Fred Neil – Bleecker & MacDougal

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Le origini sono importanti ed è fondamentale essere curiosi, studiare e approfondire la storia, questa ad esempio comincia tra la Bleecker e la MacDougal, due vie che si intersecano in un locale – il San Remo Cafe – rinomato per essere il punto di ritrovo per artisti, scrittori e musicisti. Stiamo parlando del quartiere del Greenwich Village a New York, dove il folk ha trovato nuova linfa e dove soprattutto nasce il secondo disco di Fred Neil: Bleecker & MacDougal.

Neil, nato a Cleveland e cresciuto in Florida, raggiunge New York a metà degli anni ‘50; ha passato la prima parte della propria vita a viaggiare con suo padre – un rifornitore di jukebox e dischi – questo ha contribuito a rendere Fred Neil una enciclopedia vivente capace di riconoscere la maggioranza dei dischi a cavallo tra gli anni ‘40 e ‘50.

La sua formazione musicale nasce da questo, lo stesso Neil ci ricorda i suoi primi passi nel mondo della musica, avvenuti proprio sulla MacDougal e suonando blues in giro per New York: “L’inizio per me è stato 4 anni fa [l’intervista – l’unica rilasciata da Neil in tutta la propria carriera – è datata 1966 ndr] al Cafe Wha? sulla MacDougal. Bobby Dylan, Dino Valente, Lou Gosset e Mark Spoelstra. I comici Godfrey Cambridge, Adam Keefee ed io, lavoravamo insieme al Wha? da almeno un anno. Le cose son venute fuori da quel piccolo sotterraneo, tutte le persone… sono successe così tante cose a tutte queste persone da allora.”

Un’atmosfera elettrica si viveva ad inizio anni ‘60 in quei posti, il generatore di questa elettricità era proprio quel Bobby citato da Fred, vero e proprio catalizzatore per i musicisti coevi. Solitamente alla base del movimento del Greenwich vi è una condivisione artistica basata su una relazione comune ed intensa da parte dei musicisti che assorbono – come per osmosi – le capacità degli altri e dopo si avventurano in ogni dove scrivendo la propria musica in maniera indipendente (scritta così sembra una cosa alla Highlander).

Bleecker & MacDougal è un classico esempio di folk elevato della costa est, un’evoluzione rispetto a Guthrie e Seeger, un qualcosa di più vicino al blues come ad esempio per Sweet Mama, Mississippi Train o Candyman, uno dei suoi brani più celebri, scritto per Roy Orbison nel 1961 ed incluso successivamente in Bleecker & MacDougal. Candyman è il soprannome con il quale gli abitanti degli stati del sud etichettano i papponi.

Il disco ha goduto della partecipazione – tra gli altri – di John Sebastian all’armonica e di Felix Pappalardi – bassista e produttore molto presente nella scena del Greenwich e vicino a tanti degli interpreti di quel mondo – oltre che Paul Rotchild come produttore musicale.

Fred ha un’idea ben precisa di quello che deve essere la propria musica, non necessariamente una hit, bensì qualcosa che assecondi la creatività, non vuole diventare una macchina che butta fuori sempre gli stessi singoli perché “vendono”. Fred non è interessato ai soldi, ha anche rifiutato grandi somme per dei concerti; a lui non importa, lui ha quel chiodo fisso di assecondare la propria essenza artistica, la sua carriera la dice lunga sul tipo che è stato.

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Phil Ochs – I Ain’t Marching Anymore

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Ho sempre pensato a Phil Ochs come a un Luigi Tenco a stelle e strisce, non tanto per le canzoni che hanno approcci opposti, quanto per l’affinità delle carriere e del destino che ha imposto loro un finale che non avrebbero meritato.

Phil Ochs a mio avviso è stato uno dei più grandi cantautori americani, nulla da invidiare a Bob Dylan – suo amico-nemico (come Red e Toby) – prima fonte di ispirazione e successivamente poeta da rincorrere nel gotha degli intellettuali d’oltreoceano.

Se Dylan è la spocchia maestosa, borghese e algida della rivoluzione sociale, Phil Ochs è la voce del terzo stato, potente e delicata, verace quanto basta per renderlo uno dei principali autori del Greenwich Village.

