David Bowie – Blackstar ★

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Dove eravate quando è morto David Bowie?

Parafrasando articoli e riflessioni più auterevoli della mia, credo sia giusto porsi di nuovo la domanda: dove eravate?

Si perché nessuno si sarebbe mai aspettato di dare l’addio al Duca Bianco poco dopo la sortita del nuovo album, così scuro e così criptico. Nessuno avrebbe mai pensato che dopo aver flirtato con la morte – abusando di droghe negli anni ’70 – sarebbe potuto poi accadere veramente, insomma… nell’immaginario collettivo si era ormai diffusa la credenza che fosse immortale, un punto irremovibile nel marasma del cambiamento attorno a noi. E allora un evento così non può non sconvolgerti visceralmente, e quando vieni a saperlo non puoi non ricordare dove ti trovavi e con chi stavi. Un po’ come per la faccenda delle Torri Gemelle, sono cose che non dimentichi, momenti che non sei capace di capire.

Avvisaglie ne avevamo avute con il precedente album The Next Day, nostalgico il tanto che basta per non passare inosservato, e poi Blackstar registrato con quel flato di voce ai limiti dell’udibile. Come in ‘Tis A Pity She Was A Whore, la canzone – ispirata da una lettura, come già avvenuto sovente in passato – trae origine da una tragedia di John Ford del 17esimo secolo al quale Bowie ha aggiunto una struttura musicale con vertiginosi saliscendi di trombe, tanto da affermare che “se i Vorticisti avessero scritto una canzone rock avrebbe suonato così”.

Fortemente ispirato dall’album di Kendrik Lamar (che consiglio tantissimissimo)- To Pimp a Butterfly Blackstar assume una connotazione fuori dall’ordinario, perché a 39 anni di distanza Bowie si mette in testa di registrare la seconda canzone più lunga della propria carriera dopo Station to Station e per struttura musicale e intenzioni Blackstar la ricorda molto. Inoltre Blackstar ci viene regalato come singolo accompagnato da un vero e proprio cortometraggio, nel quale ci sono talmente tanti di quei riferimenti disseminati volutamente e in maniera forzata, che è quasi inutile cercare di fare i Greimas di turno per decifrarli. Così come risulta superfluo cercare di indagare su ogni singolo elemento dell’opera e della copertina… ci si affaccia in un campo ai limiti dell’impraticabile.

Lazarus è la naturale prosecuzione concettuale del videoclip di Blackstar – si scorgono alcuni elementi simili – nel filmato è ritratto Bowie in quello che dovrebbe essere il proprio letto di morte e – stando a quanto Visconti ha rilasciato – è una sorta di canzone epitaffio (così come tutto il disco). Il videoclip – che vede un Bowie decisamente provato –  termina con lo stesso David che si rinchiude dentro l’armadio, come fosse un congedo al suo pubblico. È stato pubblicato in data 7 gennaio, il giorno prima  del 69esimo compleanno di Bowie (e della commercializzazione di Blackstar) e tre giorni prima della dipartita dello stesso. La teatralità è sempre stato il punto di forza di Bowie e un addio del genere lo desidererebbe ogni artista, persino Ziggy.

Il ritorno ai fasti della Trilogia non è solamente legato alla Station to Station 2.0, ma anche all’improvvisazione in studio come avvenuto per Dollar Days – un brano che sembra partorito dalla discografia romantica anni ’80-‘90 di Bowie – “Un giorno David ha preso la chitarra… e aveva questa idea e l’abbiamo imparata in studio”, ricorda il sassofonista McCaslin. Un altro riferimento da lacrima facile è l’armonica in I Can’t Give Everything nella stessa tonalità dell’armonica suonata da Bowie di A New Career in A New Town il brano che inaugurava il lato B strumentale di Low. Segnava un nuovo inizio per Bowie, così come l’armonica di I Can’t Give Everything – ad apertura dell’ultimo brano di un disco Bowiano – rappresenta l’ennesimo nuovo inizio del nostro Duca.

