Claudio Lolli – Ho Visto Anche Degli Zingari Felici

  • “Chi popola i tuoi incubi? “

Lolli:”Allora io da molti anni ho questa ossessione, questa paranoia della demagogia fascistoide. Siccome lentamente, lentamente, lentamente sta arrivando io mi spavento molto. Vent’anni fa vi parlavo, riferendomi alla socialdemocrazia, di Germania. E poi c’è stato Cossiga, BerlusconiDi Pietro. Di lì al fascismo c’è un passo…. Occorre essere attenti.” 

Era il 1999 e Claudio Lolli rispondeva così in seguito ad un concerto di beneficienza per il Guatemala. Ha potuto vivere le prime settimane del governo giallo-verde e probabilmente i fantasmi che aleggiavano al termine dello scorso secolo stavano montando ossa e carne per divenire concreti ai giorni nostri. 

Questo è l’album della svolta musicale di Lolli, che affiancato da alcuni elementi del Collettivo Autonomo musicisti di Bologna offre un taglio differente al disco, leggermente più complesso, vestendolo di un jazz che avvicina alcune soluzioni armoniche ad un approccio canterburino. Il titolo dell’album invece è un omaggio al film del 1967 di Aleksandar Petrović Ho Incontrato Anche Zingari Felici

Nel contenuto invece, questo quarto album si differenzia rispetto ai precedenti per la funzione di cronaca che svolge del circondario. 

“Riprendiamoci la terra, la luna e l’abbondanza”, è un incitamento che Lolli lancia a tutti noi, l’invito a risvegliare la coscienza. Gli Zingari sono i senza fissa dimora, che sia fisica o intellettuale ha poco conto, gli strascichi del ‘68 danno vita ai movimenti della controcultura, un underground che vede a Bologna la propria camera magmatica, gli Zingari sono proprio questi ragazzi irrequieti, che tra mille difficoltà, incomprensioni danno vita a uno delle azioni culturali più importanti del dopoguerra. Ho Visto Anche Degli Zingari Felici è la title-track che apre e chiude il disco, in principio un unicum che però viene diviso per consentire una continuità per tutta la durata del disco.  

Con questa decisione, Ho Visto Anche Degli Zingari Felici, assume così il ruolo di concept, uno dei primi sfornati da cantautori in Italia, ma soprattutto è un inno che assume un significato ben preciso nella corrente situazione sociopolitica che investe l’Italia: ritrovare i legami, il senso di comunità, non assecondare col silenzio, non chinare il capo ma usare la forza della ragione di fronte agli isterismi, per quanto complicato possa essere. 

Questo disco fotografa quelli che sono stati gli “Anni di Pongo”, nonostante gli attentati che hanno messo in ginocchio lo stivale, anche Lolli condivide l’affermazione di Freak Antoni, ovvero che la situazione generale non era così disastrata come viene raccontata oggi. Certo le Brigate Rosse e Nere hanno dato vita a un susseguirsi di crimini efferati, e questo album ha accollato un’altra etichetta a Lolli, quella di brigatista, quando invece Ho Visto Anche Degli Zingari Felici è un affresco delle situazioni – a tratti – incomprensibili in cui versa la popolazione. In balia delle onde formatesi in un catino agitato da pochi soggetti.  

Agosto descrive l’attentato dinamitardo dell’Ordine Nero all’Italicus, che ha provocato 12 morti, andando poi a raccontare in Piazza Bella Piazza il funerale di stato di 10 delle 12 vittime ai quali partecipò anche il Presidente della Repubblica Giovanni Leone e Amintore Fanfani suscitando lo sconcerto dei reazionari. Ma i riferimenti alla società politica naturalmente non si esauriscono qui, Primo Maggio di Festa non trascura il Vietnam e Albana Per Togliatti che si presenta come un momento utopico di euforia nel quale le divisioni all’interno della sinistra italiana sono appianate. La Morte Della Mosca presenta invece la riflessione sulla volatilità della vita umana, un parallelismo sull’inefficacia della lotta individuale, quell’errore nel farsi guerra tra i poveri, insita nella condizione umana e per questo autolesionista. 

In tal senso è anche interessante la riflessione che Lolli espone nel 2010, riguardo la progressiva scomparsa della musica di protesta, che ha coinvolto in maniera trasversale autori ed interpreti di spessore come Jannacci, Guccini, Gaber, De Gregori, De André, Finardi (solo per citarne alcuni). 

