Kevin Ayers – Joy Of A Toy

Kevin Ayers - Joy Of A Toy

“Quando in Aprile le dolci piogge cadevano

E penetravano la siccità di marzo alla radice, e tutte

Le vene erano impregnate di umore in tale potere

Da portare al generarsi dei fiori,

Quando anche Zeffiro con il suo fiato dolce

Ha esalato aria in ogni bosco e in ogni brughiera

Sopra i teneri germogli, e il nuovo sole

Ha percorso la sua metà del cammino in Ariete,

E gli uccellini hanno fatto melodia

Che dormono tutta la notte con gli occhi aperti

(Così la natura li punge nei loro cuori impegnati)

Allora la gente va lontano in pellegrinaggio

E i pellegrini (vanno) lungamente alla ricerca di lontani santuari

Variamente noti, si trovano in contrade forestiere,

E specialmente, fin dalle più lontane parti

Dell’Inghilterra, loro si recano a Canterbury […]”

 

Nel prologo delle Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer, si può leggere tra le righe di ciò che accadrà con il movimento musicale di Canterbury. Dove il santuario della psichedelia e del progressive viene preso a modello d’ispirazione da una generazione di band.

Uno dei fautori delle Canterbury Tales targate anni ’60 è stato Kevin Ayers, capostipite -assieme a mastro Wyatt – dei Soft Machine, successivamente abbandonati per una pigrizia congenita. Succede che dopo un tour dei Soft Machine come spalla a Jimi Hendrix e la sua Experience, Ayers vuole staccarsi dallo showbiz e dai suoi meccanismi. Jimi cuore d’oro che non è altro, gli regala una Gibson acustica affinché possa continuare ad esercitarsi nello scrivere canzoni. Lui così fa, va a vivere prima a Ibiza – dove butta giù i testi della sua prima fatica solista – poi a Londra e Peter Jenner lo produce.

Nei versi di Chaucer c’è anche il manifesto del primo disco solista di Ayers, Joy of A Toy. Un risveglio, come una primavera musicale, l’allegria nel disco ed il suo disordine è coinvolgente e ha molto in comune con il Syd Barrett scanzonato di The Madcap Laughs – album coevo che risente oltre che dell’influenza di Jenner anche della presenza dei vari Soft Machine.

Hopper, Ratledge e Wyatt, hanno contribuito in maniera determinante alla realizzazione del capolavoro di Barrett.

Ayers figura come una versione più disciplinata del lisergico Syd, ma con le medesime radici.  Non solo, anche la necessità di staccarsi dalle band che hanno fondato trasmette chiaramente la voglia di intraprendere un progetto diverso, svincolato dalla “serietà” della musica prodotta e da tutto ciò che ne consegue in termini di impegni.

I due si troveranno a collaborare in un singolo di punta di Ayers, Singing a Song in the Morning, dove Barrett suona la chitarra in una versione inedita fino agli inizi del 2000. Ayers a tal proposito ricorda Syd come una presenza flemmatica, incapace di accordare la chitarra o di suonare gli accordi giusti. Vabè, semplicemente quello che ci è stato raccontato anche dagli altri musicisti durante le sessioni che hanno contribuito alla registrazione dei suoi due dischi.

Tornando a Joy of A Toy, il titolo dell’album è un tributo alla passata esperienza del bassista, nello specifico al primo singolo rilasciato negli USA da parte dei Soft Machine, facente parte di un enclave musicale all’interno della suite Hope For Happiness. La composizione che apre il disco si intitola Joy of A Toy Continued, come a voler indicare una continuità con quanto fatto sino a quel momento con la sua band, distaccandosene con un bailamme di suoni che fanno festa ad ogni vibrazione.

Kazoo, organetto, trombette, frizzi, lazzi, scazzi, si sente l’influenza dei Pink Floyd dello UFO, con il quale i Soft Machine hanno condiviso il palco, si sente l’outro di Bike in questa melodia.

Il bambino paffutello coi calzetti tirati su, il tamburo in mano e l’esultanza alla Paolo Rossi, danno l’idea del clima che si può trovare nel disco: allegria, esaltata da una rana che suona un trombone e che ci lascia intendere che magari anche un po’ di psichedelia all’interno dell’album non ci sfuggirà.

La sua voce impostata e baritona – aiutata dai fiati dominanti nel disco – è camaleontica e con sfumature diverse ad ogni ascolto ed ogni ritornello, unica nella sua poliedricità, in Town Feeling il suo canto deciso e trascinato ricorda leggermente Roger Waters, in Clarietta Rag il canto veloce, onirico e spensierato contro le leggi della metrica incontra in tutto e per tutto Syd Barrett, così come la chitarra con punte di acidità e distorsione palesa un’influenza dalla Vegetable Man floydiana memoria. In Song For Insane Times ricorda a tratti Nick Drake nell’intimità dell’esecuzione

Scanzonato, ma niente di innovativo, idee sviluppate con grazia e raffinatezza, intrecci e armonizzazioni che danno un corpo consistente ai suoi brani, vestiti che indossa perfettamente. Sicuramente un apporto deciso ad una corrente musicale che già si è sviluppata con forza negli anni passati. Un disco da ascoltare per cominciare ad assemblare i pezzi di un puzzle sconosciuto ai più.