Sento di fare un torto in qualche modo al mio credo, non ho mai scritto di album contemporanei, trovo estremamente difficile inquadrare un’opera attuale razionalmente in un contesto nel quale sono immerso emotivamente. E’ un album che non ho proprio capito, che mi sono sforzato di apprezzare e che ho compreso solamente il 10 gennaio del 2016. Ma a distanza di un anno dalla morte di Bowie ho creduto fosse necessario chiudere il ciclo di articoli sulla Trilogia Berlinese con Blackstar – così come lui ha chiuso la propria carriera – finendo di tracciare un immenso cerchio artistico e personale. La discografia di Bowie è conclusa, con un ultimo slancio vitale è riuscito a farci dono della chiave per poter interpretare tutta la sua carriera. Il Bowie del ’70 è stato prorompente nei suoi limiti e nelle sue intuizioni ed è quasi naturale fare questo salto quantico dal Bowie di Station to Station al Bowie di Blackstar, il compendio della sua carriera.

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Nine Inch Nails – The Downward Spiral

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Ecco, un altro di quei dischi sui quali puoi scrivere un libro, premetto che sarà dura essere concisi ma ci proverò.

In primis, l’album è fortemente ispirato a Low, sia nella struttura che nella metodologia di lavoro, tant’è che Reznor chiama Belew e lo sottopone alla stessa richiesta che Bowie ha avanzato a lui per Lodger – e prima ancora a Fripp per Heroes – “suona liberamente e concentrati nel fare rumore”. Si perché le registrazioni avvengono tramite un Mac e i suoni sottoposti a brutali variazioni tramite software digitali. Un approccio che può ricordare le campionature dei Depeche Mode, ma rispetto a loro siamo dinanzi ad un album brutale, pesante e aggressivo nel suo sound.

Siamo all’alba di una nuova era e questa era appartiene a Trent Reznor.

Letteralmente Downward Spiral significa spirale verso il basso, ed è quella nella quale Reznor sprofonda in un viaggio di oltre un’ora, partendo dalla frenesia di Mr. Self Destruct e precipitando sino alla title-track – che termina col suicidio del protagonista – fino ad Hurt e al rombo che la conclude. “Quando ho cominciato a lavorare su Downward Spiral, ero veramente depresso e il tema dell’autodistruzione è rimasto fortemente nella mia testa. Volevo fare un disco che esplorasse la sensazione di isolamento, di autodistruzione, di tutto quanto riguardi la propria vita. Ho tirato giù le diverse modalità di autodistruzione. E’ il mio tentativo di spazzar via l’oscurità interiore. […] è il punto di vista di una persona che getterebbe via ogni aspetto della propria vita, dall’incapacità di relazionarsi con gli altri fino a se stessi, dalla religione alla paura delle malattie. Non è rabbia ma ansia.”

Quest’ultima osservazione ci aiuta nella comprensione di Closer, brano che ha da sempre suscitato le fantasie dei più con quel ritornello esplicito che lascia intendere alla lussuria sfrenata. Un’interpretazione del tutto mendace in quanto Closer si concentra sull’ossessione e sull’odio verso sé stessi. Il suono della grancassa – come a simulare il battito cardiaco – è un sample preso da Nightclubbing di Iggy Pop. Il videoclip è un “monumento” ambientato nei laboratori di quei medici dell’800, e ci illustra attraverso dei simboli i temi ed i lati che appartengono alla nostra cultura e società (religione, politica, test sugli animali, sessualità e terrore) è quindi possibile scorgere: delle teste di porco; dei diagrammi di vagine; una scimmia legata ad una croce; una donna pelata con un crocifisso in mano; Reznor prima vestito in latex e poi con una ball gag. Insomma un bordello stile American Horror Story.

Una visione nichilista e paurosa della vita, uno stato – quello della depressione – alimentato dalla scelta di trasferirsi al 10050 Cielo Drive durante le registrazioni dell’album, per i più distratti, casa Tate. “Durante le registrazioni vivevo nella casa nella quale venne uccisa Sharon Tate. Un giorno incontro sua sorella che mi lapida: ‘Stai sfruttando la morte di mia sorella vivendo nella sua casa?’ […] Per la prima volta pensai che aveva perso la sorella per mano di gente becera e ignorante. Parlandomi realizzai ‘Se fosse stata mia sorella?’ e pensai ‘fanculo Manson‘. Andai a casa e piansi tutta la notte facendomi vedere le cose da un’altra prospettiva.”

