My Bloody Valentine – Loveless

My Bloody Valentine - Loveless

Quando penso ai My Bloody Valentine, prima in testa risuona il feedback – così acuto da avere l’impressione di avere delle lame nel cervello – con le distorsioni di chitarra ed i suoni campionati, solo in seconda battuta riesco ad associarli ad una immagine. I suoni dei quali sto parlando provengono tutti da Loveless.

Potrei scrivere di quanto Loveless sia stato un disco epocale, potrei continuare magnificando l’impatto che i My Bloody Valentine hanno avuto sul panorama musicale, (di fatto sto scrivendo tutto questo @_@) ma non lo farò (falso), in quanto questo è ciò che fanno tutti quando di mezzo c’è Loveless (vero).

Quindi in questo articolo – che si sta trasformando ormai in un surrogato di una canzone di Paolo Meneguzzi – è necessario aggiungere un po’ di sostanza, che ne dite? (ve lo ricordate che spettacolo di video trash che aveva buttato su il buon Meneguzzi per l’occasione?)

Per molto tempo, si è pensato ai My Bloody Valentine come degni eredi di Fleetwood Mac e ABBA (falso). La realtà dei fatti però vede questo assunto vero a metà (falso è stato un gioco, falso io lì non c’ero [perdonatemi, interrompo subito la meneguzzite violenta che mi sta ammorbando ndr]), Bilinda Butcher – ragazza madre londinese, nonché chitarrista e meravigliosa voce dei MBV – e Kevin Shields – fondatore dei My Bloody Valentine – hanno una tresca, cosa che fisiologicamente non può esserci tra Colm O’Ciosoig e Debbie Googe, un po’ per colpa del di lui nome, un po’ perché ella convinta militante sgranocchiapassere.

Ma non soffermiamoci troppo sul gossip da due spicci, suvvia!

Dietro Loveless si celano svariate ispirazioni, Bilinda ad esempio spendeva gran parte dei suoi giorni felici ad assistere a concertini di gruppettini come Birthday Party, Joy Division e Talking Heads, ma anche Cramps. Ecco proprio da questi ultimi Kevin ha mutuato lo stile nel suonare la sua Jazzmaster, di ritorno da un loro concerto a Berlino nel 1984 – come un Winston Smith assalito da una sequela di dubbi – si pone la domanda “Ma se suonassi la chitarra tenendo costantemente la mano sul tremolo??? Devo provarci”. E alla fine ci ha provato e si vede che gli è pure piaciuto.

Non mi inoltro nei gusti degli altri per le fonti di ispirazione, perché fondamentalmente sono stati Kevin e Bil i fautori del disco, anzi… diciamo che l’aspetto musicale è stato curato in toto dal buon Kevin che a detta di Bilinda ha sempre avuto il quadro ben chiaro nella propria mente. Talmente chiaro da reputare una perdita di tempo lo spiegare agli altri membri della band le loro parti e come le aveva pensate. È così che Loveless prende forma, con Kevin che suona le parti di tutti durante le 19 sessioni… eh sì, suona le parti di Bil, di Colm e di Debbie; tant’è che quest’ultima durante le sessioni di chiusura riduce drasticamente la presenza negli studi.

A Bilinda questa storia poi non è che abbia fatto più di tanto né caldo né freddo, di fatto è sempre stata come appare, ai limiti del “lascia scorrere”, l’aneddoto sull’origine del suo nome vi darà una dimensione della sua persona “Proviene da mio nonno, se fossi stato un maschietto mi sarei chiamata Bill, ma nascendo femmina divenne Bilinda. John Peel una volta disse durante la propria trasmissione che era solo un tentativo presuntuoso di rendere speciale il mio nome [pensava si chiamasse Belinda ndr]. Mi ha infastidita. È il nome che mi hanno dato… ma non avevo energie per scrivergli un reclamo”.

Bilinda è questa, una ragazza che non consentiva agli ingegneri di presenziare alle registrazioni della propria voce durante le sessioni in studio con Kevin. Capite bene che l’essere guidata in tutto e per tutto da Shields non è stata sicuramente vissuta come un’imposizione.