Figlio del popolo; una rabbia gentile avvolta dalla voce calda e dallo sguardo guascone e bonario del cantante.

I Ain’t Marching Anymore è un grido rivolto all’attitudine militaristica degli Stati Uniti, una protesta contro ogni tributo di sangue che storicamente l’America ha preteso dalla sua gente.

La canzone comincia con una progressione rapida e rabbiosa di note, una proiezione dei colpi di fucile sparati da Ochs nei confronti di un paese che non sente più suo. La panoramica che Phil Ochs offre è impietosa e stupefacente, con fare da cronista navigato analizza la breve vita del suo paese, punto per punto, mettendo a nudo la necessità di ricorrere alla violenza per ogni situazione.

* pippone storico 

Si comincia citando la “battaglia inutile”di New Orleans, tra inglesi e americani, ove la notizia della pace siglata con il trattato di Gand non è giunta in tempo per fermare lo spargimento di sangue, si prosegue così con la disfatta di Little Bighorn, dove tutto il settimo reggimento insieme a Custurd viene spazzato via. Dopo le battaglie coi pellerossa, si passa all’espropriazione dei territori messicani.

Ma quando i nemici si esauriscono fuori dal proprio giardino, è necessario crearli all’interno delle quattro mura domestiche… quindi giù di guerra civile: il conflitto fratricida tra nord e sud. E poi, la decisione di intervenire nelle “trincee tedesche” per combattere una guerra che avrebbe posto fine a tutte le altre. Naturalmente così non è stato, considerato che i cieli giapponesi sono stati attraversati dagli ammerigani e con una delle più grandi dimostrazioni di forza il resto del mondo è stato annichilito.

*/end of pippone storico 

Dopo questa breve e noiosa lezione di storia contemporanea, quello che riassume il pensiero di Ochs, è il ritornello col quale punta il dito verso chi governa: “Sono sempre i vecchi a guidarci verso la guerra, sono sempre i giovani a cadere”.

E’ palese come Phil sia riuscito a raccogliere a piene mani l’eredità di Woodie Guthrie e Pete Seeger incarnando lo spirito socialista e rivoluzionario, che sempre più forte si farà sentire nel 1968. Tutto il leit motiv del disco e della gran parte della carriera del cantautore è incentrata sulla protesta, per questo è stato creato anche un dossier nei suoi confronti da parte dell’efbiai, bollato come sovversivo, chiamato a volte Oachs, colpevole di aver compiuto “nefandezze” anche dopo la morte (scoperta successivamente dai federali).

Non solo il braccio della legge, anche la gente lo ha eletto come uno dei leader della controcultura, tant’è che Draft Dodger Rag è diventata l’inno dei movimenti contro la guerra in Vietnam. La canzone ha preso forma quando il coinvolgimento dei magna-cake in Vietnam si è fatto sempre più concreto. Ochs si immedesima in un ragazzo di 18 anni chiamato alle armi che elenca una serie di scuse (degne di un adolescente in pubertà che non vuole andare a scuola) per i quali non dovrebbe servire, quali ad esempio: una vista da pipistrello; l’asma in continuo peggioramento; piedi piatti; ernia del disco; milza spappolata; allergia ai fiori e agli insetti.

Il ragazzo cerca di allisciare il sergente come Alvaro Vitali con la propria maestra nei film di Pierino, dimostrandogli quanto tenga al proprio paese dicendogli che sarebbe in prima linea se fosse una guerra senza sangue e squartamenti.

Here’s to the state of Mississipi ci conduce alla chiusura del disco, essa nasce come una satira nei confronti dello stato del sud e della sua popolazione, calcando la mano sui comportamenti vessatori dei Mississipini. Successivamente, questa canzone, ritornerà in auge per il riadattamento sempre dello stesso cantautore in Here’s to the State of Richard Nixon e più recentemente per una scrittura a 4 mani di Eddie Vedder e Tim Robbins (Here’s to the state of the Judges).