What I’ve Become?The Downward Spiral è l’intero processo di disintegrazione dell’uomo, un uomo che distruggendosi perde ogni debolezza divenendo in parte automa – trasformazione evidenziata dalle battute impetuose delle batterie e dei suoni campionati – e ferendo chi è vicino a lui; accorgendosi di quanto è successo prova il suicidio e quello che c’è dopo ci viene spiegato in Hurt. L’autodistruzione viene cantata come un abuso di droga, ma è una metafora che apre ad ogni tipo di abuso (tranne quello edilizio): di chi annulla sé stesso per seguire la religione ciecamente o chi lo fa per amore, di chi in pratica viene cambiato nella propria essenza. Un viaggio nella propria coscienza, che spinge alla consapevolezza dell’errore alla comprensione di dove si è sbagliato e alla redenzione virtuale.

Duran Duran – Rio

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Posso cogliere lo stupore nelle vostre facce, ma qui si parla di musica e si può passare da realtà più di nicchia ad altre più commerciali, come per i durani durani.

Sì ma perché Rio? Perché l’evoluzione dell’elettronica arriva a questa deriva opulenta, pacchiana ma non per questo meno interessante. C’è una ricerca dietro Rio, l’ultimo step che rende perfettamente fruibile la musica elettronica – mescolata alle chitarre – al volgo, la pop per eccellenza. Rio è il manifesto musicale degli anni ‘80, un medioevo a tratti perfidamente oscuro. Rio è Derelicte.

“E’ qualcosa che mi sono trascinato sino al mix. Ero completamente affascinato dal Brasile, Rio per me era l’esotico, una cornucopia di piaceri terreni, una festa che mai si sarebbe fermata. Un ficaio” ci dice John Taylor spiegandoci le origini del disco (tranne la parte del ficaio, diciamo che quello l’ho dedotto, ma sono pressoché sicuro l’abbia pensato per almeno qualche secondo).

Da questo concetto Russel Mulchay – l’uomo dei videoclip degli anni ‘80 – gira video su video in luoghi tropicali, ad esempio in Rio c’è questo yacht che sfreccia nel mare dei Caraibi, ma è difficile dimenticare anche la vena trash di Hungry Like the Wolf – con un LeBon infogliato in versione Indiana Jones con febbre alta e a tratti ferito – e Save A Prayer, il tutto immortalato tra lo Sri Lanka e Antigua. E’ un manifesto dell’osceno, nelle sue riprese mortalmente brutte, negli slow-mo, nella spensieratezza degli interpreti. Girati in pochi giorni, possiamo considerare queste perle prodromiche di Love Me Licia e della leggenda della sacra Fettina Panata. Ma criticare gli anni ‘80 in maniera veemente è come sparare sulla Croce Rossa, in fondo sono stati belli in quanto trash.

Riguardo la title-track Rio, è identificata in una figura femminile e lo sfarzo che trasmette il brano è in tutto quello che ci ha detto John Taylor. C’è una curiosità legata al verso “And she dances on the sand“, che – stando a quanto dice Le Bon – dovrebbe esser nato da un regalo che una fan fece recapitare alla band, una scatola di legno con solo della sabbia all’interno… già.

Un altro dei punti di forza di Rio è la presenza di Colin Thurstone – già tecnico in Lust For Life ed Heroes – abile arrangiatore e fine alimentatore di idee; uno dei suoi suggerimenti più decisivi è stato quello di mantenere la stessa base elettronica – proveniente dalla demo – per Hungry Like The Wolf. Un elemento molto forte e consistente nell’album è l’epicità di fondo che lo contraddistingue – oltre i singoli di punta anche canzoni come Last Chance On The Stairway e New Religion – generando una serie di cliché abbondantemente abusati nel corso degli anni.