Certo che essere svegliata all’alba – dopo aver appena abbracciato Morfeo – per ottenere una voce sognante e sonnacchiosa nelle registrazioni, non deve esser stato piacevole “Kevin ha sempre difeso il mito di noi come una band. Nelle interviste non ha mai affermato di essere l’unico a fare musica. Probabilmente si arrabbierebbe se leggesse ciò che sto dicendo ora. Colm aveva buone idee ma considerato che eravamo sempre di fretta durante le registrazioni, Kevin ci chiedeva di non suonare nulla [mhhh, che divertimento ndr]. Andavamo tutti insieme in studio e Kevin ci voleva lì per conoscere le nostre opinioni, non era un dittatore. Le canzoni prendevano forma di volta in volta”.

Riguardo lo scarso contributo di Colm, Kevin mostra una versione dei fatti più dettagliata “Colm aveva raggiunto il limite, era diventato un senzatetto. Veniva ospitato sui divani ma poi si è buscato un virus brutto brutto brutto. La sua salute andava di male in peggio. È stato un periodaccio per tutti noi, troppa pressione”.

I testi invece hanno visto l’intervento decisivo di Bilinda, in confronti serrati e rigorosi a tavolino con Kevin per buttar giù qualcosa che fosse originale, nel tentativo di evitare ogni sorta di potenziale banalità. La sensibilità femminile e la timidezza vocale (soprattutto dal vivo) sono ampiamente percepibili, in una combinazione che rappresenta quello che Bilinda chiama “terapia ipnotica”, così come la piena dedizione e l’ammirazione nei confronti di Kim Gordon dei Sonic Youth, vera stella polare di Bil.

Difficile trovare una descrizione più corretta di “terapia ipnotica” per Loveless [solo per l’aspetto musicale, i video fanno venire il mal di mare e sbattono in faccia una serie di cliché da videomaker anni ‘90 niente male], un disco a cavallo fra la depressione e la redenzione, tra chitarre dissonanti e sensazioni zen, non c’è nulla fuori posto. Unica raccomandazione: lasciarsi trasportare secondo per secondo, senza farsi domande.

Perché gli anni ‘90 – in fondo – sono stati veramente belli.

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Suicide – Suicide

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“Se sei brutto, ti tirano le pietre,

Se sei Alan Vega, ti tirano le asce”

Cantava Antoine nel 1967, anticipando di 11 anni quanto sarebbe successo durante un tour europeo dei Suicide in apertura ai Clash.

Ma perché? Perché c’è questo accanimento verso i Suicide? Perché hanno cominciato al CBGB’s e sono finiti in Europa? Perché? Perché? Perché? (da ripetere in maniera disperata alla Antonio Socci durante la lite con Capezzone in una puntata di Excalibur).

Partiamo dal principio, i Suicide forse non li avete mai sentiti (non è che siano mai stati così celebri nello stivale) ci hanno provato gli Afterhours con Milano Circonvallazione Esterna a farceli apprezzare, ma l’effetto è stato tutt’altro che quello desiderato in principio. Il problema è che se non sei Alan Vega non li puoi fare i suoi urletti, soprattutto se ti prendi troppo sul serio (come gli Afterhours da Non è per Sempre in poi).

Vabè, chiudo la polemica tra me e il sottoscritto.

Alan Vega è famoso per il suo modo di cantare e per il suo trasporto nel canto, simula l’amplesso in ogni canzone del disco d’esordio, per questo si becca insulti da morire negli States. Insieme a Martin Rev – il tappeto sonoro vivente dei Suicide – se ne vanno in Europa ad aprire i concerti dei Clash, dove vengono insultati come accade con Richard Benson, culminando poi nel lancio dell’ascia che sfiora Vega a Glasgow. Un grido lancinante si alza in sala “I NANIIIIII!!!”.

Se fosse stato centrato, la band avrebbe dovuto cambiare nome in Homicide.

“Suppongo fossimo più punk dei punk nella folla. Ci odiavano. Allora li ho provocati: ‘Voi teste di cazzo, dovrete passare sopra di noi prima che suoni la vostra band!’ È stato quello il momento in cui l’ascia ha sfiorato la mia testa per un pelo. È stato surreale. Ho pensato di trovarmi in un film 3-D di John Wayne. Ma non c’era nulla di inusuale. In ogni concerto dei Suicide in quel periodo era come trovarsi nella terza guerra mondiale. Ogni sera credevo che sarei stato ucciso.” Alla fine Alan è campato tanto da potersi ritenere un sopravvissuto, purtroppo però ci è stato portato via da un 2016 che non ha lasciato prigionieri.

