Phil Ochs – I Ain’t Marching Anymore

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Ho sempre pensato a Phil Ochs come a un Luigi Tenco a stelle e strisce, non tanto per le canzoni che hanno approcci opposti, quanto per l’affinità delle carriere e del destino che ha imposto loro un finale che non avrebbero meritato.

Phil Ochs a mio avviso è stato uno dei più grandi cantautori americani, nulla da invidiare a Bob Dylan – suo amico-nemico (come Red e Toby) – prima fonte di ispirazione e successivamente poeta da rincorrere nel gotha degli intellettuali d’oltreoceano.

Se Dylan è la spocchia maestosa, borghese e algida della rivoluzione sociale, Phil Ochs è la voce del terzo stato, potente e delicata, verace quanto basta per renderlo uno dei principali autori del Greenwich Village.

Figlio del popolo; una rabbia gentile avvolta dalla voce calda e dallo sguardo guascone e bonario del cantante.

I Ain’t Marching Anymore è un grido rivolto all’attitudine militaristica degli Stati Uniti, una protesta contro ogni tributo di sangue che storicamente l’America ha preteso dalla sua gente.

La canzone comincia con una progressione rapida e rabbiosa di note, una proiezione dei colpi di fucile sparati da Ochs nei confronti di un paese che non sente più suo. La panoramica che Phil Ochs offre è impietosa e stupefacente, con fare da cronista navigato analizza la breve vita del suo paese, punto per punto, mettendo a nudo la necessità di ricorrere alla violenza per ogni situazione.

* pippone storico 

Si comincia citando la “battaglia inutile”di New Orleans, tra inglesi e americani, ove la notizia della pace siglata con il trattato di Gand non è giunta in tempo per fermare lo spargimento di sangue, si prosegue così con la disfatta di Little Bighorn, dove tutto il settimo reggimento insieme a Custurd viene spazzato via. Dopo le battaglie coi pellerossa, si passa all’espropriazione dei territori messicani.

Ma quando i nemici si esauriscono fuori dal proprio giardino, è necessario crearli all’interno delle quattro mura domestiche… quindi giù di guerra civile: il conflitto fratricida tra nord e sud. E poi, la decisione di intervenire nelle “trincee tedesche” per combattere una guerra che avrebbe posto fine a tutte le altre. Naturalmente così non è stato, considerato che i cieli giapponesi sono stati attraversati dagli ammerigani e con una delle più grandi dimostrazioni di forza il resto del mondo è stato annichilito.

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Dopo questa breve e noiosa lezione di storia contemporanea, quello che riassume il pensiero di Ochs, è il ritornello col quale punta il dito verso chi governa: “Sono sempre i vecchi a guidarci verso la guerra, sono sempre i giovani a cadere”.

E’ palese come Phil sia riuscito a raccogliere a piene mani l’eredità di Woodie Guthrie e Pete Seeger incarnando lo spirito socialista e rivoluzionario, che sempre più forte si farà sentire nel 1968. Tutto il leit motiv del disco e della gran parte della carriera del cantautore è incentrata sulla protesta, per questo è stato creato anche un dossier nei suoi confronti da parte dell’efbiai, bollato come sovversivo, chiamato a volte Oachs, colpevole di aver compiuto “nefandezze” anche dopo la morte (scoperta successivamente dai federali).

Non solo il braccio della legge, anche la gente lo ha eletto come uno dei leader della controcultura, tant’è che Draft Dodger Rag è diventata l’inno dei movimenti contro la guerra in Vietnam. La canzone ha preso forma quando il coinvolgimento dei magna-cake in Vietnam si è fatto sempre più concreto. Ochs si immedesima in un ragazzo di 18 anni chiamato alle armi che elenca una serie di scuse (degne di un adolescente in pubertà che non vuole andare a scuola) per i quali non dovrebbe servire, quali ad esempio: una vista da pipistrello; l’asma in continuo peggioramento; piedi piatti; ernia del disco; milza spappolata; allergia ai fiori e agli insetti.

Il ragazzo cerca di allisciare il sergente come Alvaro Vitali con la propria maestra nei film di Pierino, dimostrandogli quanto tenga al proprio paese dicendogli che sarebbe in prima linea se fosse una guerra senza sangue e squartamenti.