Ciò che balza all’orecchio è la completezza di un disco che talvolta con melodie allegre, testi sarcastici e cronistici, riesce ad illustrare il paradigma del paese che vorrebbe esaltandone i difetti senza peli sulla lingua. Un reporter apprezzato immensamente dai suoi colleghi del Village, vittima di una competitività troppo accesa con un Dylan che ne ha smorzato la carriera (nonostante le numerose incomprensioni, la situazione tra i due si è grosso modo sistemata negli anni successivi)

Bob Dylan – Highway 61 Revisited

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1963 Newport Folk Festival, Bob Dylan si esibisce con Blowin’ In The Wind insieme ad altri capisaldi del folk come Peter, Paul and Mary e Joan Baez. Successone! Applausi e pompini per Bob. (the answer my friend is a blowjob in the wind)

1964 Newport Folk Festival, Bob Dylan si esibisce con Mr. Tambourine… Successone! Applausi e pompini a profusione per Bob.

1965 Newport Folk Festival, con Bringing It All Back Home, Bob ha inaugurato una nuova fase della propria carriera, elettrificando il folk in un lato del disco e preparando di fatto il terreno alla svolta elettrica di Highway 61 Revisited. Ora, il Newport Folk Festival non si chiama così tanto per… è un festival folk e la gente solitamente si esibisce da sola con la chitarra – o con altri con la chitarra – e crea queste situazioni intime molto belle ma al contempo un po’ scassamaroni. Cioè capite le mie parole… non sono tutti Bob Dylan (e Bob Dylan tante volte non è campione di intrattenimento).

Vabè lui di punto in bianco dice “Cazzo se lo faccio. Sì sì che lo faccio. Adesso mi porto la band. Adesso amplifico tutto.”, si presenta e TAC!… contestazione. Dal pubblico salgono i “Buuuh” “Buuh” e di tanto in tanto qualche “Buuuarns“.

Bob Dylan perde la sua verginità artistica, l’affronto verso il suo pubblico è enorme, sporcherà per sempre quella sua immagine da menestrello di protesta, ma lo fa a ragione. Stanco di rappresentare e cantare qualcosa che non sente più suo, di ritorno dal Regno Unito decide di cambiare, e la canzone che lo spinge a prendere questa decisione andrà ad aprire non solo Highway 61 Revisited, ma anche la mentalità dei musicisti di tutto il mondo.

Like A Rolling Stones apre con un secco colpo di batteria e con una chitarra elettrica. Houston! Abbiamo un problema! Non si vuol più fare del folk qui!

L’idea di Dylan era quella di oltrepassare il sound folk elettrificato utilizzato in Bringing It All Back Home pochi mesi prima – cercando di alzare l’asticella rispetto la versione di Mr. Tambourine dei The Byrds. Quindi reinventa sé stesso e si issa a traino per le nuove generazioni di musicisti. Sentire così tante cover delle sue canzoni, masticate, metabolizzate, arrangiate ex-novo con un suono così fresco ha risvegliato in Dylan l’idea di scuotere il modo di intendere il folk classico.

Lo fa con una canzone che nasce su 10 pagine, “non aveva un nome, aveva ritmo, avevo scritto delle invettive sparse. Alla fine mi sono reso conto che non era disprezzo, bensì dire a qualcuno qualcosa che non sa, dire loro che sono fortunati. Non l’ho mai pensata come canzone, finché un giorno non mi sono trovato al piano ed il foglio davanti a me stava cantando ‘How does it feel?‘ con un ritmo lento, uno slow-motion estremo”.

Durante le registrazioni – avvalendosi di gente del calibro di Al Kooper, Bruce Langhorne, Bobby Gregg e alla chitarra Mike BloomfieldZimmy disse subito “Ragazzi, non voglio una merda blues alla B.B. King“. Ecco in quel preciso istante prese vita la canzone che rappresenta Bob Dylan in tutto il mondo.

Continuando ci troviamo ad ascoltare canzoni più legate allo stile passato come la stupenda Desolation Row, altre al blues come Tombstone Blues, nel quale Zimmy ci da un assaggio del suo nuovo stile di scrittura surreale cantato in scioltezza come usavano fare i suoi mentori Guthrie e Seeger; canzoni come Ballad of a Thin Man, splendida canzone che di sicuro ha influito sul sound delle Murder Ballads di Nick Cave.

