Slowdive – Just For A Day

Slowdive - Just For A Day

Prosegue il ciclo di articoli “Stai pensando al suicidio? Ci penso io!”, un susseguirsi tambureggiante di dischi che hanno segnato le vene degli ascoltatori di tutto il mondo. Un viaggio nella depressione “quella bella” come piace a noi, fatta di bassi e bassi. Vi faccio tornare all’epoca della pubertà, della ragazza che vi dice no, dell’apparecchio, delle musicassette e del Topexan.

Il sodalizio tra Rachel Gosswell e Neil Halstead è in parte simile a quello tra Sparehawks e la Parker, si conoscono durante l’infanzia, infatti il padre della Gosswell – all’età di 7 anni – le regala una chitarra classica e le dà le basi della musica folk, da buon ex banjoista qual’era. Tre anni dopo comincia a prendere lezioni di chitarra, nelle quali incontra il piccolo Neil Halstead, il legame dei due è solido e come in tutte le migliori storie i propri gusti musicali si incontrano e – all’età di 15 anni – danno vita ai Pumpkin Fairies, una breve esperienza nella quale si aggiunge a loro due Adrian Sell il batterista con il quale fonderanno gli Slowdive.

Adrian porta con sé il suo amico Nick Chaplin, al quale verrà attribuito il merito del nome Slowdive “Leggenda vuole che il nome sia venuto fuori da un sogno che feci. Probabilmente un fondo di verità in ciò c’è. Avevamo un sacco di nomi orribili prima di diventare Slowdive, sapevamo che ci serviva qualcosa di diverso. Sembrò la scelta migliore. Rachel era sempre stata una fan di Siouxsie [Siouxsie And The Banshee ndr].”.

Sì perché Slowdive è il nome di un singolo di Siouxsie del 1982, per Rachel deve essere sembrato il giusto tributo alla sua eroina; lei fortemente ispirata da un’artista a 360° gradi da una personalità come quella di Susan Janet Ballion, che sembra avere un’attrazione grandissima verso gli istrioni ed i teatranti musicali come Robert SmithNick Cave ed Iggy Pop, a voler quasi forgiare il lato gotico della band. L’influenza comune però si dimostra essere un gruppo caposaldo dello shoegaze, i My Bloody Valentine.

Tornando alla formazione della band, gli Slowdive trovano un consolidamento definitivo con Christian Savill che si presenta alle audizioni come terzo chitarrista. L’unico ad essersi presentato, gli altri 4 erano alla ricerca di una ragazza da inserire, ma Savill si dimostrò tanto determinato da essere disposto ad indossare un vestito da donna pur di suonare negli Slowdive… beh sembra che di potenziale ne avessero i ragazzi per indurre un adolescente a fare una cosa del genere, non credete?

Potenziale da vendere, ma grandi cazzari, come Neil Halstead che riesce a convincere la propria etichetta di avere abbastanza brani per un disco “siamo andati in studio per sei settimane, non avevamo canzoni quando abbiamo cominciato le registrazioni, alla fine avevamo un album”… si, ma tutto grazie a sperimentazioni abbastanza ardite con l’effettistica e una dose massiccia di marjiuana a rendere il tutto più piacevole.

Per Neil è stato “come fare un dipinto. Abbiamo lavorato strato per strato ed è diventato tutto quanto omogeneo, indistinguibile! Penso che siamo stati molto fortunati finora.”, Nick conferma aggiungendo ulteriori particolari al metodo compositivo che ha caratterizzato Just For A Day “abbiamo buttato giù gli accordi prima, poi le canzoni sono venute naturalmente tutte insieme. Il nostro primo singolo Avalyn Losing Today [provenienti dal loro primo EP ndr] sono tra queste. La gente sembra preferirle rispetto ad altre perché sembrano incomplete.”

Just For A Day è un disco grandioso, senza presunzione, atmosfere meravigliose costruite sulla voce di Halstead e della Goswell, su delle strutture musicali epiche ed eteree, quasi a richiamare in maniera più asciutta e composta Disintegration, senza il malessere di Robert Smith… uno spleen differente ma non per questo meno bello o intenso.

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Bauhaus – In The Flat Field

Bauhaus - In The Flat Field

Ricominciare non è mai semplice, soprattutto se lo si fa scrivendo dei Bauhaus.

Ragazzi questi fanno due coglioni che veramente non vi immaginate (scherzo dai, altrimenti non ne avrei parlato fosse stato così, no?). Partiamo con una breve panoramica, giusto per i più sbadatoni che non conoscono la band di Peter Murphy.

Il nome della band – per chi non lo sapesse – prende spunto dalla scuola di Weimar fondata da Gropius, tant’è che all’inizio il nome completo era Bauhaus 1919 (anno di fondazione della scuola del razionalismo), salvo poi “razionalizzare” il nome e togliere la data.