Here’s to the state of Mississipi ci conduce alla chiusura del disco, essa nasce come una satira nei confronti dello stato del sud e della sua popolazione, calcando la mano sui comportamenti vessatori dei Mississipini. Successivamente, questa canzone, ritornerà in auge per il riadattamento sempre dello stesso cantautore in Here’s to the State of Richard Nixon e più recentemente per una scrittura a 4 mani di Eddie Vedder e Tim Robbins (Here’s to the state of the Judges).

Ciò che balza all’orecchio è la completezza di un disco che talvolta con melodie allegre, testi sarcastici e cronistici, riesce ad illustrare il paradigma del paese che vorrebbe esaltandone i difetti senza peli sulla lingua. Un reporter apprezzato immensamente dai suoi colleghi del Village, vittima di una competitività troppo accesa con un Dylan che ne ha smorzato la carriera (nonostante le numerose incomprensioni, la situazione tra i due si è grosso modo sistemata negli anni successivi)

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Pearl Jam – Ten

Pearl Jam - Ten

Il fu Mookye Blaylock, giocatore di punta della NBA a cavallo tra gli ’80 e i ’90, il suo nome forse non suggerisce nulla, ma a chi ha nel cuore i sopravvissuti del grunge, non può non ricordare il disco d’esordio dei Pearl Jam. Mookye Blaylock è il nome originale della band, ma per questioni di appeal e di licensing, l’etichetta discografica ha imposto la scelta di un nome più d’impatto.

Pearl viene in mente ad Ament non si sa per quale cazzo di motivo, ma è così; Jam invece è il suffisso che cade dalle nuvole durante un concerto di Neil Young al quale assisterono i futuri Pearl Jam. Nèllo in uno dei suoi magic solo di 20 minuti da lo spunto per completare il nome ai pischelletti di Seattle. Ten è il numero di maglia di Mookye Blaylock, che viene ricordato in questo modo vista l’impossibilità di mantenere il nome per la band.

Neil Young e Pearl Jam – una relazione a doppio filo – si definiscono zio e nipoti nemmeno troppo ironicamente come conferma Vedder: “abbiamo appreso tanto da zio Neil, ci ha adottati come nipoti e ci ha insegnato un sacco di cose belle a tanti livelli. Sulla musica, sull’umanità, entrambe le cose semplicemente guardandolo, ascoltando cosa avesse da dire o conversandoci”… questa è un’altra storia romantica che approfondiremo a tempo debito.

What the fuck is the world running to?” è il rantolo di Vedder con il quale accende Porch, il termometro con il quale è possibile misurare lo spirito dei Pearl Jam in questo periodo. Difatti Ten è il culmine di una varietà di percorsi al limite della rassegnazione, del fallimento e della vita mediocre, senza il rispetto delle aspettative che ogni singolo membro della band si è prefigurato. Il grunge essendo un movimento sociale oltre che musicale – ed essendo ben radicato nella scena della Emerald City – non può discostarsi troppo dalle vite di McCready, Vedder, Krusen, Gossard e Ament, che fin qui hanno avuto risvolti decisamente drammatici.

Gossard ed Ament sono reduci dei Green River, sopravvissuti alla morte di Andrew Wood, leader dei Mother Love Bone (percorso musicale successivo a Green River). Imperterriti decidono di convogliare le loro energie mentali verso il nuovo progetto, Pearl Jam.

La band comincia a prendere forma, pezzo dopo pezzo… finalmente gli anni di sacrifici e la perseveranza cominciano a pagare dazio. I primi brani prendono vita negli scantinati e registrati in musicassette.

L’amalgama c’è, chi manca è l’interprete e chi metta nero su bianco i testi.  Una demo tape di 5 brani viene registrata in delle sessioni alle quali prende parte Matt Cameron – batterista dei Soundgarden e attuale batterista dei Pearl Jam. La demo viene consegnata a Jack Irons (futuro batterista dei PJ, nonché frequentatore dei vari Gossard, Ament e McCready) che a sua volta la fa pervenire ad un suo amico che di mestiere fa il benzinaio a San Diego. Il tizio in questione è Eddie Vedder. Se fosse stato studiato a tavolino questo gioco d’intrecci non sarebbe mai stato possibile.