Ma chi è il Thin Man? “È una persona reale […] l’ho visto venire in camerino una sera e sembrava un cammello.” Probabilmente Mr. Jones non è il suo vero nome, in molti hanno pensato fosse un critico che non capiva i testi di Zimmy; col passare del tempo ha acquisito un significato ben specifico, con Mr. Jones si intende l’uomo medio borghese, senza infamia e senza lode, il nostro signor Rossi se dovessimo fare un parallelo. “Questa canzone l’ho scritta per tutti coloro che mi facevano domande tutte le volte. Ero semplicemente stanco di rispondere a tutte queste domande che non avevano risposta”.

Il disco ci lancia nel bel pieno di un viaggio in auto nella Highway 61, quella lingua di strada che va dal New Orleans al Wisconsin (al confine col Canada) costeggiando sempre il Mississippi. Una strada che passa anche per Duluth e che taglia gli Stati Uniti dal Sud al Nord. La title track è arrembante, stupenda, veloce, ricorda la versione che i Canned Heat faranno di On The Road Again, un blues rock spinto (del quale PJ Harvey farà una stupenda cover in Rid Of Me).

La fotografia del disco è stata scattata nei pressi del Greenwich Village, non proprio nelle zone dell’Highway 61, Dylan si è comprato una maglia della Triumph e – non essendoci uno sfondo ricco di particolari – Daniel Kramer, il fotografo, ha chiesto all’amico di Bob Dylan, tale Bob Neuwirth di piazzarsi dietro lui. Bella storia de merda che c’è dietro sta copertina, eh? Come al solito gli esperti di semiotica sono andati a caccia di dettagli che giustificassero la poetica del Dylan, ma che effettivamente non ci sono. Ragazzi belli, non è che tutto debba avere un senso!

Highway 61 Revisited è il perfetto album d’accompagnamento in un viaggio, è completo in ogni sua sfaccettatura. Per citare Scaruffi “la differenza tra Dylan e gli altri è che gli altri interpretano meglio le sue canzoni perché si limitano a cantarle; lui però non canta le proprie canzoni, le vive”.

Nico – Desertshore

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Ci eravamo lasciati nel bel mezzo di una officiazione ed è così che ritroviamo Nico, solo che questa volta mi sono tutelato scrivendo l’articolo in piena giornata.

Nico partorisce quel che sarà Desertshore in quel di Positano (una relazione quella tra Nico e l’Italia che prende forma alla fine degli anni ‘50 quando Fellini la scelse per La Dolce Vita) un disco nel quale esplora ulteriormente le intuizioni di The Marble Index, per questo la struttura rimane la medesima: Nico, armonium, John Cale.

Il brano ad apertura del disco, Janitor Of Lunacy, è dedicato all’amante di un tempo Brian Jones, scarno nel testo e nell’arrangiamento, ma magnetico e dal forte impatto emotivo. Si prosegue in crescendo con The Falconer, l’armonium domina ancora il brano – con il tappeto musicale a ricordare una marcia funebre – e la voce di Nico interviene funesta e monocorde, fino all’avvento del pianoforte che da aria all’intero brano con una melodia quasi di speranza.

My Only Child si depriva di ogni strumento, basandosi sul canto a cappella di Nico – con sovraincisioni – che ricorda tanto Where Have All The Flowers Gone di Pete Seeger, così vicino ad un canto di chiesa da apparire sacro.

Le Petit Chevalier è interpretato dal figlio di Nico, Ari, nato dopo una relazione con Alain Delon e non riconosciuto dall’attore francese; al proprio figliolo Nico aveva già dedicato una canzone nel precedente The Marble Index, al contrario di quanto possa sembrare, Nico non può essere considerata una buona madre, difatti Ari col passare degli anni diventerà compagno di spade della madre condividendone la passione per le droghe. In Le Petit Chevalier, il canto del piccolo Ari è incerto come fosse guidato dalla madre, è possibile sentire dei profondi respironi decisamente inquietanti alzando il volume. Desertshore presenta delle sinusoidi, è fluttuante, ci sono perciò dei brani scuri molto simili tra di loro intervallati da dolci armonie, come per Afraid che anticipa la sacralità dei Popol Vuh nella semplicità di un piano e della viola.