Si Rio ha fatto scuola, ho piacere di soffermarmi sul brano di chiusura The Chaffeur, una canzone quasi estrema e fuori dalla logica dell’album. Una poesia scritta nel 1978 da Le Bon viene musicata diventando una delle composizioni più anomale dei Duran Duran: la parola Chaffeur – al contrario del resto della produzione – non viene mai nominata nel testo, ma racconta il punto di vista di un autista che durante una giornata decisamente torrida trasporta un’avvenente donna di cui è innamorato, un amore destinato a non sbocciare perché ella è invaghita di un altro. A mettere allegria ci pensa poi il suono dell’ocarina – suonata da ciccio Le Bon – che rende il brano decisamente malinconico

Japan – Gentlemen Take Polaroids

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Raffinatezza, questa è la parola che riassume i Japan e questo album. Una ripulita all’immagine dopo i parrucconi colorati stile Jem e le Holograms in voga nei dischi precedenti. Si opta per una compostezza assente prima, non c’è New Romance che tenga, la raffinatezza è una dote che non può essere applicata a chiunque, traspare dai testi, dalla musica dal modo di porsi e negli anni ’80 è difficile trovare qualcuno della statura dei Japan.

Simpaticamente la critica elogia il disco presentando uno scenario distopico, nel quale Brian Eno assume il controllo dei Roxy Music al posto di Ferry, il risultato sarebbe stato Gentlemen Take Polaroids. Ci sono i Roxy Music alla base dei Japan, ma trovo di gran lunga meglio Sylvian di Ferry… de gustibus.

Oltre ad essere un grande disco, Gentlemen Take Polaroids viene registrato mischiando sapientemente strumenti classici ai sintetizzatori, senza apparire plasticoso – come tanti album coevi – ed assume una valenza storica importante per via della presenza di Ryūichi Sakamoto come spalla musicale sulla quale David Sylvian si appoggerà. I due instaurano un rapporto duraturo negli anni, collaborando alla stesura di Taking Islands in Africa (un brano che ricorda molto quello che saranno i Talk Talk della prima ora).

Sylvian e Sakamoto si incontrano per la prima volta in Giappone, il tastierista nipponico venne invitato a fare un’intervista ai Japan – all’epoca in tour nel paese del sol levante. Dell’intervista non si ha traccia attualmente ma è servita a creare una connessione tra i due.

In ogni caso Nomen Omen: la presenza di Sakamoto è giustificata – ed in parte alimenta essa stessa – la voglia di Giappone all’interno del disco, una riscoperta ed una fascinazione dell’estremo oriente dimostrata da Bowie in Heroes e dal nome stesso della band, oltre che nel successivo Tin Drum (versante cinese in questo caso). Un approccio che va in un certo senso ad affinare il lavoro svolto dal duo Eno e Bowie mescolando in maniera sapiente la world music e l’elettronica. Questa sintesi musicale è apprezzabile nelle armonie all’apparenza dissonanti e nei ritmi in alcuni casi tribali e marcati, con i bassi del synth che portano alla mente le slappate di Pastorius in Coyote di Joni Mitchell (il riferimento è a Ain’t That Peculiar).

Fatta eccezione per Taking Island in Africa e My New Carrer, le altre canzoni sono già pronte prima di entrare in studio, Sylvian ha una idea ben precisa di come i Japan devono comparire musicalmente e visivamente. Il rigore e la precisione dei brani lascia intendere l’approccio adottato dai Japan in studio “tendo ad essere troppo perfezionista. Voglio tutto accordato, e questo ha creato non pochi problemi con il produttore Punter“.

Nel 2012 David Sylvian ci spiega la deriva dell’uomo moderno e alla domanda “Ma i Gentiluomini se ai tuoi tempi scattavano le polaroid, oggi scattano fotografie hipster al telefono?”, risponde lapidariamente: “No, credo che oggi come oggi prendano solo il Viagra”, lasciandoci intendere che non esistono più gentiluomini e che quelli invecchiati sono costretti ad impasticcarsi per non lasciar crollare lo stucco che copre il loro vero io.