“Il mondo è cambiato. Noi avevamo degli obbiettivi, dei nemici, molto dichiarati, aperti e riconoscibili. Poteva non essere difficili schierarsi. Oggi c’è nebbia, non sai bene chi sia il nemico, né se eventualmente esista. È molto più difficile usare la musica come mezzo politico. Nessuno sa più di che cosa si sta parlando. Potresti scrivere una canzone contro Bush? Chi cazzo è?” 

La presenza di Claudio Lolli ci mancherà, non tanto per le sue canzoni, quelle restano, quanto per la sua capacità di essere una guida integra, diretta, capace di avere delle convinzioni spigolose ma che gli hanno consentito di dire ciò che voleva dire quando era necessario dirlo. 

Si ringraziano personesilenziose.it e La BrigataLolli (bielle.it) dai quali ho recuperato stralci di intervista.

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Creedence Clearwater Revival – Cosmo’s Factory

CCR - Cosmo's Factory

Oggi è con immenso piacere che scrivo dei CCR, meglio conosciuti come il Credito Cooperativo Romagnolo (o Romano, o di Recanati… va be, a seconda di dove vi troviate scegliete la città che inizia con la R più vicina a voi). Il CCR è riuscito negli anni ad offrire dei tassi vantaggiosi per investimenti a breve termine. Ok dopo aver scritto ste cazzate, cominciamo a parlare dei Credenzoni, che vedono in John Fogerty il leader incontrastato della band (il leader è grande, il leader è bello) e in Cosmo’s Factory lo zenith della loro fulgida carriera.

Cosmo’s Factory (il magazzino di Cosmo… non il Fantagenitore) deve il suo nome al magazzino nel quale i Creedence erano soliti provare durante l’inizio della propria carriera. Questo titolo ha creato anche dei siparietti curiosi considerato che il soprannome di Doug Clifford (il batterista dei CCR per chi non lo sapesse) è proprio Cosmo.

Di Cosmo’s Factory mi torna in mente sempre quella copertina sgangherata, scattata da Bob Fogerty – fratello di John e Tom – dove i 4 CCR si trastullano durante un attimo di pausa, mentre vengono immortalati in un’immagine leggendaria dove sembrano tutto fuorché delle star al quinto album. Già… il quinto, forse il più grande, sicuramente il più memorabile tra i fan e non.

La sapiente struttura del disco presenta sia brani che saranno ricordati come classici, che grandi classici sistemati su misura. La scelta delle cover non è inusuale per i Creedence, da Suzie Q e Put A Spell On You – presenti nel primo omonimo disco – c’è sempre stato almeno un brano di altri artisti nelle successive uscite discografiche, fino a Before You Accuse Me (Bo Diddley), Ooby Dooby (scritta per Roy Orbison), My Baby Left Me (di Cudrup e resa famosa successivamente da Elvis) ed I Heard It Through The Grapevine (resa celebre da Marvin Gaye).

Ora 4 brani su 11, sono di altri artisti. Perché allora Cosmo’s Factory riceve tutti questi complimentoni? Voglio dire, posso capire una cover, massimo due. Ma quattro…  il problema è che gli altri sette brani, quelli scritti dal pugno di John, sono esplosivi e giustificano una presenza così massiccia di canzoni extra CCR.

Prendiamo un brano simbolo delle Credenzone, Who’ll Stop The Rain che nasce a Woodstock, quando John Fogerty intento a suonare con i CCR vede il pubblico – parliamo di mezzo milione di persone – completamente zuppo di pioggia e fango cominciare a denudarsi completamente. Ispirato da cotanta nudità, torna a casa e scrive Who’ll Stop The Rain, quindi al contrario di quanto si pensasse in passato non è una canzone con riferimenti al Vietnam o a qualsiasi tipo di guerra, come invece è Run Through The Jungle.

Ecco sì… quel capolavoro di Run Through The Jungle – tra l’altro – è la canzone preferita da fratellone Tom Fogerty “è come un piccolo film, con tutti quegli effetti sonori. Non cambia mai di chiave musicale, ma resta sempre incollato per tutto il tempo. È il sogno di tutti i musicisti. Non cambia mai la chiave ma hai l’illusione che lo faccia.”

Per non parlare dell’apertura con la jam di Ramble Tamble, Travelin’ Band (che si ispira al miglior Little Richards), di Up Around The Band o Lookin’ Out My Back Door. A proposito di quest’ultima, gli scienziati dell’analisi del testo credevano parlasse di droga, mentre il buon John l’ha scritta per il figlio di 3 anni. Evabbè.