I Suicide non sono stati capiti – da quel che avrete capito – ospiti fissi del CBGB’s insieme a Patti Smith, Television, Talking Heads e Ramones, vennero ridicolizzati dalla critica salvo poi – come spesso capita – far dietrofront. La vera fortuna per il duo Vega e Rev è stato quello di incontrarsi a SoHo in un laboratorio artistico: “Abbiamo avuto la stessa fortuna che hanno avuto Jagger e Richards quando si incontrarono” ricorderà il cantante, in principio scultore; uno originario di Brooklyn l’altro del Bronx, avevano in comune una povertà che caratterizzava le loro giornate (un po’ come per Patti Smith e Robert Mapplethorpe quando all’inizio della loro carriera si trovarono a New York).

Rev era in possesso di un Wurlitzer da 10 dollari che sputava suoni strani, e Vega improvvisava sopra quelle emissioni sonore; la vera rivoluzione avvenne nel 1975 quando il duo rimediò una drum machine che ne completava la struttura musicale e ne rafforzava la consapevolezza dei propri mezzi. Sarebbero diventati – da lì in poi – i pionieri della no-wave e del sound anni ‘80 fatto di sintetizzatori e merda elettronica (della peggior specie in molti casi).

I primi concerti sono ricordati per le performance dei due con un Alan Vega più body artist che cantante, capace di procurarsi ferite sul volto con la catena ed il coltello che si portava sempre sul palco. Fortemente forgiato dal rock ‘n’ roll di Gene Vincent, Roy Orbison ed Elvis, Vega riesce ad emulare ed evolvere il loro linguaggio musicale.

Suicide è un album meraviglioso, fonte d’ispirazioni per tanti musicisti, tra i quali Bruce Springsteen – che in Frankie Teardrop vede le origini per la sua State Tropper in Nebraska – o gli R.E.M. veri fanatici di Vega e Rev – celebri sono negli anni le loro interpretazioni di Ghost Rider.

Ah dimenticavo… il nome Suicide è un tributo al soprannome del protagonista nell’omonimo fumetto Ghost RiderSatan Suicide – del quale Rev è un grande ammiratore.

Talking Heads – More Songs About Buildings And Food

Talking Heads - More Songs About Buildings And Food

Eno è l’unica persona che comprenda il modo di suonare di David. […] Il senso del ritmo di David è folle ma fantastico. Una canzone parte incasinata per diventare poi un koala. È tremendamente difficile trasformare un’idea stupida in qualcosa di brillante. David ricava il dipinto dallo schizzo. È grandioso nel convincerci di come un’idea pazza possa divenire qualcosa di splendente.”

Tina Weymouth in questa intervista rilasciata a Creem, ci fornisce degli indizi che ci spiegano l’evoluzione dei Talking Heads:

1) More Songs About Buildings And Food è il secondo album delle teste parlanti, il primo affidato a Brian Eno;

2) Eno è l’uomo capace di intendersi con Byrne più di chiunque altro, perciò è da qui che nasce il sodalizio che porterà a Fear Of Music, Remain In Light, My Life In The Bush Of Ghosts;

3) Eno comincia una cura contro l’autismo da palcoscenico di Byrne (lui stesso definisce il proprio inizio di carriera aspergeriano) spostando il focus dalla sua chitarra alla sezione ritmica, mettendo in condizione il duo FrantzWeymouth di porre l’accento sui brani.

Come scritto per Talking Heads ’77 la forza della band è suonare dal vivo, la palestra che ne ha forgiato lo spirito ed il carattere, Eno propone così alle Teste Parlanti di entrare in studio e registrare completamente dal vivo i nuovi brani, questo infonde maggior coraggio ed estro nei Talking Heads che consente loro di chiudere le registrazioni ed i mixaggi in appena tre settimane (una in più del disco d’esordio).

