grandi cantautori americani, nulla da invidiare a Bob Dylan – suo amico-nemico (come Red e Toby) – prima fonte di ispirazione e successivamente poeta da rincorrere nel gotha degli intellettuali d’oltreoceano.

Se Dylan è la spocchia maestosa, borghese e algida della rivoluzione sociale, Phil Ochs è la voce del terzo stato, potente e delicata, verace quanto basta per renderlo uno dei principali autori del Greenwich Village.

Figlio del popolo; una rabbia gentile avvolta dalla voce calda e dallo sguardo guascone e bonario del cantante.

I Ain’t Marching Anymore è un grido rivolto all’attitudine militaristica degli Stati Uniti, una protesta contro ogni tributo di sangue che storicamente l’America ha preteso dalla sua gente.

La canzone comincia con una progressione rapida e rabbiosa di note, una proiezione dei colpi di fucile sparati da Ochs nei confronti di un paese che non sente più suo. La panoramica che Phil Ochs offre è impietosa e stupefacente, con fare da cronista navigato analizza la breve vita del suo paese, punto per punto, mettendo a nudo la necessità di ricorrere alla violenza per ogni situazione.

* pippone storico 

Si comincia citando la “battaglia inutile”di New Orleans, tra inglesi e americani, ove la notizia della pace siglata con il trattato di Gand non è giunta in tempo per fermare lo spargimento di sangue, si prosegue così con la disfatta di Little Bighorn, dove tutto il settimo reggimento insieme a Custurd viene spazzato via. Dopo le battaglie coi pellerossa, si passa all’espropriazione dei territori messicani.

Ma quando i nemici si esauriscono fuori dal proprio giardino, è necessario crearli all’interno delle quattro mura domestiche… quindi giù di guerra civile: il conflitto fratricida tra nord e sud. E poi, la decisione di intervenire nelle “trincee tedesche” per combattere una guerra che avrebbe posto fine a tutte le altre. Naturalmente così non è stato, considerato che i cieli giapponesi sono stati attraversati dagli ammerigani e con una delle più grandi dimostrazioni di forza il resto del mondo è stato annichilito.

*/end of pippone storico 

Dopo questa breve e noiosa lezione di storia contemporanea, quello che riassume il pensiero di Ochs, è il ritornello col quale punta il dito verso chi governa: “Sono sempre i vecchi a guidarci verso la guerra, sono sempre i giovani a cadere”.

E’ palese come Phil sia riuscito a raccogliere a piene mani l’eredità di Woodie Guthrie e Pete Seeger incarnando lo spirito socialista e rivoluzionario, che sempre più forte si farà sentire nel 1968. Tutto il leit motiv del disco e della gran parte della carriera del cantautore è incentrata sulla protesta, per questo è stato creato anche un dossier nei suoi confronti da parte dell’efbiai, bollato come sovversivo, chiamato a volte Oachs, colpevole di aver compiuto “nefandezze” anche dopo la morte (scoperta successivamente dai federali).

Non solo il braccio della legge, anche la gente lo ha eletto come uno dei leader della controcultura, tant’è che Draft Dodger Rag è diventata l’inno dei movimenti contro la guerra in Vietnam. La canzone ha preso forma quando il coinvolgimento dei magna-cake in Vietnam si è fatto sempre più concreto. Ochs si immedesima in un ragazzo di 18 anni chiamato alle armi che elenca una serie di scuse (degne di un adolescente in pubertà che non vuole andare a scuola) per i quali non dovrebbe servire, quali ad esempio: una vista da pipistrello; l’asma in continuo peggioramento; piedi piatti; ernia del disco; milza spappolata; allergia ai fiori e agli insetti.

Il ragazzo cerca di allisciare il sergente come Alvaro Vitali con la propria maestra nei film di Pierino, dimostrandogli quanto tenga al proprio paese dicendogli che sarebbe in prima linea se fosse una guerra senza sangue e squartamenti.

Here’s to the state of Mississipi ci conduce alla chiusura del disco, essa nasce come una satira nei confronti dello stato del sud e della sua popolazione, calcando la mano sui comportamenti vessatori dei Mississipini. Successivamente, questa canzone, ritornerà in auge per il riadattamento sempre dello stesso cantautore in Here’s to the State of Richard Nixon e più recentemente per una scrittura a 4 mani di Eddie Vedder e Tim Robbins (Here’s to the state of the Judges).

Ciò che balza all’orecchio è la completezza di un disco che talvolta con melodie allegre, testi sarcastici e cronistici, riesce ad illustrare il paradigma del paese che vorrebbe esaltandone i difetti senza peli sulla lingua. Un reporter apprezzato immensamente dai suoi colleghi del Village, vittima di una competitività troppo accesa con un Dylan che ne ha smorzato la carriera (nonostante le numerose incomprensioni, la situazione tra i due si è grosso modo sistemata negli anni successivi)