Senza che ve la meno ulteriormente, Cosmo’s va veloce, è potente e si spinge oltre: è una fabbrica da hit. Le forti tensioni interne esasperate da un John Fogerty vessatorio contro tutti – e soprattutto verso il fratello maggiore – vengono mascherate da un disco coeso e sapientemente costruito.

Phil Ochs – I Ain’t Marching Anymore

Phil Ochs - I Ain't Marching Anymore.jpg

Ho sempre pensato a Phil Ochs come a un Luigi Tenco a stelle e strisce, non tanto per le canzoni che hanno approcci opposti, quanto per l’affinità delle carriere e del destino che ha imposto loro un finale che non avrebbero meritato.

Phil Ochs a mio avviso è stato uno dei più grandi cantautori americani, nulla da invidiare a Bob Dylan – suo amico-nemico (come Red e Toby) – prima fonte di ispirazione e successivamente poeta da rincorrere nel gotha degli intellettuali d’oltreoceano.

Se Dylan è la spocchia maestosa, borghese e algida della rivoluzione sociale, Phil Ochs è la voce del terzo stato, potente e delicata, verace quanto basta per renderlo uno dei principali autori del Greenwich Village.

Figlio del popolo; una rabbia gentile avvolta dalla voce calda e dallo sguardo guascone e bonario del cantante.

I Ain’t Marching Anymore è un grido rivolto all’attitudine militaristica degli Stati Uniti, una protesta contro ogni tributo di sangue che storicamente l’America ha preteso dalla sua gente.

La canzone comincia con una progressione rapida e rabbiosa di note, una proiezione dei colpi di fucile sparati da Ochs nei confronti di un paese che non sente più suo. La panoramica che Phil Ochs offre è impietosa e stupefacente, con fare da cronista navigato analizza la breve vita del suo paese, punto per punto, mettendo a nudo la necessità di ricorrere alla violenza per ogni situazione.

* pippone storico 

Si comincia citando la “battaglia inutile”di New Orleans, tra inglesi e americani, ove la notizia della pace siglata con il trattato di Gand non è giunta in tempo per fermare lo spargimento di sangue, si prosegue così con la disfatta di Little Bighorn, dove tutto il settimo reggimento insieme a Custurd viene spazzato via. Dopo le battaglie coi pellerossa, si passa all’espropriazione dei territori messicani.

Ma quando i nemici si esauriscono fuori dal proprio giardino, è necessario crearli all’interno delle quattro mura domestiche… quindi giù di guerra civile: il conflitto fratricida tra nord e sud. E poi, la decisione di intervenire nelle “trincee tedesche” per combattere una guerra che avrebbe posto fine a tutte le altre. Naturalmente così non è stato, considerato che i cieli giapponesi sono stati attraversati dagli ammerigani e con una delle più grandi dimostrazioni di forza il resto del mondo è stato annichilito.

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Dopo questa breve e noiosa lezione di storia contemporanea, quello che riassume il pensiero di Ochs, è il ritornello col quale punta il dito verso chi governa: “Sono sempre i vecchi a guidarci verso la guerra, sono sempre i giovani a cadere”.

E’ palese come Phil sia riuscito a raccogliere a piene mani l’eredità di Woodie Guthrie e Pete Seeger incarnando lo spirito socialista e rivoluzionario, che sempre più forte si farà sentire nel 1968. Tutto il leit motiv del disco e della gran parte della carriera del cantautore è incentrata sulla protesta, per questo è stato creato anche un dossier nei suoi confronti da parte dell’efbiai, bollato come sovversivo, chiamato a volte Oachs, colpevole di aver compiuto “nefandezze” anche dopo la morte (scoperta successivamente dai federali).

Non solo il braccio della legge, anche la gente lo ha eletto come uno dei leader della controcultura, tant’è che Draft Dodger Rag è diventata l’inno dei movimenti contro la guerra in Vietnam. La canzone ha preso forma quando il coinvolgimento dei magna-cake in Vietnam si è fatto sempre più concreto. Ochs si immedesima in un ragazzo di 18 anni chiamato alle armi che elenca una serie di scuse (degne di un adolescente in pubertà che non vuole andare a scuola) per i quali non dovrebbe servire, quali ad esempio: una vista da pipistrello; l’asma in continuo peggioramento; piedi piatti; ernia del disco; milza spappolata; allergia ai fiori e agli insetti.