Concedendo la ritmica a Frantz e Weymouth – e non essendo una band che basa i propri successi su giochi di chitarra pirotecnici – la peculiarità dei brani è incentrata non solo sui testi ma anche sulla voce di chi li interpreta e sul come lo fa. The Big Country in tal senso credo possa essere una canzone che ben rappresenta quanto scritto sopra.

Byrne ha trovato in Eno il suo Virgilio e Eno in Byrne il proprio Dante.

More Songs About Buildings And Food mostra la via, definendo il futuro che spetta ai Talking Heads, ma offrendo anche un’idea artistica riconoscibile grazie all’emblematica immagine di copertina raffigurante un mosaico di oltre 500 polaroid – scattate da David Byrne – rappresentante i membri della band.

Anche il titolo peculiare ha contribuito all’immagine coordinata del gruppo:

Tina “Come dovremmo chiamare un album che parla di cibo ed edifici?”

Chris “Puoi chiamarlo Altre canzoni sul cibo e sugli edifici (More Songs About Buildings and Food)”.

 

Talking Heads – Talking Heads ’77

Talking Heads - Talkings Heads 77

Ahhhh, il blocco dello scrittore, il male giunto a noi da epoche lontane, così vile da colpire alle spalle senza preavviso alcuno. Ok superata l’impasse della prima riga, posso continuare diritto come un fuso, barra a babordo fino alla terza riga e così sfruttando i venti dei mari del sud possiamo raggiungere serenamente la quarta riga di questo articolo.

Ora mi sento a posto con la coscienza e ho le mani abbastanza calde per poter scrivere dei Talking Heads, per la seconda volta su Pillole. Facciamo un bel passo indietro rispetto a Remain In Light, cercando di raccontare gli esordi e la nascita della leggenda di Byrne. Una disco emblematico che racchiude l’essenza del CBGB’s e di quanto raccontato negli articoli di questo ciclo, un album che porta sulla bocca di tutti i Talking Heads e la loro strampalata hit Psycho Killer, con quella strofa in un goffo francese (che detto tra noi non ho mai capito il motivo per il quale gli ammerigani e i musicisti d’oltremanica vogliano ogni tanto cimentarsi con l’idioma dei mangiaranocchie quando proprio non ce la possono fare, ma vabbé).

In principio, i Talking Heads – appena trasferiti a New York – vanno senza pensarci due volte da Hilly Krystal – proprietario del CBGB’s – che li provina e propone loro il ruolo di gruppo spalla dei Ramones. Gioia e gaudio!

Da questo punto in poi nasce la forza delle teste parlanti che si fanno le ossa trovando l’alchimia giusta tra funky tarantolato e new-wave, un’idea di musica differente dalla rapidità dei Ramones, dalle guerre tra chitarre soliste di Verlaine e Lloyd dei Television, o dalla solennità di Patti Smith. Byrne trova la formula per una proposta musicale ballabile, estremamente pop e sofisticata nelle sonorità, non scontata nelle liriche.

La gavetta nel CBGB’s da i suoi frutti, non tutti i gruppi in quel periodo nascono con la necessità di salire sul palco – bensì con l’esigenza di entrare in uno studio con canzoni fatte e finite – mentre i Talking Heads hanno affinato negli anni di CBGB’s e dei locali di lower Manatthan il loro timbro riconoscibile. Come ricorda Byrne nello splendido Come Funziona la Musica “All’epoca era inaccettabile che fare un gran disco fosse il massimo che si potesse chiedere ad un artista. Come disse una volta Lou Reed, ‘la gente vuole vedere il corpo’”.

Torniamo però brevemente a Psycho Killer, brano che racconta i pensieri di un killer e capace di penetrare nelle sinapsi con quel martellante giro di basso pronto a scatenare pensieri schizofrenici. Piccola nota di folklore: la canzone – suonata per la prima volta nel Dicembre del 1975 – si credeva fosse ispirata dai crimini commessi da David Berkowitz conosciuto come Son Of Sam, serial killer che ha terrorizzato New York a cavallo tra 1975 e 1977. Anche se, naturalmente è una coincidenza e non c’entra proprio un bel niente.