Eddie è un ragazzo con un passato tribolato e caso vuole che sia in possesso di quella sana punta di depressione necessaria ai Pearl Jam, scrive i testi per 3 brani della demo tape (Once, Alive & Footstep), registra la voce sopra i tre brani e rimanda la cassetta – ribattezzata Momma-Son – a Seattle. Arrivato nella Emerald City i ragazzi hanno modo di conoscersi e cominciano a provare e continuare a lavorare sui brani presenti nella demo, così Vedder scrive su due piedi il testo per la E Ballad (la ballata in Mi) che prenderà il nome di Black.

Una volta stabilita la formazione base, comincia anche il teatrino dei batteristi: Krusen molla a due mesi dall’ingresso in studio di registrazione per andare in riabilitazione; subentra Chamberlain che dopo un tot di concerti molla per andare al SNL; nell’andarsene suggerisce di chiamare Dave Abbruzzese che rimarrà in pianta stabile fino al 1994, quando verrà sostituito proprio da Irons.

Ten non racconta unicamente i disagi interiori vissuti dai Pearl Jam, ma anche fatti di cronaca trasposti in musica e canzone da Ament e Vedder con Jeremy. La storia di un ragazzino texano di 15 che davanti alla propria classe si spara un colpo di pistola alla testa. La canzone denuncia l’amarezza di una scelta decisamente drastica e cerca di trasmettere la necessità di riscattarsi negli anni con le proprie forze senza piegarsi alle bastonate che la vita ti da. All’origine del brano – racconta Vedder – che non vi è solamente la storia del Jeremy texano, bensì anche la storia di un ragazzino compagno di classe di Eddie che ha dato vita ad un dramma simile, rivolgendo la frustrazione verso terzi.

Non ho intenzione di dilungarmi sul senso di ogni canzone, ma su quello DELLA CANZONE per eccellenza sì. Mi limito prima a concludere con una considerazione: questo album oltre ad essere un grande disco d’esordio, è una perfetta alchimia tra brani, sentimenti e capacità di tutti i creatori del disco. Darà il là alla grande epopea dei Pearl Jam e riuscirà a farsi largo nel mercato garantendo una credibilità che i Pearl Jam hanno consolidato sempre più negli anni.

Il simbolo dei Pearl Jam, il simbolo di Vedder è Alive e mi piace chiudere con le sue parole che spiegano in poche righe ciò che erano e ciò che sono ora i Pearl Jam:

“Questa è una piccola storia che mi piace chiamare ‘la maledizione’, è una canzone che proviene da Ten e che abbiamo suonato centinaia di volte dal vivo, e si è trasformata negli anni non per la forma o per gli arrangiamenti, bensì per l’interpretazione. La storia originale della canzone racconta di un ragazzo che viene a scoprire delle scioccanti verità… la prima è che l’uomo che credeva essere suo padre – e lo aveva cresciuto – non lo era… la seconda dura verità è che il vero padre era venuto a mancare da pochi anni. Come se per un adolescente non fosse abbastanza, quando la madre racconta tutto ciò al figlio, una forte instabilità emotiva e confusione lo avevano colpito. Lo so, perché conosco quel ragazzo. Ero io. Ricevere i segreti che si suppone dovessi perdonare, ma al tempo stesso essere ancora vivi e dover convivere con questo. Era una ‘maledizione’ essere ancora vivo. Nel corso degli anni, la canzone ha raggiunto un pubblico molto più ampio che ha cantato in massa durante i concerti ‘I’m Still Alive‘. Perciò ogni volta che vedevo queste persone darne una interpretazione positiva, per me è stato incredibile. Il pubblico ha cambiato il significato di queste parole. Quando cantano ‘I’m Still Alive‘ è una celebrazione. Quando hanno cambiato il significato di queste parole, hanno rotto ‘la maledizione'”.

Bruce Springsteen – Nebraska

Bruce Springsteen - Nebraska

Springsteen incasella una nuova pietra nel selciato della leggenda musicale e lo fa nel modo più anticonvenzionale. Dopo aver consolidato il proprio stile – ed aver presentato un’opera omnia con The River  – fa una scelta in controtendenza, si torna alle radici, non solo le proprie (con Guthrie e Seeger come influenze principali), soprattutto nelle radici dell’America del ‘900, quell’America descritta minuziosamente da Steinbeck nelle proprie opere. Steinbeck e Springsteen, l’ispirazione è palese – tanto da registrare The Ghost of Tom Joad nel 1994 – e il boss sembra ricreare e mettere in musica quelle atmosfere rurali descritte da Steinbeck.