Il ragazzo cerca di allisciare il sergente come Alvaro Vitali con la propria maestra nei film di Pierino, dimostrandogli quanto tenga al proprio paese dicendogli che sarebbe in prima linea se fosse una guerra senza sangue e squartamenti.

Here’s to the state of Mississipi ci conduce alla chiusura del disco, essa nasce come una satira nei confronti dello stato del sud e della sua popolazione, calcando la mano sui comportamenti vessatori dei Mississipini. Successivamente, questa canzone, ritornerà in auge per il riadattamento sempre dello stesso cantautore in Here’s to the State of Richard Nixon e più recentemente per una scrittura a 4 mani di Eddie Vedder e Tim Robbins (Here’s to the state of the Judges).

Ciò che balza all’orecchio è la completezza di un disco che talvolta con melodie allegre, testi sarcastici e cronistici, riesce ad illustrare il paradigma del paese che vorrebbe esaltandone i difetti senza peli sulla lingua. Un reporter apprezzato immensamente dai suoi colleghi del Village, vittima di una competitività troppo accesa con un Dylan che ne ha smorzato la carriera (nonostante le numerose incomprensioni, la situazione tra i due si è grosso modo sistemata negli anni successivi)

The Stooges – Raw Power

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Ferocia e caos, le radici del punk.

Questa è l’opinione di David Bowie riguardo Raw Power, disco da lui mixato e prodotto nel 1973, dopo Transformer l’allora Ziggy Stardust decide di aiutare un altro suo amico, convincendolo a rimettere assieme i The Stooges – dopo Fun House – ed ottenendo per lui un contratto discografico, a patto che inserisse nel disco due ballate che poi tanto ballate mica sono eh (Gimme Danger e I Need Somebody). L’accordo che Iggy ha invece con la casa discografica è quello di avere Bowie al mixaggio, fatta esclusione per Search and Destroy (che passa ugualmente sotto le mani di Bauli) – brano d’apertura del disco.

Il punk qui dentro c’è eccome, non può essere definito in altro modo questo coacervo di suoni triturati.

” […] la situazione più assurda ce l’ho avuta quando ho registrato per la prima volta con Iggy Pop. Mi voleva a mixare Raw Power, così ha portato un mixer a 24 tracce e lo ha montato. Lui aveva una traccia, la chitarra solista un’altra e il resto della band un’altra ancora [i fratelli Asheton alla batteria e al basso NdR]. Su 24 piste solo 3 erano in uso. Lui mi fa ‘guarda cosa puoi fare con questo’. Risposi ‘Jim non c’è niente da mixare’. Così aggiustavo la voce su e giù continuamente. Questa situazione si è presentata in 4 canzoni su 5. Il sound che caratterizza il disco è particolare perché l’unica cosa che potevamo fare era far uscire la chitarra solista e farla rientrare.” Bowie comincia a fare seriamente i conti con lo sfascione che lo condurrà alla Trilogia Berlinese.

L’apertura è con il botto, cattiva e potente, il titolo Search And Destroy deriva da un articolo di una colonna del Time riguardante la guerra del Vietnam; è l’ordine specifico dato ai caccia militari con fine ultimo la distruzione dei covi vietcong e delle piantagioni di troche pesanti (che tanto piacevano a Iggy).

Nella title-track, come lo starter in una pista d’atletica adopera la pistola per sancire l’inizio della gara, Iggy rutta sul microfono lanciando la canzone – e lasciandoci intendere che non ha digerito la peperonata. La canzone è una parodia sguaiata del rock ‘n’ roll originale – quello di Jerry Lee Lewis per intenderci – con la solita nota al piano che sbatte in maniera vertiginosa (suonata da Bowie), un rito atto a distruggere le origini masticandole, rendendole un bolo e ri-vomitandole in forma primordiale sul pubblico. Chi è Johnny Rotten ragazzi?

Ogni canzone è una storia a sè: le radici rock e l’ispirazione glam sono la molla che caricano Iggy Pop, rispetto a Fun House il ritmo è dissoluto e non solamente caos; i testi diventano più espliciti e diretti, il cantato di Pop si fa ansante, orgasmico, volgare e sguaiato, un’iperbole del glam. La volontà è di cercare di rendere più appetibili commercialmente i The Stooges ma il progetto naufraga miseramente. Iggy dal canto suo nei tre anni di sosta non si è certo risparmiato continuando a drogarsi come se non ci fosse un domani e ritornando a farlo una volta scioltisi i The Stooges con Raw Power.