Talking Heads – Remain In Light

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I Talking Heads sono in pausa di riflessione, ognuno per i cazzi propri dopo il tour del 1979… chi intento a registrare il proprio album chi a farsi una vacanza e così via. I precedenti sforzi hanno esacerbato gli animi e la sensazione comune è quella di un Byrne accentratore e col pallino in mano. Dopo essersi confrontato con Harrison, Weymouth e Frantz, la voglia di continuare insieme rimane forte, ma con un approccio democratico basato sulla condivisione.

Si comincia a suonare e si registrano le demo, questi tape vengono fatti ascoltare ad un reticente Eno, poco incline a proseguire la collaborazione con Byrne e soci dopo Fear Of Music e More Songs About Buildings and Foods. Diciamo che l’afro-funk riesce a convincere il professorino: un modo secondo Byrne di tornare alle origini, essere meno cervellotici fuggendo dalla paranoia tipica della New York anni ’70.

La sensazione che trasmette Born Under Punches in apertura è che non sfigurerebbe sicuramente in un album come Lodger, nonostante ci sia il marchio di fabbrica di Byrne è impossibile non notare la chitarra di Belew e la produzione di Eno. E’ come se – con Remain In LightEno abbia trovato la valvola di sfogo che non gli è stata concessa in Lodger, di sicuro il suo modo di riuscire a sovrapporre chitarre, basso e percussioni in questo brano rende il prodotto finale indiscutibile.

Non ci sono solo le Strategie Oblique qui, ma anche testi in associazione libera e flussi di coscienza continui – sulla scia di Iggy Pop e il Bowie di Low e Heroes – utilizzati per vincere il blocco dello scrittore seguendo quanto fatto dai musicisti africani: se ti dimentichi cosa stai cantando, improvvisa, non è necessario usare parole sensate.

Woooahhh si apre un mondo! Sulle basi musicali già registrate,  Byrne canta suoni senza senso, onomatopee che – registrazione dopo registrazione – sembrano trasformarsi in parole. Da questo processo nascono i testi di Remain In Light.

Con Crosseyed and Painless continua il funky contaminato da beat africani, anche qui è possibile trovare un parallelismo con Lodger ed African Night Flight, con un accenno di rap come lo stesso Bowie aveva fatto. E’ come se molti discorsi lasciati in sospeso dalla diaspora Bowie/Eno fossero approdati a naturale conclusione – due anni dopo – grazie alla piena collaborazione di Byrne. Un’omogeneità che viene mantenuta con The Great Curve, dove i ritmi vengono estremizzati, annoiando chi ascolta o coinvolgendolo totalmente in questa musica da ballo. Il difetto di questo disco è la durata delle singole tracce, che avvalendosi di riff e pattern ripetuti rischiano di apparire più lunghe di quanto lo siano realmente, proiettando chi ascolta in uno stato di ossimorico straniamento e assuefazione, ancorato unicamente alla voce di Byrne tra la chiacchiera e l’urlato.

A proposito di urlato, Once In A Lifetime è sicuramente il brano più rinomato dell’album che prende spunto da una predica Evangelista. La reiterazione della frase “And you may find yourself” vuol consolidare l’idea del sermone, tante delle frasi presenti nel testo sono state captate e tenute da parte da Byrne mentre le ascoltava nella Radio Maria americana (registrazioni tenute da parte anche per My Life In The Bush Of Ghosts), dimostrando anche in questo caso un modo del tutto non convenzionale di comporre.

Il filo conduttore in Remain In Light è il funky, la situazione lounge oltre che un’ibridazione della world music rodata e messa a punto dal duo Byrne/Eno. Per quanto poi il ritmo scanzonato e l’allegria presente nella prima parte vada pian piano scemando col proseguire del disco nella malinconia di Listening The Wind e in una depressione riflessiva con The Overload.

Cluster – Cluster II

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Continua il viaggio nel 1972, questa magnifica annata che ha elargito perle di Kosmische Musik a destra e a manca. E’ il turno dei Cluster e di Roedelius e Moebius. Ho sempre pensato a loro come a Mario e Wario, non tanto per le personalità contrapposte, quanto per l’assonanza dei nomi.