Bruce tira fuori il suo lato più scuro in questo album, apparendo rispetto al passato a tratti senza speranza ed inducendo molti a pensare che il disco fosse stato concepito in un periodo di depressione.

Il fascino di Nebraska è direttamente proporzionale alla leggenda che accompagna la nascita dell’album: demo sparse su un Portastudio (un registratore portatile a 4 tracce sulle quali era possibile registrare direttamente su musicassetta) destinate alla E-street band. La E-street band non è stata capace di riprodurre le sonorità e le sensazioni genuine e caserecce di cui sono pregne le tracce registrate, il tutto viene complicato dal volume di registrazione troppo basso che non consente un intervento all’altezza da parte della band. Nebraska vede la luce come è nato, con delle demo.

“Stavo facendo canzoni per il prossimo album rock, e ho pensato che ciò che mi ha tenuto sempre per lunghi periodi in studio è stata la scrittura. Sarei stato lì, e non avrei avuto abbastanza materiale scritto o qualitativamente decente, perciò avrei registrato per un mese, fatto un paio di canzoni, sarei tornato a casa per scrivere ancora e avrei registrato un altro mese… insomma non sarebbe stato il massimo. Perciò questa volta ho preso un piccolo registratore a 4 tracce, e mi sono detto ‘registrerò queste canzoni, e se mi sembreranno buone le terrò e le porterò alla band‘. Potevo cantare e suonare la chitarra, le altre due tracce le avrei tenute per sovraincisioni di chitarra o per l’armonica. Sarebbe stata solo una demo. Avevo con me un piccolo Echoplex che mi ha aiutato a mixare il tutto. E fu il nastro che divenne disco. Fu fantastico perché mi portai la cassetta praticamente ovunque per qualche settimana, senza alcuna custodia. Fin quando ho realizzato ‘Oh! Ecco l’album!’.”

La title track è una murder ballad – così come Jhonny 99 – nella quale Springsteen canta in prima persona le vicende di Charles Starkweather che nel 1958 si macchiò dell’omicidio di 11 persone nel giro di 8 giorni. L’ispirazione per questa canzone venne direttamente dal film La Rabbia Giovane di Terence Malick, con protagonista un giovane Martin Sheen. Bruce si è documentato profondamente sulla storia di Starkweather, concedendosi però una licenza poetica marcata… nonostante ciò la maggiorparte della canzone tiene conto di eventi realmente accaduti.

A Nebraska fa seguito Atlantic City, probabilmente la canzone più conosciuta proveniente da questo album.  Atlantic City racconta una storia d’amore con nello sfondo le vicende mafiose che attanagliano la Filadelfia di quel periodo, citando nello specifico anche l’assassinio del boss mafioso Phil Testa eliminato – da una dose massiccia di esplosivo che ha fatto saltare in aria la sua casa – durante la cosiddetta Mafia War. Da questa canzone è tratto il primo videoclip di Springsteen, girato in un giorno con una camera car.

Nebraska è quindi essenza americana, cantautorato puro, un modo di raccontare le storie che Springsteen riporta in auge con naturalità. Possiamo definire Nebraska il progenitore di Into The Wild di Eddie Vedder per la ricerca di un sound viscerale e senza sovrastrutture, meno sicuramente per le tematiche trattate. Per questo motivo è errato giudicare e liquidare l’album come folk, sarebbe ingeneroso e al tempo stesso vorrebbe dire non aver compreso Nebraska.

Questo album è essenza pura e ce lo fa capire lo stesso Springsteen con queste parole: “State Trooper è il genere di cose che fanno i Suicide con sintetizzatore e voce”

Pearl Jam – No Code

Pearl Jam - No Code

No Code è uno degli album di protesta sociale più significativo degli anni ’90, in quanto concepito durante il transito della band presso la Salerno-Reggio Calabria.

La quarta fatica targata Pearl Jam non soddisfa a pieno lo zoccolo duro dei fan – così come per i Soundgarden – incapace di accettare la morte del Grunge.

Eppure la band – che sapientemente ha saputo vestirsi di nuovi abiti già con Vitalogy – dimostra un ulteriore passo verso quella maturazione artistica che ne garantirà la longevità.