Il razionalismo è un aspetto cruciale nel modo di concepire la musica da parte di Murphy, nelle sue influenze si colgono The ClashThe Cure così come i Joy Division, la sua figura – austera, longilinea, emaciata e teatrale – forma l’aura di gotico che permea la carriera dei Bauhaus. Sì, perché l’idea generalmente condivisa è che i Bauhaus siano stati un gruppo goth – e le tematiche di alcune canzoni inducono a credere questo – ma in generale etichettare la loro musica così non è totalmente corretto, si possono carpire diverse intuizioni e una sapiente mescolanza di sonorità nel disco d’esordio In The Flat Field.

Certo che la new-wave influisce – visto il periodo – ma non sorprendetevi di cogliere anche sfumature punk (nell’aggressività di Dive), funk, psichedeliche (sentitevi A God In An Alcove e vi ritorneranno in mente i 13th Floor Elevators), ricordando contemporaneamente nelle interpretazioni vocali gente del calibro di Ian Curtis, Robert Smith e guardando più indietro a Iggy Pop di The Idiot e Bowie di Low. Parliamo di teatralità pura, per intenderci, dei frontman magnetici capaci di reggere il palco sulle proprie spalle, Aznavour cantava “E parlo e piango e riderò del personaggio che vivrò”, perché quella che indossa Murphy è una maschera.

“Eravamo molto allineati con i The Clash, più di qualsiasi altra band in giro. I The Cure e gli altri gruppi hanno di fatto solidificato ciò che è diventato il gothMurphy spiega le influenze e ce ne da un saggio con Nerves, splendido brano a chiusura del disco. Ma come si è arrivati a questa idea musicale ce lo racconta ancora Peter Murphy raccontandoci le origini del gruppo “Daniel Ash e io eravamo Cattolici, mentre David J e Kevin Haskins erano i miserabili, egoisti pagani. Quando abbiamo cominciato con il primo tour [un tour di 30 date che ha preceduto il disco ndr] Daniel e io andammo in un bed and breakfast mentre i loro genitori gli prenotarono delle stanze negli hotel. Fu veramente patetico. Daniel e io portammo lo psicodramma nella band, e volevo molto esorcizzare lo psicodramma represso che ci ha lasciato addosso il Cattolicesimo”.

Quindi la ribellione viene veicolata dalla musica, mezzo con il quale si cerca di aggirare i vari paletti imposti da un’educazione rigorosa “personalmente, mi piacevano molto sia la messa che gli inni, c’era una grande contemplazione dell’anti-Cristo. Mi piaceva veramente molto, ma volevo anche scopare. Perciò, suppongo, sono entrano in una band”. Sincerità portami via.

“I campi piatti [flat fields ndr] sono quelli del mondanità, una necessità di sfuggire dal ghetto della “working class“, delle aree dominate dal concetto di “lavoro per la vita” e dall’ignoranza che permea queste visioni questo si riflette nell’idea della Chiesa di supremazia gerarchia nella quale il prete dice ‘Ascoltatemi. Noi mediamo tra voi e Dio: e voi dovete andare avanti con questa idea.’ C’è molto di questo che viene fuori dalla nostra musica”. Ciò giustifica il ruolo di Murphy, come un officiante la cui teatralità e funzionale al compimento dell’opera, In The Flat Field è il disco della consapevolezza, dove la cupezza fa da padrona con effetti e passaggi reiterati, con un Murphy catalizzatore delle fortune del gruppo per merito della sua capacità attoriale grottesca e tanto – a tratti troppo (nelle pause in alcuni brani lo scimmiottio è palese) – vicina a quanto fatto anni prima dal duo Bowie/Pop.

The Stooges – The Stooges

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Prima di avventurarmi nel progetto di Pillole Musicali 8 Bit non avrei mai e poi mai pensato di scrivere qualcosa a proposito di Iggy Pop… con questo fanno 3 articoli su di lui, ma è talmente con le mani in pasta dappertutto che non si può fare a meno di citarlo.

C’è questo gruppo che viene messo sotto contratto con la Elektra (stessa etichetta dei The Doors) e che per una serie di motivi si ritrova catapultato a New York, più precisamente all’interno della Factory. Verrà prodotto da John Cale, produttore già di The Marble Index.

Succede poi che questo gruppo cominci a registrare, e accanto alla figura già austera di John Cale si aggiunge quella di una tedesca dai lunghi capelli corvini che sferruzza e lavora a maglia “a me sembrare che cuesto kruppo è più meglio di Velvet Underground“.

All’epoca Iggy Pop aveva appena 21 anni, non era ancora quell’attrezzo devastato che avremmo imparato a conoscere negli anni a venire, c’era un barlume di umanità in lui che venne di fatto cancellato da Nico. La crucca ne fece il suo toy boy, lo portava ovunque, divenne il suo feticcio; si stabilirà in parte quella connessione speciale che c’è stata tra Iggy e Bowie, dove Iggy si acculturava per osmosi. Di fatto Nico lo prese a ben volere, a dire il vero se ne innamorò, e Iggy in un certo senso pure, tanto da portarsela nella Fun House (un luogo tra derelikt e una comune nella quale gli Stooges vivevano): “era come uscire con un uomo con le fattezze di donna […] era come scoparsi il proprio fratello maggiore”… mhh che bella immagine…

Quindi Nico agisce come una nave scuola, i due trombano come se non ci fosse un domani, Iggy si becca lo scolo e nel giro di poco le cose tra i due non vanno più. Iggy si porterà sempre dietro quell’alone di oscurità che Nico gli ha attaccato (oltre allo scolo).