In ogni caso, Psycho Killer affonda le proprie radici nelle origini della band – in quello zoccolo duro composto da Weymouth, Byrne e Frantz, che all’inizio della loro avventura prendevano il nome di Artistic – dal 1974 al 1977.

Sarà l’unico brano composto dal trio a prendere parte al disco d’esordio. Byrne – come già narrato mesi or sono – assumerà un controllo sull’aspetto produttivo che allenterà poi in Remain In Light per garantire la sopravvivenza del progetto.

Talking Heads ’77 è a mio avviso un disco perfetto per durata e varietà dei brani, rimane un prodotto estremamente fresco confrontato ad un Remain In Light che figura leggermente prolisso e ripetitivo. Ecco, l’impressione che ho è che non sia un disco uscito dagli anni ‘70.

Last pillola riguardo questo disco: è stato prodotto da Tony Bongiovanni, produttore di Rocket to Russia dei Ramones e cugino di Jon Bon Jovi.

Television – Marquee Moon

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I Television hanno lasciato pochissimo materiale ai posteri, ma quel poco che è arrivato è di importanza cruciale; il sound di Marquee Moon donatoci da Tom Verlaine è unico e ha germinato fino ai giorni nostri. Tanti sono cresciuti con la sua chitarra tagliente – per quanto il chitarrista Richard Lloyd dichiari la paternità dello stile -, quei riff isterici e ossessivi, e la sua voce in tutto simile a quella di David Byrne (ma più sognante).

La strada verso il successo è stata veramente lunga e tortuosa: tante attenzioni da parte delle etichette discografiche che non si sono concretizzate, poi Brian Eno giunge – alla fine del 1974 – e produce una demo del disco che però non viene apprezzata da Verlaine “Ci ha registrato in un modo veramente freddo e fragile, senza risonanza. Eravamo orientati verso un suono di chitarra deciso… una specie di espressionismo”.

L’idea c’è, così come l’onestà intellettuale di rifiutare la collaborazione con Eno pur di perseguire il proprio credo musicale; col passare degli anni questo comportamento si avvicinerà più ad una sorta di khomeinismo da parte di Verlaine, di fatto restio a registrare qualcosa di nuovo o muoversi in degli studi di registrazione che magari non era solito frequentare. Questa “inedia” lo porterà ad un rapporto viscerale con Marquee Moon, un cordone ombelicale tuttora difficile da recidere.

Con l’uscita nel 1975 di Richard Hell abbandona – di lì a poco pubblicherà Blank Generation con i The Voidoids – sostituito al basso da Fred Smith (non Fred “Sonic” Smith degli MC5 marito defunto di Patti Smith) la formazione della band può considerarsi definitiva: Billy Ficca alla batteria – con marcata influenza jazz -, Tom Verlaine alla voce e chitarra, Richard Lloyd all’altra chitarra e ai cori. Questi ultimi, sono legati l’un l’altro dall’amore per New York, Baudelaire e Rimbaud (vi ricorda qualcuna per caso?).

Il legame tra Patti Lee e Tom Verlaine è forte, oltre alla condivisione degli interessi e dell’idea musicale, adottano lo stesso fotografo per le immagini di copertina, quel Robert Mapplethorpe miglior amico di Patti Smith.

Si entra in studio nel settembre del 1976, in preparazione alla registrazione dell’album le prove si intensificano (con una media di 5 ore al giorno per sei giorni a settimana), un lavoro certosino – che va oltre i 200 live sostenuti al CBGB durante gli anni – volto ad utilizzare il meno possibile la sala di registrazione.

Tom Verlaine viene considerato un poeta urbano, capace di prendere il testimone della lirica di Lou Reed e di rinfrescarla, a chi però cerca significati e vede sfumature nei suoi testi lo stesso Verlaine risponde che per tanti casi nemmeno lui sa di cosa tratti precisamente una canzone, scritta in un flusso di coscienza assecondando pensieri e sensazioni. Viva la sincerità!

Ritroviamo tutto questo nella splendida e interminabile title-track, un brano che nasce durante le prime esibizioni della band (difatti incluso anche nella demo di Eno) e che – da improvvisazione e cavalcata musicale – si trasforma in canzone vera e propria nel corso degli anni e dei concerti. Gira voce che Richard Hell abbia mollato il basso dei Television perché non in grado di suonare il brano in questione.