Pink Floyd – The Piper At The Gates Of Dawn

 

Pink Floyd - The Piper At The Gates Of DawnTutto ha origine nella seconda metà dell’ottocento, quando Edward Lear inventa il non-sense, influenzando così una schiera di artisti che attingeranno a piene mani dal calderone dell’autore inglese. Su tutti: Ayers, Wyatt e Syd Barrett.

Quest ultimo sembra essere la reincarnazione di Lear e decide di mettere in musica quei limmerick fantasiosi, quei giochi di parole appesi nel nulla, costruendo l’atmosfera adatta e trovando la giusta dimensione musicale in accompagnamento. Un collage dadaista di suoni e rumori in apparente anarchia, che si sposano perfettamente con il mondo incantato di The Piper At The Gates Of Dawn.

Oh sì, questo album è un delirio dove il caos ordinato regna sovrano, tra fiaba e magia.

Il titolo prende direttamente spunto da un altro classico della letteratura fanciullesca britannica: Il vento tra i salici. Barrett è fortemente ispirato e il suo essere stralunato è una derivazione delle letture che lo hanno formato – da Lear a Huxley, da Crowley a Belloc, fino all’I-ching – accompagnandolo sin dall’infanzia; l’abuso di droghe lo aiuta a concentrarsi su quel mondo e a descriverne ogni singola sfaccettatura.

Astronomy Domine comincia con un segnale Morse simulato da un Farfisa; Peter Jenner presta la sua voce distorta all’inizio del brano, poi subentra Barrett – vero deus ex machina di questi Pink Floyd – che porta con se un libro tascabile sui Pianeti consultato costantemente durante la composizione del testo. Il resto lo fanno la sua Telecaster con gli specchi e la sua voce cadenzata.

Lucifer Sam ha un tappeto musicale tra Shadows e Ventures, qui Waters usa l’archetto sul basso dando al brano uno spessore memorabile. Il riferimento alla “Jennifer Gentle” che si fa nella canzone, è rivolto ad una fiamma mozza-fiato (termine vetusto e sempre più desueto) con la quale Syd uscì per un breve periodo – tale Jenny Spires.

POW R TOC H invece è l’esempio di sperimentazione nell’ambito pop dell’uso di voci e rumori all’interno di una composizione. La canzone – seppur accreditata al gruppo – è di Waters, la sua voce è riconoscibile ed il buon esito di tale sperimentazione gli offrirà la possibilità di battere questa strada con maggiore convinzione anche in brani futuri.

Durante le registrazioni alla EMI – coeve all’uscita di Sgt. Pepper – è capitato spesso a Barrett e colleghi di incontrare membri dei Beatles. In particolar modo McCartney durante le sessioni, dimostrava di apprezzare molto il lavoro dei Pink Floyd e del produttore Jenner; sembrerebbe perciò che i Beatles abbiano interceduto per garantire dei privilegi ai ragazzi (come ad esempio poter giocare con il mixer durante le sessioni… mixer considerato sacro dai capoccia della EMI).

Una delle concessioni più grandi però fu la possibilità di poter riportare su disco quello che era oramai l’inno della psichedelia allo UFO: Interstellar Overdrive. Peter Jenner racconta l’origine di questa composizione “L’ho raccontato talmente tante volte che ormai non so nemmeno più se sia vero o meno, ma mi sono avvicinato a Syd per canticchiargli quella che credevo essere una canzone dei Love… ero talmente tanto fuori tempo e stonato che – Syd che aveva la chitarra in mano – la risuonò all’istante sulla base di quanto gli avevo cantato ed era una canzone totalmente differente. La canzone non era nemmeno dei Love, bensì di Burt Bacharach (My Little Red Book)… Potete immaginare quanto abbia distrutto l’originale”.

L’album si conclude con un brano che condensa i vari trend del disco all’interno di 3 minuti e 21 secondi di filastrocca e musica concreta. Bike è dedicata sempre a Jennifer Spires, almeno la prima parte è dedicata a lei, la seconda è un bailamme di rumori riuniti in un collage – tra i quali: violini, orologi, campane, un loop al contrario e velocizzato della band che ride.

Questo è l’ABC, questa non è semplice psichedelia, è qualcosa di trasversale al quale molti gruppi in futuro cercheranno di ispirarsi. Gli stessi Pink Floyd, perdendo Barrett, non riusciranno a replicare la leggerezza e la capacità di essere stralunati volgendo verso un sound molto più cupo e claustrofobico, a tratti ridondante, auto-celebrativo e fine a se stesso.

P.S. la foto che immortala la band in copertina, venne scattata da Vic Singh, un fotografo indiano che ricevette il caleidoscopio col quale scattò la foto da George Harrison in persona. David Baley – fotografo che condivideva lo studio con lo stesso Singh – era un amico molto intimo del chitarrista dei Fab Four, ciò spiega questo curioso dono.