In tutto ciò, gli Stooges tirano fuori dal cilindro un grande album, dove il rock ‘n’ roll non è ancora animalesco come lo sarà in futuro, risultando più classico, fatta eccezione per We Will Fall dove la mano e la viola di John Cale catapultano l’ascoltatore direttamente all’interno del Banana Album, come avviene anche per Ann, canzone nel quale l’assolo sembra partorito dai Velvet Underground.

Resta comunque il fatto che il disco è veramente figo e trovo I Wanna Be Your Dog spettacolare, con Cale che suona insistentemente la stessa nota al piano (un po’ come farà Bowie per Raw Power) e con Ron Asheton alla chitarra acida distorta capace di sbatterci sul muso un giro di accordi bello cazzuto. La chitarra generalmente traccia una serie di sonorità da emicrania sulle quali si getta la voce di Iggy Pop che ripete in maniera autistica le parole (Not Right), ma l’effetto è piacevole e meno estremo di quanto risulta nei lavori successivi come Fun House e Raw Power.

Ahhh come ti ho rivalutato Iggy!

The Doors – The Doors

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Scrivere qualcosa sui The Doors è molto molto difficile… cosa mi metto a raccontare? Cioè è già stato detto tutto quanto, in tutti i modi possibili immaginabili.

Mi sono cacciato proprio in un cul-de-sac… però è anche vero che – di primo acchito – se una pagina dove si tratta di musica non scrive nulla sui The Doors fa la figura da pagina peracottara. Quindi qualcosa mi inventerò, sperando che l’ovvietà non domini questo articolo.

Cominciamo l’angolo Alfonso Signorini, la scelta dell’articolo è ricaduta sui The Doors oltre che per la relazione intercorsa tra Morrison e Nico, anche perché poco dopo la morte di Jim Morrison fu presa in considerazione – dai membri della band – l’idea di proseguire il progetto con Iggy Pop al microfono. Iggy e Nico sono due dei principali protagonisti di questo mini-ciclo; e non è finita qui!

Andy Warhol era invaghito del fascino di Jimbo, un’attrazione che rasentava il grottesco, tanto da voler svolgere il ruolo di voyeur durante lo zicchezzacche tra i due. Andy chiese a Jim di prender parte ad uno dei film che stava girando (I, A Man), ma il manager dei The Doors glielo impedì… tutto questo era giusto per mettere un po’ di ciccia nell’articolo.

Va bene dai, parliamo del disco di esordio di Morrison e amici bbelli, che è praticamente un best of: lo mettete sul piatto e via, vi immergete direttamente nelle loro poesie, in quelle meravigliose pentatoniche di Krieger, nelle atmosfere di Manzarek e nel tiro di Densmore. Ma cosa ha reso speciali i The Doors?

Jim Morrison.

Riduttivo? Forse, ma il carisma, la presenza scenica, il distacco e l’aura mistica, la capacità di essere feroce animale e al tempo stesso intellettuale, sono caratteristiche che non trovate in nessun altro.

Break On Through rompe gli schemi e inaugura il disco, il messaggio – che viaggia sopra ad una bossanova lisergica – è quello di aprire le porte della percezione (suggerite da Huxley nel suo The Doors of Perception) e spingersi verso orizzonti sconosciuti e inimmaginabili. Di fatto, mentre Huxley abusò di mescalina per scrivere le sensazioni vissute in prima persona, Morrison non seguì la ricetta fedelmente, sostituendo l’ingrediente principe con dosi di LSD (così dicono)…

La versione originale del brano non ebbe grande distribuzione radiofonica e fu ostracizzata dai baciamadonne puristi ammerigani per via del ritornello che incita in maniera esplicita all’uso delle droghe; perciò fu registrata una versione alternativa da poter trasmettere su Radio Maria nella quale “She gets high” diventa un ben più sobrio e insignificante “She gets…“. Fortuna che con gli anni siamo tornati all’originale… questa è stata solo la prima di una lunga serie di guai tra Morrison e l’opinione pubblica che lo porteranno ad essere un osservato speciale per l’FBI.

Altro celebre tentativo di censura è quello incorso all’ Ed Sullivan Show, dove Ed Sullivan in persona chiese a Morrison di modificare il testo di Light My Firehit nata dalla mente di Krieger – da “girl, we couldn’t get much higher” ad un più triste “girl, we couldn’t get much better“… insomma, è come se Pippo Baudo chiedesse ai Dari di cambiare il ritornello di Wale (Tanto Wale) arrogandosi il diritto di sostituire frasi e cambiando di fatto il senso della frase.

Va be, Morrison gli da il contentino “Certo Mr. Sullivan, sì sì”, e poi TAC! non cambia un cazzo…(è bellissimo vedere il sorrisino di Krieger sullo sfondo nel momento in cui Morrison decide di far come gli pare) Jim la canta in maniera naturale e non in modo forzato come viene riproposto nel film da Oliver Stone. Il povero vetusto conduttore si rifiutò di stringer la mano a Morrison una volta sceso dal palco, maledicendolo e dicendogli che non avrebbero più suonato nella sua trasmissione. Poco male Ed, ha vinto Jimbo, e di brutto.