I Television sono portatori di una freschezza che nel panorama musicale mancava, freschezza figlia del periodo e del locale nel quale sono nati; meno cervellotici dei Talking Heads ma più colti dei Ramones. Marque Moon risulta uno dei dischi d’esordio più importanti mai concepito, ha tirato su musicisti di due generazioni e per dirla con le parole di Stipe “è un album stupendo, è secondo solo a Horses di Patti Smith“.

Talking Heads – Remain In Light

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I Talking Heads sono in pausa di riflessione, ognuno per i cazzi propri dopo il tour del 1979… chi intento a registrare il proprio album chi a farsi una vacanza e così via. I precedenti sforzi hanno esacerbato gli animi e la sensazione comune è quella di un Byrne accentratore e col pallino in mano. Dopo essersi confrontato con Harrison, Weymouth e Frantz, la voglia di continuare insieme rimane forte, ma con un approccio democratico basato sulla condivisione.

Si comincia a suonare e si registrano le demo, questi tape vengono fatti ascoltare ad un reticente Eno, poco incline a proseguire la collaborazione con Byrne e soci dopo Fear Of Music e More Songs About Buildings and Foods. Diciamo che l’afro-funk riesce a convincere il professorino: un modo secondo Byrne di tornare alle origini, essere meno cervellotici fuggendo dalla paranoia tipica della New York anni ’70.

La sensazione che trasmette Born Under Punches in apertura è che non sfigurerebbe sicuramente in un album come Lodger, nonostante ci sia il marchio di fabbrica di Byrne è impossibile non notare la chitarra di Belew e la produzione di Eno. E’ come se – con Remain In LightEno abbia trovato la valvola di sfogo che non gli è stata concessa in Lodger, di sicuro il suo modo di riuscire a sovrapporre chitarre, basso e percussioni in questo brano rende il prodotto finale indiscutibile.

Non ci sono solo le Strategie Oblique qui, ma anche testi in associazione libera e flussi di coscienza continui – sulla scia di Iggy Pop e il Bowie di Low e Heroes – utilizzati per vincere il blocco dello scrittore seguendo quanto fatto dai musicisti africani: se ti dimentichi cosa stai cantando, improvvisa, non è necessario usare parole sensate.

Woooahhh si apre un mondo! Sulle basi musicali già registrate,  Byrne canta suoni senza senso, onomatopee che – registrazione dopo registrazione – sembrano trasformarsi in parole. Da questo processo nascono i testi di Remain In Light.

Con Crosseyed and Painless continua il funky contaminato da beat africani, anche qui è possibile trovare un parallelismo con Lodger ed African Night Flight, con un accenno di rap come lo stesso Bowie aveva fatto. E’ come se molti discorsi lasciati in sospeso dalla diaspora Bowie/Eno fossero approdati a naturale conclusione – due anni dopo – grazie alla piena collaborazione di Byrne. Un’omogeneità che viene mantenuta con The Great Curve, dove i ritmi vengono estremizzati, annoiando chi ascolta o coinvolgendolo totalmente in questa musica da ballo. Il difetto di questo disco è la durata delle singole tracce, che avvalendosi di riff e pattern ripetuti rischiano di apparire più lunghe di quanto lo siano realmente, proiettando chi ascolta in uno stato di ossimorico straniamento e assuefazione, ancorato unicamente alla voce di Byrne tra la chiacchiera e l’urlato.

A proposito di urlato, Once In A Lifetime è sicuramente il brano più rinomato dell’album che prende spunto da una predica Evangelista. La reiterazione della frase “And you may find yourself” vuol consolidare l’idea del sermone, tante delle frasi presenti nel testo sono state captate e tenute da parte da Byrne mentre le ascoltava nella Radio Maria americana (registrazioni tenute da parte anche per My Life In The Bush Of Ghosts), dimostrando anche in questo caso un modo del tutto non convenzionale di comporre.

Il filo conduttore in Remain In Light è il funky, la situazione lounge oltre che un’ibridazione della world music rodata e messa a punto dal duo Byrne/Eno. Per quanto poi il ritmo scanzonato e l’allegria presente nella prima parte vada pian piano scemando col proseguire del disco nella malinconia di Listening The Wind e in una depressione riflessiva con The Overload.