Con Abschied si torna alle tonalità apocalittiche che trovano nella sezione d’archi un rafforzativo non indifferente e che come per Mutterlein – dove vengono aggiunte le trombe – il cantato in tedesco aiuta ad angosciarci ancora di più e prepara al caos metodico della stupenda All That Is My Own di memoria newyorkese, molto vicina ai Velvet Underground e al Tim Buckley di Goodbye And Hello.

Il brano finale assume una dimensione profetica, così come il ruolo che si ritaglia Nico – con ancora più forza rispetto al precedente disco – quello dell’interprete delle oscurità del mondo, che sacrifica la bellezza del mondo di plastica dal quale proviene per vestire le brutture del mondo. Al contrario della deriva gotica che prenderà piede a cavallo tra i ‘70 e gli ‘80, Nico ci canta le oscurità che si celano dietro ogni angolo del mondo più che quelle interiori.

Buffy Sainte-Marie – Illuminations

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Quando cercate di raccimolare qualche informazione su Buffy – e siete abbastanza scaltri da non aprire l’enorme massa di informazioni presenti nell’internet riguardo l’ammazza-vampiri – troverete molti riferimenti sullo stile di Sainte Marie, sulla vicinanza alla psichedelia di Tim Buckley in Lorca o alla follia arcaica di Diamanda Galas.

Buffy Sainte-Marie è stata unica, precorritrice di tante intuizioni musicali, forse in alcuni casi alcune idee sono state troppo in anticipo coi tempi. Bazzicava il Greenwich Village, ma il suo suono è molto diverso rispetto a quello dei suoi colleghi “non credo di esserci mai centrata qualcosa [al Greenwich ndr], ma erano dei tempi nei quali qualsiasi disadattato poteva avere la propria opportunità. Non cantavo canzoni folk come Pete Seeger o Joan Baez, non venivo da una famiglia come quella di Bob Dylan, o da una famiglia di musicisti come Judy Collins, ma alla fine ho trovato il mio posto – nonostante non credevo che sarei durata a lungo – credo grazie all’unicità nello scrivere di qualsiasi cosa”.

Questa unicità e sicuramente retaggio del passato di Buffy, una pellerossa adottata da una famiglia canadese capace di mescolare le sue preferenze musicali in un disco, come in Illuminations, disco molto differente rispetto a quanto fatto in passato. Un album che dal folk vira – grazie all’aiuto del produttore Solomon e dal musicista di elettronica Michael Czajkowski – alla sperimentazione, partendo da una semplice base chitarra e voce, distorcendo poi in alcuni brani questa voce con un sintetizzatore Buchla e facendo diventare Illuminations il primo disco in quadrifonia vocale mai realizzato.

Il brano di apertura è imponente, sciamanico, con una eco persistente ed una chitarra arpeggiata crescente, le sovraincisioni si strutturano fino a fondersi in una metrica disordinata e asfissiante, una costruzione che lascia trapelare le origini della cantante prendendo forma in maniera sempre più allucinogena in God is Alive, Magic Is Afoot.

Il testo è di Leonard Cohen e proviene dal suo secondo romanzo Belli e Perdenti, Buffy lo ha musicato, appropriandosene per aprire un disco che procede solenne.

Il modo di cantare di Buffy è memorabile, tremolante a tratti, lo notiamo nell’incedere lento di Mary, The Vampire e nella ritmata Better to Find Out Yourself che ammica in maniera decisa al country campagnolo rielaborandone lo stile. Poi c’è Adam di Richie Havens, arrangiata e virata in chiave psichedelica, per una interpretazione che non ha nulla da invidiare dall’originale, anzi, forse dimostra un maggior carattere risultando meno scialba.

L’aspetto più importante da notare di questo disco è la tipologia dei brani all’interno e la ciclicità con la quale questi brani vengono presentati: nello stile e nel ritmo. È un disco che cattura per l’ottima sequenza dei brani e per lo stupendo finale di Guess Who I Saw in Paris. Illuminations è un passaggio fondamentale per comprendere il passaggio dal folk tipico del Greenwich al sound della West Coast.