Sempre a Light My Fire è legato un aneddoto che mostra l’integrità morale di Morrison, che impedisce l’utilizzo della canzone per uno spot televisivo della Buick, buttando di fatto 68mila dollari che gli altri 3 membri della band avevano accettato senza troppo rimuginarci sopra.

Tornando al disco è un susseguirsi di capolavori, con Soul Kitchen e Crystal Ship (canzone d’amore scritta da Jim Morrison alla ragazza con la quale aveva rotto recentemente, tale Mary Werbelow), proseguendo per Alabama Song (cover estratta dall’operetta Little Mahagonny di Kurt Weill – che musicò le parole di Bertolt Brecht e della collaboratrice Elisabeth Hauptmann) dove Jimbo intervenne su qualche verso. È un disco che corre veloce con il blues di Back Door Man e con il trittico stordito di I Look At You, End Of The Night e Take It As It Comes, preparatorio a The End, vera e propria carta d’identità della band.

Father?/ Yes, son?/ I Want To Kill You. Mother, I want to …

The End desterà scandalo alla prima esibizione al Whiskey A Go Go, quando Morrison – in un flusso di coscienza delirante di 12 minuti all’incirca – raggiunge il climax con questo verso che racconta un complesso di Edipo in piena regola. Ciò, come ha spiegato Manzarek, non significa che Morrison avrebbe voluto fare ciò ai suoi genitori, era solo per mettere un po’ di pathos nell’esecuzione.

Jim ci riassume il significato di The End in queste poche righe “Tutte le volte che ascolto questa canzone, significa sempre qualcosa di diverso per me. È cominciata come una semplice canzone di arrivederci… probabilmente per una ragazza [sempre per Mary Werbelow ndr], ma l’ho vista come un possibile arrivederci ad una certa infanzia. Veramente, non lo so. Penso sia sufficientemente complesso e universale nel suo immaginario che possa significare ciò che vuoi che significhi.”

Nico – The Marble Index

Nico - The Marble Index.jpgNico è un angelo decaduto, troppo bella per essere paragonata ad una creatura terrena, altrettanto austera da apparire indecifrabile. Rifuggiva la propria bellezza, tanto da danneggiarla in ogni modo possibile (soprattutto con tinte nere corvino ed eroina); reputava la bellezza un ostacolo alla propria arte, forse per i suoi trascorsi da modella ed attrice che ne offuscavano l’effettivo potenziale creativo.

Nico è la mia costante – per le relazioni ed i luoghi che ha vissuto – colei che mi consentirà di parlare di New York e dei vari: Bob Dylan (con lui ha avuto una mezza tresca); Rolling Stones (si è trombata Brian Jones ed ha abortito un loro figlio); Jim Morrison (si son trombati per bene, storia di cazzi e cazzotti); Jackson Browne (si è trombato pure lui perché ha scritto qualche brano per Chelsea Girl); Velvet Underground (si è trombata John Cale? Forse); Lou Reed (Lou se l’è trombato e di che tinta); Iggy Pop (per Iggy è stata una nave scuola tanto da attaccargli lo scolo); Leonard Cohen (s’è trombata anche Lenny) e Alain Delon (non parleremo di lui ma se l’è trombato e ci ha fatto un figlio).

Ora non voglio parlare delle varie trombate – anche perché stento a credere che la lista si fermerebbe qui – quanto piuttosto del fatto che Nico era una vera e propria icona (parafrasando il documentario dal titolo NICO – ICON) e punto di riferimento per tanti artisti. Musa e non solo, artista totale, sacerdotessa delle tenebre pronta a sacrificare quanto madre natura le ha dato per farsi carico di un bene superiore: l’arte.

The Marble Index è il secondo disco di Nico – prodotto da John Cale – assume una dimensione differente rispetto all’esordio da folk classico Chelsea Girl – album marchetta, studiato a tavolino da Warhol nel quale Nico interpreta discretamente brani inediti di altri autori. Jim Morrison dopo una breve -seppur intensa – relazione autodistruttiva con la bionda teutonica, la spinge a scrivere dei testi propri e ad assecondare la propria essenza.

Jim Morrison è la scintilla che accende Nico, si narra che il loro primo incontro – dopo del gelo iniziale – cominciò con delle tirate di capelli, schiaffi e classici comportamenti da innamorati. Questo può essere definito come il rito di iniziazione della sacerdotessa e dello sciamano, il resto lo hanno fatto i viaggi nel deserto sfondandosi di allucinogeni.

Quei trip si riversano su The Marble Index, un disco teatrale, cacofonico e gotico, dove la voce di Nico – fortemente caratterizzata dal suo accento – si incrocia continuamente con l’armonium completamente fuori tonalità “L’armonium era talmente fuori tonalità con tutto. Anche con sé stesso. Lei ha insistito nel suonarlo dappertutto così abbiamo dovuto trovare il modo di separare la sua voce il più possibile e trovare un modo per amalgamare il tutto con la pista dell’armonium…. come arrangiatore solitamente si cerca di registrare una canzone e fare una struttura su di essa, ma non era possibile lavorare in questo modo nella forma libera che aveva registrato, rendendo il tutto astratto” ricorda John Cale.

