Talking Heads – More Songs About Buildings And Food

Talking Heads - More Songs About Buildings And Food

Eno è l’unica persona che comprenda il modo di suonare di David. […] Il senso del ritmo di David è folle ma fantastico. Una canzone parte incasinata per diventare poi un koala. È tremendamente difficile trasformare un’idea stupida in qualcosa di brillante. David ricava il dipinto dallo schizzo. È grandioso nel convincerci di come un’idea pazza possa divenire qualcosa di splendente.”

Tina Weymouth in questa intervista rilasciata a Creem, ci fornisce degli indizi che ci spiegano l’evoluzione dei Talking Heads:

1) More Songs About Buildings And Food è il secondo album delle teste parlanti, il primo affidato a Brian Eno;

2) Eno è l’uomo capace di intendersi con Byrne più di chiunque altro, perciò è da qui che nasce il sodalizio che porterà a Fear Of Music, Remain In Light, My Life In The Bush Of Ghosts;

3) Eno comincia una cura contro l’autismo da palcoscenico di Byrne (lui stesso definisce il proprio inizio di carriera aspergeriano) spostando il focus dalla sua chitarra alla sezione ritmica, mettendo in condizione il duo FrantzWeymouth di porre l’accento sui brani.

Come scritto per Talking Heads ’77 la forza della band è suonare dal vivo, la palestra che ne ha forgiato lo spirito ed il carattere, Eno propone così alle Teste Parlanti di entrare in studio e registrare completamente dal vivo i nuovi brani, questo infonde maggior coraggio ed estro nei Talking Heads che consente loro di chiudere le registrazioni ed i mixaggi in appena tre settimane (una in più del disco d’esordio).

Concedendo la ritmica a Frantz e Weymouth – e non essendo una band che basa i propri successi su giochi di chitarra pirotecnici – la peculiarità dei brani è incentrata non solo sui testi ma anche sulla voce di chi li interpreta e sul come lo fa. The Big Country in tal senso credo possa essere una canzone che ben rappresenta quanto scritto sopra.

Byrne ha trovato in Eno il suo Virgilio e Eno in Byrne il proprio Dante.

More Songs About Buildings And Food mostra la via, definendo il futuro che spetta ai Talking Heads, ma offrendo anche un’idea artistica riconoscibile grazie all’emblematica immagine di copertina raffigurante un mosaico di oltre 500 polaroid – scattate da David Byrne – rappresentante i membri della band.

Anche il titolo peculiare ha contribuito all’immagine coordinata del gruppo:

Tina “Come dovremmo chiamare un album che parla di cibo ed edifici?”

Chris “Puoi chiamarlo Altre canzoni sul cibo e sugli edifici (More Songs About Buildings and Food)”.

 

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Talking Heads – Remain In Light

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I Talking Heads sono in pausa di riflessione, ognuno per i cazzi propri dopo il tour del 1979… chi intento a registrare il proprio album chi a farsi una vacanza e così via. I precedenti sforzi hanno esacerbato gli animi e la sensazione comune è quella di un Byrne accentratore e col pallino in mano. Dopo essersi confrontato con Harrison, Weymouth e Frantz, la voglia di continuare insieme rimane forte, ma con un approccio democratico basato sulla condivisione.

Si comincia a suonare e si registrano le demo, questi tape vengono fatti ascoltare ad un reticente Eno, poco incline a proseguire la collaborazione con Byrne e soci dopo Fear Of Music e More Songs About Buildings and Foods. Diciamo che l’afro-funk riesce a convincere il professorino: un modo secondo Byrne di tornare alle origini, essere meno cervellotici fuggendo dalla paranoia tipica della New York anni ’70.

La sensazione che trasmette Born Under Punches in apertura è che non sfigurerebbe sicuramente in un album come Lodger, nonostante ci sia il marchio di fabbrica di Byrne è impossibile non notare la chitarra di Belew e la produzione di Eno. E’ come se – con Remain In LightEno abbia trovato la valvola di sfogo che non gli è stata concessa in Lodger, di sicuro il suo modo di riuscire a sovrapporre chitarre, basso e percussioni in questo brano rende il prodotto finale indiscutibile.

Non ci sono solo le Strategie Oblique qui, ma anche testi in associazione libera e flussi di coscienza continui – sulla scia di Iggy Pop e il Bowie di Low e Heroes – utilizzati per vincere il blocco dello scrittore seguendo quanto fatto dai musicisti africani: se ti dimentichi cosa stai cantando, improvvisa, non è necessario usare parole sensate.

Woooahhh si apre un mondo! Sulle basi musicali già registrate,  Byrne canta suoni senza senso, onomatopee che – registrazione dopo registrazione – sembrano trasformarsi in parole. Da questo processo nascono i testi di Remain In Light.

Con Crosseyed and Painless continua il funky contaminato da beat africani, anche qui è possibile trovare un parallelismo con Lodger ed African Night Flight, con un accenno di rap come lo stesso Bowie aveva fatto. E’ come se molti discorsi lasciati in sospeso dalla diaspora Bowie/Eno fossero approdati a naturale conclusione – due anni dopo – grazie alla piena collaborazione di Byrne. Un’omogeneità che viene mantenuta con The Great Curve, dove i ritmi vengono estremizzati, annoiando chi ascolta o coinvolgendolo totalmente in questa musica da ballo. Il difetto di questo disco è la durata delle singole tracce, che avvalendosi di riff e pattern ripetuti rischiano di apparire più lunghe di quanto lo siano realmente, proiettando chi ascolta in uno stato di ossimorico straniamento e assuefazione, ancorato unicamente alla voce di Byrne tra la chiacchiera e l’urlato.

A proposito di urlato, Once In A Lifetime è sicuramente il brano più rinomato dell’album che prende spunto da una predica Evangelista. La reiterazione della frase “And you may find yourself” vuol consolidare l’idea del sermone, tante delle frasi presenti nel testo sono state captate e tenute da parte da Byrne mentre le ascoltava nella Radio Maria americana (registrazioni tenute da parte anche per My Life In The Bush Of Ghosts), dimostrando anche in questo caso un modo del tutto non convenzionale di comporre.

Il filo conduttore in Remain In Light è il funky, la situazione lounge oltre che un’ibridazione della world music rodata e messa a punto dal duo Byrne/Eno. Per quanto poi il ritmo scanzonato e l’allegria presente nella prima parte vada pian piano scemando col proseguire del disco nella malinconia di Listening The Wind e in una depressione riflessiva con The Overload.