Brian Eno – Before And After Science

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Dopo due anni di lavoro – un’eternità per chi fa dischi negli anni ’70 – e oltre 100 brani registrati con le Strategie Oblique, Brian Eno si è avvalso della collaborazione di questi signori: Phil Manzanera, Robert Wyatt, Jaki Liebezeit, Fred Frith, Phil Collins, Moebius, Roedelius, Conny Plank, Andy Fraser, Dave Mattacks, Bill MacCormick. E non solo!

Ecco chi ha lavorato a Before And After Science, un disco come composto – secondo Eno – da musica oceanica, in netta contrapposizione alla definizione di musica del cielo per Another Green World (commercializzato nel 1975).

Prima e dopo la scienza è un po’ come dire prima e dopo Cristo, il disco infatti è perfettamente divisibile in due, la prima sezione frenetica la seconda riflessiva. Nella prima facciata si denotano le influenze passate, presenti e future, le canzoni funk e tirate tra il Bowie di Low (in No One Receiving) ed i Talking Heads che andrà a produrre negli anni successivi.

La collaborazione con Byrne e soci comincerà immediatamente dopo Before And After Science, nonostante questo, alle Teste Parlanti dedica King’s Lead Hat – anagramma di Talking Heads – che se non ci fosse il faccione di Eno in copertina sembrerebbe proprio una loro canzone (con la chitarra solista di Fripp che fa grandi cose) tant’è che l’avrebbero cantata anche insieme questa canzone se Byrne e combriccola non fossero stati impegnati. Con questo brano possiamo anche identificare dei tratti distintivi dell’impronta che Eno da un anno a questa parte andrà a dare su Q: Are We Not Men? A: We Are Devo!

Before And After Science, è una radio accesa che cambia stazione di volta in volta, e nella quale possiamo ascoltare anche la frequenza di Canterbury. In Backwater, spuntano i massimi esponenti del non-senseBarrett e Ayers – con scioglilingua continui e atmosfere scanzonate degne di Joy Of A Toy; soprattuto quando nella coda del brano la chitarra elettrica è ancor più marcata (un po’ come per Religious Experience).

La stessa sensazione la si ha con il brano successivo: Kurt’s Rejohinder ha una linea di basso prettamente zappiana e un ritmo tribale di sottofondo al quale si aggiunge la voce campionata – dagli anni ’30 – del poeta dada Kurt Schwitters. L’intuizione di utilizzare una voce ripescata da un programma radiofonico ci offre un’anteprima di My Life In The Bush Of Ghosts, nel quale Eno e Byrne useranno le registrazioni, campioneranno suoni e… insomma ne parlerò un’altra volta su.

Frith invece mette lo zampino in Energy Fools The Magician con la sua chitarra “pimpata”, parte da una base jazz fino a diventare una classica sigla da Law And Order se fosse stato girato negli anni ‘80… per capirci una cosa tra la sigla di Attenti a Quei Due e Stranger Things, con una linea di basso jazz.

Il secondo lato si asciuga delle sovrastrutture pronunciate – della prima parte – guadagnandone in intensità, con la sensazione di trovarsi nel lato B di Low senza però avere l’angoscia e la potenza di Warszawa. Here He Comes nella sua malinconia è spensierata, ci si incupisce con Julie With – dove la musica oceanica risalta grazie ad una base musicale quasi acquatica – preparatoria alla perla By This River, con annessa conclusione delicata di Spider And I.

“Spider and I

Sit watching the sky

On our world without sound

We knit a web

To catch one tiny fly

For our world without sound”

P.S. vi sembrava che non avrei approfondito By This River? E’ un brano praticamente scippato da Eno durante le registrazioni del disco Cluster & Eno – che vedeva anche la partecipazione di Czukay. Niente praticamente Roedelius suona la melodia al piano, Moebius lo accompagna al basso, Eno dice “Weee Giampi! Guardate là ci fregano l’attrezzatura!” e mentre si girano ciula By This River ai Cluster scrivendoci il suo testo e cantandoci sopra. Easy no?