Come scritto è un disco gotico nel pieno significato del termine, ci sono degli eco che ricordano i canti gregoriani, parvenze di musica medioevale e un’idea tetra che serpeggia per tutto il disco dando un’aria di tregenda, dove Nico officia la sua messa personale e solitaria, una solitudine ricercata con decisione. Un disco complesso ed articolato più di quanto appaia.

P.S. Ho scritto questo articolo di notte ascoltando The Marble Index, cagandomi leggermente sotto… quindi se siete suscettibili non ascoltatelo, perché è come sentirsi addosso gli occhi spiritati di Nico per tutta la durata dell’ascolto.

Nine Inch Nails – The Downward Spiral

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Ecco, un altro di quei dischi sui quali puoi scrivere un libro, premetto che sarà dura essere concisi ma ci proverò.

In primis, l’album è fortemente ispirato a Low, sia nella struttura che nella metodologia di lavoro, tant’è che Reznor chiama Belew e lo sottopone alla stessa richiesta che Bowie ha avanzato a lui per Lodger – e prima ancora a Fripp per Heroes – “suona liberamente e concentrati nel fare rumore”. Si perché le registrazioni avvengono tramite un Mac e i suoni sottoposti a brutali variazioni tramite software digitali. Un approccio che può ricordare le campionature dei Depeche Mode, ma rispetto a loro siamo dinanzi ad un album brutale, pesante e aggressivo nel suo sound.

Siamo all’alba di una nuova era e questa era appartiene a Trent Reznor.

Letteralmente Downward Spiral significa spirale verso il basso, ed è quella nella quale Reznor sprofonda in un viaggio di oltre un’ora, partendo dalla frenesia di Mr. Self Destruct e precipitando sino alla title-track – che termina col suicidio del protagonista – fino ad Hurt e al rombo che la conclude. “Quando ho cominciato a lavorare su Downward Spiral, ero veramente depresso e il tema dell’autodistruzione è rimasto fortemente nella mia testa. Volevo fare un disco che esplorasse la sensazione di isolamento, di autodistruzione, di tutto quanto riguardi la propria vita. Ho tirato giù le diverse modalità di autodistruzione. E’ il mio tentativo di spazzar via l’oscurità interiore. […] è il punto di vista di una persona che getterebbe via ogni aspetto della propria vita, dall’incapacità di relazionarsi con gli altri fino a se stessi, dalla religione alla paura delle malattie. Non è rabbia ma ansia.”

Quest’ultima osservazione ci aiuta nella comprensione di Closer, brano che ha da sempre suscitato le fantasie dei più con quel ritornello esplicito che lascia intendere alla lussuria sfrenata. Un’interpretazione del tutto mendace in quanto Closer si concentra sull’ossessione e sull’odio verso sé stessi. Il suono della grancassa – come a simulare il battito cardiaco – è un sample preso da Nightclubbing di Iggy Pop. Il videoclip è un “monumento” ambientato nei laboratori di quei medici dell’800, e ci illustra attraverso dei simboli i temi ed i lati che appartengono alla nostra cultura e società (religione, politica, test sugli animali, sessualità e terrore) è quindi possibile scorgere: delle teste di porco; dei diagrammi di vagine; una scimmia legata ad una croce; una donna pelata con un crocifisso in mano; Reznor prima vestito in latex e poi con una ball gag. Insomma un bordello stile American Horror Story.

Una visione nichilista e paurosa della vita, uno stato – quello della depressione – alimentato dalla scelta di trasferirsi al 10050 Cielo Drive durante le registrazioni dell’album, per i più distratti, casa Tate. “Durante le registrazioni vivevo nella casa nella quale venne uccisa Sharon Tate. Un giorno incontro sua sorella che mi lapida: ‘Stai sfruttando la morte di mia sorella vivendo nella sua casa?’ […] Per la prima volta pensai che aveva perso la sorella per mano di gente becera e ignorante. Parlandomi realizzai ‘Se fosse stata mia sorella?’ e pensai ‘fanculo Manson‘. Andai a casa e piansi tutta la notte facendomi vedere le cose da un’altra prospettiva.”

What I’ve Become?The Downward Spiral è l’intero processo di disintegrazione dell’uomo, un uomo che distruggendosi perde ogni debolezza divenendo in parte automa – trasformazione evidenziata dalle battute impetuose delle batterie e dei suoni campionati – e ferendo chi è vicino a lui; accorgendosi di quanto è successo prova il suicidio e quello che c’è dopo ci viene spiegato in Hurt. L’autodistruzione viene cantata come un abuso di droga, ma è una metafora che apre ad ogni tipo di abuso (tranne quello edilizio): di chi annulla sé stesso per seguire la religione ciecamente o chi lo fa per amore, di chi in pratica viene cambiato nella propria essenza. Un viaggio nella propria coscienza, che spinge alla consapevolezza dell’errore alla comprensione di dove si è sbagliato e alla redenzione virtuale.