Bruce Springsteen – Nebraska

Bruce Springsteen - Nebraska

Springsteen incasella una nuova pietra nel selciato della leggenda musicale e lo fa nel modo più anticonvenzionale. Dopo aver consolidato il proprio stile – ed aver presentato un’opera omnia con The River  – fa una scelta in controtendenza, si torna alle radici, non solo le proprie (con Guthrie e Seeger come influenze principali), soprattutto nelle radici dell’America del ‘900, quell’America descritta minuziosamente da Steinbeck nelle proprie opere. Steinbeck e Springsteen, l’ispirazione è palese – tanto da registrare The Ghost of Tom Joad nel 1994 – e il boss sembra ricreare e mettere in musica quelle atmosfere rurali descritte da Steinbeck.

Bruce tira fuori il suo lato più scuro in questo album, apparendo rispetto al passato a tratti senza speranza ed inducendo molti a pensare che il disco fosse stato concepito in un periodo di depressione.

Il fascino di Nebraska è direttamente proporzionale alla leggenda che accompagna la nascita dell’album: demo sparse su un Portastudio (un registratore portatile a 4 tracce sulle quali era possibile registrare direttamente su musicassetta) destinate alla E-street band. La E-street band non è stata capace di riprodurre le sonorità e le sensazioni genuine e caserecce di cui sono pregne le tracce registrate, il tutto viene complicato dal volume di registrazione troppo basso che non consente un intervento all’altezza da parte della band. Nebraska vede la luce come è nato, con delle demo.

“Stavo facendo canzoni per il prossimo album rock, e ho pensato che ciò che mi ha tenuto sempre per lunghi periodi in studio è stata la scrittura. Sarei stato lì, e non avrei avuto abbastanza materiale scritto o qualitativamente decente, perciò avrei registrato per un mese, fatto un paio di canzoni, sarei tornato a casa per scrivere ancora e avrei registrato un altro mese… insomma non sarebbe stato il massimo. Perciò questa volta ho preso un piccolo registratore a 4 tracce, e mi sono detto ‘registrerò queste canzoni, e se mi sembreranno buone le terrò e le porterò alla band‘. Potevo cantare e suonare la chitarra, le altre due tracce le avrei tenute per sovraincisioni di chitarra o per l’armonica. Sarebbe stata solo una demo. Avevo con me un piccolo Echoplex che mi ha aiutato a mixare il tutto. E fu il nastro che divenne disco. Fu fantastico perché mi portai la cassetta praticamente ovunque per qualche settimana, senza alcuna custodia. Fin quando ho realizzato ‘Oh! Ecco l’album!’.”

La title track è una murder ballad – così come Jhonny 99 – nella quale Springsteen canta in prima persona le vicende di Charles Starkweather che nel 1958 si macchiò dell’omicidio di 11 persone nel giro di 8 giorni. L’ispirazione per questa canzone venne direttamente dal film La Rabbia Giovane di Terence Malick, con protagonista un giovane Martin Sheen. Bruce si è documentato profondamente sulla storia di Starkweather, concedendosi però una licenza poetica marcata… nonostante ciò la maggiorparte della canzone tiene conto di eventi realmente accaduti.

A Nebraska fa seguito Atlantic City, probabilmente la canzone più conosciuta proveniente da questo album.  Atlantic City racconta una storia d’amore con nello sfondo le vicende mafiose che attanagliano la Filadelfia di quel periodo, citando nello specifico anche l’assassinio del boss mafioso Phil Testa eliminato – da una dose massiccia di esplosivo che ha fatto saltare in aria la sua casa – durante la cosiddetta Mafia War. Da questa canzone è tratto il primo videoclip di Springsteen, girato in un giorno con una camera car.

Nebraska è quindi essenza americana, cantautorato puro, un modo di raccontare le storie che Springsteen riporta in auge con naturalità. Possiamo definire Nebraska il progenitore di Into The Wild di Eddie Vedder per la ricerca di un sound viscerale e senza sovrastrutture, meno sicuramente per le tematiche trattate. Per questo motivo è errato giudicare e liquidare l’album come folk, sarebbe ingeneroso e al tempo stesso vorrebbe dire non aver compreso Nebraska.

Questo album è essenza pura e ce lo fa capire lo stesso Springsteen con queste parole: “State Trooper è il genere di cose che fanno i Suicide con sintetizzatore e voce”