Anche in questo caso, la foto in copertina è stata scattata da Mick Rock… coincidenze? 🙂

King Crimson – In The Court Of The Crimson King

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1194, siamo nella piazza di Jesi, nella Marca Anconitana, e viene montato in fretta e furia un tendone in mezzo al quale viene condotta Costanza d’Altavilla. Ella partorì davanti al popolo l’Imperatore del Sacro Romano Impero, Federico II, uno dei sovrani più illuminati della storia: eclettico, estremamente colto e capace di parlare correntemente 6 lingue facendo da traino per l’avanzamento culturale – anticipando di fatto il Rinascimento – in un mondo oscuro come il medioevo.

Osannato da chi gli era vicino, denigrato da chi gli era nemico, gettò le basi della società laica e per questo si guadagnò il titolo di Re Cremisi (il colore del diavolo) perché in aperto contrasto con i dettami di una chiesa più temporale che spirituale – tanto da ottenere la scomunica da Onofrio III.

Federico II è il Simbolo nel senso originale e radicale del termine – colui che unifica – capace di coniugare in modo sapiente le origini gettando uno sguardo lungimirante al futuro riuscendo ad unire oriente ed occidente – condividendo i dettami di Averroè e dimostrandosi immune dai preconcetti diffusi dalle crociate – divenendo così il simbolo di una nuova era (un po’ come Griffith in Berserk, per chi lo seguisse), tra mitologia ed alchimia. Averroè credeva nella Kabbalah – come già evidenziato in Station to Station – si può riassumere nella ricerca di trovare, attraverso la differenza, il Simbolo.

La vicinanza di Federico II ad artisti, filosofi, astrologi, alchimisti, cantori e così via, ci viene raccontata dai King Crimson nella title-track. O meglio questa è l’idea e l’interpretazione che Jon Green ci da, di un parallelismo molto credibile che vi riporto in maniera più o meno fedele (ed è difficile sostenere che non calzi a pennello). Così come la visione di un futuro devastato e messo nero su bianco da Sinfield – con delle frasi sconnesse, metafore immaginifiche – in 21st Century Schizoid Man. La canzone fa espressi riferimenti alla guerra del Vietnam (in senso lato all’orrore della guerra) e alla piaga del consumismo eccessivo (che poi è sfociata in un capitalismo corrotto).

Devo essere sincero, mi sono avvicinato tardi a questo disco, spaventato da quel faccione in copertina che mi respingeva nella sua bruttezza grottesca. Impossibile non conoscere quell’immagine angosciante:

Barry Godber non era un pittore, bensì un programmatore. Quel dipinto fu l’unico che fece. Era amico di Peter Sinfield e morì nel 1970 di infarto all’età di 24 anni. Peter ci portò il dipinto negli studi e la band se ne innamorò. […] Il volto all’esterno è l’Uomo schizoide, quella all’interno è il Re Cremisi. Se si copre la faccia sorridente, gli occhi rivelano una tristezza incredibile [nemmeno avevo capito che stesse ridendo Ndr]. Riflette la musica.”

Capire chi è l’Uomo Schizoide, ci permette di arrivare a comprendere il Re Cremisi, due personalità all’interno di una stessa persona. La dicotomia, la diversità e l’unicità, tutti elementi già presentati in precedenza. Alla voce troviamo Greg Lake – l’urlo dell’Uomo Schizoide – che squarcia la canzone assieme alla chitarra di Fripp (che ci fa dono di uno dei soli più belli della storia) e il magistrale sax di Ian McDonald si fondono in un bailamme di suoni incazzati. Sicuramente è un brano che ha ispirato tante band, mescolando il jazz a riff duri, vorticando su un improvvisazione catastrofica capace di evocare gli orrori della guerra.

Fripp – con la sua faccia psicopatica -ci racconta un altro aneddoto riguardante la canzone di apertura del disco:

“Io non sono mai stato impressionato dall’heavy metal. Nessuno all’epoca ci aveva etichettato così. Per me ‘Schizoid’ è la prima canzone heavy metal, il suono del sassofono che passa dall’amplificatore Marshall… Come per Michael Giles, era un batterista straordinario. Nessun batterista avrebbe potuto raggiungerlo nel ’69”