Duran Duran – Rio

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Posso cogliere lo stupore nelle vostre facce, ma qui si parla di musica e si può passare da realtà più di nicchia ad altre più commerciali, come per i durani durani.

Sì ma perché Rio? Perché l’evoluzione dell’elettronica arriva a questa deriva opulenta, pacchiana ma non per questo meno interessante. C’è una ricerca dietro Rio, l’ultimo step che rende perfettamente fruibile la musica elettronica – mescolata alle chitarre – al volgo, la pop per eccellenza. Rio è il manifesto musicale degli anni ‘80, un medioevo a tratti perfidamente oscuro. Rio è Derelicte.

“E’ qualcosa che mi sono trascinato sino al mix. Ero completamente affascinato dal Brasile, Rio per me era l’esotico, una cornucopia di piaceri terreni, una festa che mai si sarebbe fermata. Un ficaio” ci dice John Taylor spiegandoci le origini del disco (tranne la parte del ficaio, diciamo che quello l’ho dedotto, ma sono pressoché sicuro l’abbia pensato per almeno qualche secondo).

Da questo concetto Russel Mulchay – l’uomo dei videoclip degli anni ‘80 – gira video su video in luoghi tropicali, ad esempio in Rio c’è questo yacht che sfreccia nel mare dei Caraibi, ma è difficile dimenticare anche la vena trash di Hungry Like the Wolf – con un LeBon infogliato in versione Indiana Jones con febbre alta e a tratti ferito – e Save A Prayer, il tutto immortalato tra lo Sri Lanka e Antigua. E’ un manifesto dell’osceno, nelle sue riprese mortalmente brutte, negli slow-mo, nella spensieratezza degli interpreti. Girati in pochi giorni, possiamo considerare queste perle prodromiche di Love Me Licia e della leggenda della sacra Fettina Panata. Ma criticare gli anni ‘80 in maniera veemente è come sparare sulla Croce Rossa, in fondo sono stati belli in quanto trash.

Riguardo la title-track Rio, è identificata in una figura femminile e lo sfarzo che trasmette il brano è in tutto quello che ci ha detto John Taylor. C’è una curiosità legata al verso “And she dances on the sand“, che – stando a quanto dice Le Bon – dovrebbe esser nato da un regalo che una fan fece recapitare alla band, una scatola di legno con solo della sabbia all’interno… già.

Un altro dei punti di forza di Rio è la presenza di Colin Thurstone – già tecnico in Lust For Life ed Heroes – abile arrangiatore e fine alimentatore di idee; uno dei suoi suggerimenti più decisivi è stato quello di mantenere la stessa base elettronica – proveniente dalla demo – per Hungry Like The Wolf. Un elemento molto forte e consistente nell’album è l’epicità di fondo che lo contraddistingue – oltre i singoli di punta anche canzoni come Last Chance On The Stairway e New Religion – generando una serie di cliché abbondantemente abusati nel corso degli anni.

Si Rio ha fatto scuola, ho piacere di soffermarmi sul brano di chiusura The Chaffeur, una canzone quasi estrema e fuori dalla logica dell’album. Una poesia scritta nel 1978 da Le Bon viene musicata diventando una delle composizioni più anomale dei Duran Duran: la parola Chaffeur – al contrario del resto della produzione – non viene mai nominata nel testo, ma racconta il punto di vista di un autista che durante una giornata decisamente torrida trasporta un’avvenente donna di cui è innamorato, un amore destinato a non sbocciare perché ella è invaghita di un altro. A mettere allegria ci pensa poi il suono dell’ocarina – suonata da ciccio Le Bon – che rende il brano decisamente malinconico

Talking Heads – Remain In Light

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I Talking Heads sono in pausa di riflessione, ognuno per i cazzi propri dopo il tour del 1979… chi intento a registrare il proprio album chi a farsi una vacanza e così via. I precedenti sforzi hanno esacerbato gli animi e la sensazione comune è quella di un Byrne accentratore e col pallino in mano. Dopo essersi confrontato con Harrison, Weymouth e Frantz, la voglia di continuare insieme rimane forte, ma con un approccio democratico basato sulla condivisione.

Si comincia a suonare e si registrano le demo, questi tape vengono fatti ascoltare ad un reticente Eno, poco incline a proseguire la collaborazione con Byrne e soci dopo Fear Of Music e More Songs About Buildings and Foods. Diciamo che l’afro-funk riesce a convincere il professorino: un modo secondo Byrne di tornare alle origini, essere meno cervellotici fuggendo dalla paranoia tipica della New York anni ’70.

La sensazione che trasmette Born Under Punches in apertura è che non sfigurerebbe sicuramente in un album come Lodger, nonostante ci sia il marchio di fabbrica di Byrne è impossibile non notare la chitarra di Belew e la produzione di Eno. E’ come se – con Remain In LightEno abbia trovato la valvola di sfogo che non gli è stata concessa in Lodger, di sicuro il suo modo di riuscire a sovrapporre chitarre, basso e percussioni in questo brano rende il prodotto finale indiscutibile.