Il processo creativo di No Code è stato più che tortuoso; le sessioni di registrazione ed il tour procedevano di pari passo, nel mentre le acrimonie tra i membri stavano accrescendo, così come la quantità di lavoro pro-capite. Il paciere in questo caso ha il nome di Jack Irons – ex batterista dei Red Hot Chili Peppers e membro dei Pearl Jam dalla fine dell’era Vitalogy – che costrinse i membri al confronto mettendoli faccia a faccia di fronte ai problemi e consentendo la finalizzazione dell’album.

No Code affronta temi quali la morale, l’esame di coscienza ed i dilemmi spirituali, mettendo su nastro tutto quello che la band ed i suoi membri hanno affrontato e stavano vivendo all’epoca.

Vedder ci spiega anche la vera ragione dietro alla scelta del nome dell’album: “E’ chiamato No Code perché è pieno di codici. E’ disinformazione”; questo messaggio traspare in maniera chiara anche osservando la cover – ricca di polaroid, come a voler comunicare tutto e nulla (tra le quali appare anche l’occhio di Dennis Rodman grande amico dei membri della band). Cambiando prospettiva, e aumentando la distanza, si nota come la disposizione delle istantanee formi un triangolo con un occhio, ovvero il logo di No Code.

La sperimentazione dell’album è relativa, brani come Hail, Hail, Habit e Lukin, non nascondono le origini dei Pearl JamSometimes è prodromica della carriera cantautoriale di Vedder; ma il valore aggiunto del disco è Red Mosquito dove la steel guitar la fa da padrona. E’ una delle canzoni più richieste nei concerti dei Pearl Jam e molto spesso viene eseguita assieme a Ben Harper alla steel guitar.

Durante le sessioni di registrazione del brano, McCready ha il vezzo di utilizzare – come slider – un vecchio Zippo appartenente al padre di Vedder, che lo stesso cantante seppur restio si convince a donargli giorni dopo.

Red Mosquito nasce da un’intossicazione alimentare che costringe Vedder al letto di un ospedale, la sensazione che prova è come se fosse rinchiuso in una stanza con una zanzara che lo tormenta. Quella zanzara è il concerto al Golden Gate Park, dinnanzi a 50mila anime, e sul palco c’è un ospite d’eccezione: Mr. Neil Young.

Vedder abbocca all’amo di zio Neil e lascia in fretta e furia l’ospedale, limitandosi però a cantare solamente 7 canzoni, il resto lo fa Nello, che traghetta – da buon leader – la band per tutto il concerto (sodalizio già rodato nel disco Mirror Ball.)

Temple of The Dog – Temple of The Dog (parte II)

Temple of the Dog - Temple of the Dog

Gossard, Ament e Cornell sono letteralmente devastati dalla morte di Wood. Più volte nel corso degli anni hanno affermato che la morte di Andy (una vera e propria forza della natura costretta impotente, sul letto) li ha privati della loro innocenza, del sentirsi giovani belli e immortali, portandoli ad una riflessione sulle loro vite.

Nel frattempo nella scena di Seattle si affaccia un giovane benzinaio e surfista di San Diego, che fa recapitare una demo tape (con appunto le demo di Once, Alive e Footstep) a Gossard e Ament… il suo nome è Eddie Vedder.

Vedder riesce a colmare – con la sua timidezza, il suo carisma introverso e la sua voce – il vuoto lasciato dalla morte di Wood, fungendo da stimolo per  Cornell che in lui vede una fonte d’ispirazione pari a quella di Andy.

E’ da questa concatenazione di eventi (semplificati all’osso) che nasce il progetto dei Temple of The Dog (nome derivante dalla canzone dei Mother Love Bone Man of Golden Words), un disco tributo a Andy Wood nato per volontà di Cornell (ispirato dalla morte dell’amico ha scritto 2 brani) che contattati Gossard e Ament propone loro di registrare i pezzi da lui ideati per tirarne fuori un singolo. Al gruppo si aggiungono Matt Cameron (batterista dei Soundgarden e successivamente dei Pearl Jam), Mike McCready ed Eddie Vedder.