Non ci sono solo le Strategie Oblique qui, ma anche testi in associazione libera e flussi di coscienza continui – sulla scia di Iggy Pop e il Bowie di Low e Heroes – utilizzati per vincere il blocco dello scrittore seguendo quanto fatto dai musicisti africani: se ti dimentichi cosa stai cantando, improvvisa, non è necessario usare parole sensate.

Woooahhh si apre un mondo! Sulle basi musicali già registrate,  Byrne canta suoni senza senso, onomatopee che – registrazione dopo registrazione – sembrano trasformarsi in parole. Da questo processo nascono i testi di Remain In Light.

Con Crosseyed and Painless continua il funky contaminato da beat africani, anche qui è possibile trovare un parallelismo con Lodger ed African Night Flight, con un accenno di rap come lo stesso Bowie aveva fatto. E’ come se molti discorsi lasciati in sospeso dalla diaspora Bowie/Eno fossero approdati a naturale conclusione – due anni dopo – grazie alla piena collaborazione di Byrne. Un’omogeneità che viene mantenuta con The Great Curve, dove i ritmi vengono estremizzati, annoiando chi ascolta o coinvolgendolo totalmente in questa musica da ballo. Il difetto di questo disco è la durata delle singole tracce, che avvalendosi di riff e pattern ripetuti rischiano di apparire più lunghe di quanto lo siano realmente, proiettando chi ascolta in uno stato di ossimorico straniamento e assuefazione, ancorato unicamente alla voce di Byrne tra la chiacchiera e l’urlato.

A proposito di urlato, Once In A Lifetime è sicuramente il brano più rinomato dell’album che prende spunto da una predica Evangelista. La reiterazione della frase “And you may find yourself” vuol consolidare l’idea del sermone, tante delle frasi presenti nel testo sono state captate e tenute da parte da Byrne mentre le ascoltava nella Radio Maria americana (registrazioni tenute da parte anche per My Life In The Bush Of Ghosts), dimostrando anche in questo caso un modo del tutto non convenzionale di comporre.

Il filo conduttore in Remain In Light è il funky, la situazione lounge oltre che un’ibridazione della world music rodata e messa a punto dal duo Byrne/Eno. Per quanto poi il ritmo scanzonato e l’allegria presente nella prima parte vada pian piano scemando col proseguire del disco nella malinconia di Listening The Wind e in una depressione riflessiva con The Overload.

Joy Division – Unknown Pleasures

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The Idiot che risuona nel giradischi e La Ballata di Stroszek come ultimo film prima che il destino si compia. Gli ultimi momenti di Ian Curtis sono segnati da Herzog e Iggy Pop, quest ultimo è proprio il ponte che ci ritrascina all’interno della Trilogia Berlinese.

Facciamo un passo indietro al 1979 – ad un anno prima del suicidio di Curtis – l’anno della pubblicazione del grande disco di esordio Unknown Pleasures, a posteriori il più rinomato dei Joy Division per via dell’artwork così minimale.

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L’immagine di Unknown Pleasures è stata fin troppo strumentalizzata da ragazzetti e profani che l’hanno piazzata un po’ ovunque – come la faccia del Che -, pertanto ritengo di dover spiegare brevemente cosa rappresenti la cover del disco. L’immagine deriva da una pubblicazione del 1977 L’Enciclopedia Astronomica di Cambridge, all’interno del quale è possibile trovare questa prima rappresentazione grafica delle radiofrequenze ricevute da una pulsar (effettuata nel 1967). L’immagine è stata presa da Peter Saville e riversata in negativo nella forma che tutti noi conosciamo.

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Torniamo al contenuto del disco: il fatto che per Curtis, The Idiot, rappresentasse il disco preferito può lasciar intendere quanto è stata forte l’influenza di Pop e del Bowie di Low, con quelle sonorità claustrofobiche e fortemente cadenzate.

Forse non tutti sanno che durante la prima ondata punk, il nome scelto dai ragazzi mancuniani è stato Warsawa, probabilmente in onore della canzone simbolo di Low, a questo periodo risale la scrittura di alcuni brani come Shadowplay ed Interzone. Cambiando il nome – per evitare confusioni con un’altra band di Londra – cambia anche l’approccio musicale che da punk aggressivo matura dirigendosi verso lidi meno scontati.

Chi conosce la figura di Ian Curtis non può non aver notato i suoi movimenti concitati, le sue danze epilettiche (non mi riferisco alle crisi epilettiche alle quali era soggetto Curtis e oggetto della canzone She’s Lost Control, ma ad una sorta di trance prestazionale nella quale Curtis cadeva facendola sfociare in una danza del derviscio), l’aura di malinconia che avvolgeva la sua persona, un’inquietitudine che ha influito sulle sonorità dei Joy Division e gli ha conferito l’immortalità artistica: “non scrivo di niente in particolare, ciò che scrivo proviene dal subconscio. Lascio l’interpretazione della canzone aperta a seconda di chi sia l’ascoltatore”. Un subconscio fortemente influenzato anche dai Bauhaus e dal loro stile gotico, un ascendente molto forte nonostante il gruppo di Murphy avesse all’attivo solo due singoli (tra i quali Bela Lugosi’s Dead) ed un album in cantiere.

Peter Hook e Bernard Sumner hanno lamentato un sound troppo etereo – in origine – prediligendo una scelta più dura e sferzante, ma con il passare degli anni hanno cambiato opinione dando ragione al lavoro del produttore Martin Hannett – che esalta la pregevolezza dei brani – tributandogli il ruolo di creatore del sound dei Joy Division. Ian Curtis, probabilmente ammaliato dall’idea di Hannett, ha trovato nella versione definitiva di Unknown Pleasures la sua dimensione.

David Bowie – Lodger

David Bowie - Lodger.jpg

Tony, Brian e io abbiamo creato un linguaggio di suoni potente, angosciato, a volte euforico. […] Nient’altro aveva il suono di quegli album e nient’altro gli si è avvicinato. Non avrebbe avuto alcuna importanza se non avessi fatto più nulla dopo quei 3 dischi, lì dentro c’è tutto me stesso. E’ il mio DNA.”

Lodger fatica ad arrivare, dopo il tour di Low/Heroes Bowie se ne va in giro per il mondo: Kenya, Giappone, Stati Uniti, è tutto un viaggiare. Il titolo del disco esprime proprio il concetto di “ospite”, in giro e senza fissa dimora, alla ricerca di contaminazioni. I tempi di Berlino sono quasi dimenticati – nonostante Lodger venga considerata la punta del trittico Berlinese. In comune con i precedenti Low e Heroes c’è la band ed il contributo di Visconti e Eno. Al posto di Fripp, alla chitarra solista c’è Adrian Belew, scippato a Frank Zappa dopo un concerto a Berlino dello Sheik Yerbouti Tour.

Piccola Parentesi

*Belew vede in zona mixer Bowie e Iggy Pop, Bowie gli propone di diventare il suo chitarrista per il tour di Heroes e Low (The Isolar II) che sarebbe cominciato due settimane dopo la fine dello Sheik Yerbouti Tour di Zappa. Vanno a cena insieme, destino vuole che Zappa va nello stesso ristorante… Dio ci salvi… Frank si avvicina al tavolo di Bowie e Belew sentendo puzza di tradimento. Il dialogo che ne segue è riportato di sotto:

DB: “Che gran bel chitarrista che hai Frank!”

FZ: “Fottiti Capitano Tom”

Al che Bowie cerca di attaccare bottone provando ad essere ancora cordiale e

FZ: “Fottiti Capitano Tom”

DB: “Non hai veramente nient’altro da dire?”

FZ: “Fottiti Capitano Tom”

Al che Bowie e Belew si alzano e se ne vanno in limo. Bowie col suo aplomb e umorismo britannico liquida la questione con un “Penso che sia andata piuttosto bene!”. E scippo fu.*

Lodger fatica ad arrivare, perché dopo aver vissuto gomito a gomito l’epopea di Heroes, Eno e Bowie si son persi di vista sviluppando visioni musicali non più tanto comuni. Questo sfocia in una acrimonia che non fa bene al disco, facendo nascere un ibrido dall’identità sporca, nel quale le personalità di Eno e Bowie cozzano in maniera prepotente. Eno a differenza delle prime due fatiche entra in maniera più determinante nelle logiche del disco, sia come musicista che come cultore di novità. Mentre le Strategie Oblique sono largamente accettate dopo le sessioni di Heroes, altre tecniche di pensiero laterale vengono difficilmente digerite dai musicisti – annoiando soprattutto Alomar. Creando quel senso di lezione scolastica dove Eno si comporta da professorino.

Lodger fatica ad arrivare, in quanto dopo aver terminato le sessioni delle basi musicali, Bowie fa passare 5 mesi prima di riprendere in mano il progetto e registrare il cantato. Con Visconti e Belew si va a New York a completare il disco, ma gli studi non sono mica come in Europa e l’attrezzatura non è tale da consentire un lavoro ottimale.

Lodger arriva, per quanto critica e principali artefici lo definiscono un incompiuto, per quanto le inimicizie interne abbiano inficiato sul risultato finale del disco, Lodger è un gran bel disco con un potenziale enorme espresso in parte.

Il tema del viaggio – evidenziato anche dalla cartolina dell’artwork – è prodromo di un certo tipo di world music e segue il concetto di motorik intrapreso da Neu!, Kraftwerk e in Station to Station. Così come il riciclo di canzoni passate dimostra una strepitosa attitudine allo studio della diversità.

Red Money è Sister Midnight – scritta durante lo Station to Station tour e donata a Iggy Pop – e che dire di Move On, una versione di All The Young Dudes al contrario ri-arrangiata, ma la figata si raggiunge con la Strategia Obliqua che suggerisce di suonare Fantastic Voyage con interpreti diversi agli strumenti, i musicisti così si scambiano le postazioni ed esce fuori una versione più veloce e decisamente più ritmata: Boys Keep Swinging.

Lodger è arrivato e ha chiuso un cerchio strepitoso che ancora oggi ci fa sognare.