Dal singolo si è passati alla creazione di un album che ha una vera è propria punta di diamante in Hunger Strike, dove le voci di Vedder e Cornell si incontrano in maniera continuativa fino a sembrare un’unica cosa, sopra ad un arpeggio magnetico e persuasivo. Il videoclip, che come nella maggior parte dei casi negli anni ’90 non ha senso, ci mostra prima Cornell solo in casa, con delle formiche allegre sopra un piatto che gli fanno compagnia… l’immagine switcha sugli membri della superband intenti a suonare il pezzo per tutta la giornata in riva al lago senza amplificatori e microfoni mentre un falò si accende dal nulla e Cornell li raggiunge. Sembra una cagata da come l’ho detto, ed effettivamente lo è… ma è fico lo stesso perciò fanculo l’arte concettuale e la ricerca di un senso forzato ad ogni cosa.

La pecca di questo singolo è stata il mancato successo di Hunger Strike nel breve periodo. Esso, difatti, è stato pubblicato prima dell’esplosione dei Pearl Jam e a livello commerciale questo ha penalizzato le vendite. La ripubblicazione successiva all’uscita di Ten ha fatto impennare gli acquisti, ma purtroppo è costata per un po’ la reputazione di Soundgarden e Pearl Jam accusati di commercializzazione e ruffianeria. Peccato originale del Grunge.

Pearl Jam – Vitalogy

Pearl Jam - Vitalogy

Svolta sperimentale per i Pearl Jam reduci dal doppio successo di Ten e Vs., la terza fatica in studio della band di Seattle è importantissima, non solo perché ci viene consegnato un album di uno spessore artistico eccezionale, ma anche perché dimostra che i Pearl Jam non sono solamente quelli visti nei primi due album, ma musicisti pronti a sperimentare e ad uscire dai propri confini, qualità che gli permetterà in futuro la sopravvivenza ed il mantenimento di un’identità propria mai messa in discussione in più di 20 anni di carriera.

Vitalogy è stato registrato durante il tour di Vs. ed è stato rilasciato prima in vinile (in quanto Eddie Vedder è un feticista dei vinili) e successivamente in CD. Sicuramente il packaging ha influito molto nelle vendite dell’album, l’artwork si rifà totalmente ad un libro medico di inizio ‘900 il Vitalogy che letteralmente significa “studio della vita”, trovato da Eddie Vedder in un mercatino dell’usato. I contenuti del Vitalogy non sono stati importati nel booklet per questioni di copyright, contenuti perciò sostituiti con documenti, schizzi, appunti sul benessere e sulla salute, riflessioni sulla vita e sulla morte, commenti alle canzoni, poemi (come nel caso di Aye Davanita brano strumentale che però nel booklet è presente sotto forma di poema). E’ stata inserita anche una lastra dei denti dello stesso Vedder accanto alla pagina dedicata a Corduroy.

Gli equilibri all’interno della band cominciano a spostarsi, Vedder ha sempre più voce in capitolo nelle scelte della band, ora contribuisce anche come chitarrista, e stranamente, in questo caso, con 3 chitarre presenti vi è una penuria di assoli rispetto ai precedenti lavori. McCready lo definisce per questo motivo un album prettamente “ritmico”.

Questo è l’aspetto che forse lo rende più originale e canzoni come Aye Davanita, Pry, To (il ritornello continuo “P-R-I-V-A-C-Y is priceless to me” è una preghiera che Vedder rivolge ai suoi fan, il grunge essendo esploso come una bomba in mano, in pochi attimi ha portato celebrità a dei ragazzi con una vita normalissima e che volevano solamente esprimere i loro sentimenti rancorosi verso una società incapace di comprenderli, ad esempio Cobain non è riuscito a salvarsi), Bugs (dove Vedder suona la fisarmonica) e Hey Foxymophandlemama, That’s Me (una specie di Revolution 9 degli anni ’90, creata assemblando registrazioni reali di alcuni pazienti di un ospedale psichiatrico) portano a galla la voglia di novità, di slegarsi in parte dal concetto passato di Pearl Jam.

Vedder si sente vulnerabile, i suoi testi vengono travisati da gran parte della gente e ciò lo rende triste e arrabbiato, questa contraddizione lo spinge a scrivere Not For You (un’accusa verso l’industria discografica e la Ticketmaster, una guerra portata avanti dai Pearl Jam per garantire dei concerti ad un prezzo accessibile) e Corduroy (che cerca di esporre la relazione di una persona con milioni di fan).

Poi c’è Betterman (che assieme a Nothingman e Letherman compone il ManTrio) ballata, scritta da Vedder durante le scuole superiori, che parla di una donna intrappolata in una relazione infelice (e come molte canzoni dei Pearl Jam dei primi tempi, è autobiografica).