Come al solito affrontando il discorso Kosmische si deve specificare quale è il lato del movimento percorso dai Cluster; per dare un’idea si può dire che è un compromesso tra Tangerine Dream e Neu!, per via del distinguibilissimo sound Motorik con sfumature psichedeliche. In ogni caso, riflette in pieno il sound della Berlino di quei giorni “Erano giorni caotici a Berlino, forse è questo il motivo per il quale abbiamo deciso di cominciare a suonare forte ed in modo rumoroso, perché la polizia sfrecciava per la strada tutti i giorni weee wooo weee wooo” ricorda Roedelius.

A dire il vero Cluster II è un album che un po’ si perde nel mare magnum della Kosmische, perché meno distinguibile rispetto alle pubblicazioni degli altri gruppi, ma in ogni caso sarebbe sciocco non parlarne soprattutto perché Moebius ha fortemente ispirato il suono di Heroes e Low, e la collaborazione di Roedelius e Moebius in Before And After Science di Eno non può certo passare inosservata. Poi c’è la figura di Konrad Plank – produttore centrale nella scena Kosmiche ma anche una della figura di riferimento del gruppo – di fatto considerato come parte integrante dei Cluster.

“Avevamo dei background differenti rispetto agli altri gruppi della zona, non avevamo alcun interesse in quello che le altre persone volevano fare, li incontravamo tutti i giorni e li conoscevamo, ma loro pensavano in maniera più commerciale. Noi non abbiamo mai pensato in maniera commerciale. Questa forse è la differenza. La si può riscontrare nella nostra musica” ricorda Moebius. Di fatto è vero, e risulta anche molto semplice comprendere quali siano i gruppi provenienti dalla Kosmische con un sound più accessibile e gli altri meno comprensibili ad un primo ascolto. Ciò non significa voler screditare gli uni più degli altri, bensì cerco solo di porre in evidenza quanto fosse ampio il concetto di Kosmische e quanti sentieri sono partiti da questo centro musicale.

La sensazione che si prova ascoltando Cluster II è di cadere in un lento stato di ipnosi soggiogato dai rumori bianchi, se durante l’ascolto dietro le vostre spalle comparisse Giucas Casella gridando “solo quando ve lo dico io” cadreste in trance (che si legge trans, ma in quel caso cadere potrebbe fare piuttosto male, in qualunque modo tu cadi, cadresti male).

Vorrei far presente che non è che mi stia dilungando perché non so cosa scrivere, solo che non saprei veramente cosa dire di più. Fondamentalmente Cluster II serve ad avere un quadro un po’ più completo della scena elettronica tedesca e di come questa sia andata ad defluire in maniera massiccia nel mainstream.

David Bowie – Lodger

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Tony, Brian e io abbiamo creato un linguaggio di suoni potente, angosciato, a volte euforico. […] Nient’altro aveva il suono di quegli album e nient’altro gli si è avvicinato. Non avrebbe avuto alcuna importanza se non avessi fatto più nulla dopo quei 3 dischi, lì dentro c’è tutto me stesso. E’ il mio DNA.”

Lodger fatica ad arrivare, dopo il tour di Low/Heroes Bowie se ne va in giro per il mondo: Kenya, Giappone, Stati Uniti, è tutto un viaggiare. Il titolo del disco esprime proprio il concetto di “ospite”, in giro e senza fissa dimora, alla ricerca di contaminazioni. I tempi di Berlino sono quasi dimenticati – nonostante Lodger venga considerata la punta del trittico Berlinese. In comune con i precedenti Low e Heroes c’è la band ed il contributo di Visconti e Eno. Al posto di Fripp, alla chitarra solista c’è Adrian Belew, scippato a Frank Zappa dopo un concerto a Berlino dello Sheik Yerbouti Tour.

Piccola Parentesi

*Belew vede in zona mixer Bowie e Iggy Pop, Bowie gli propone di diventare il suo chitarrista per il tour di Heroes e Low (The Isolar II) che sarebbe cominciato due settimane dopo la fine dello Sheik Yerbouti Tour di Zappa. Vanno a cena insieme, destino vuole che Zappa va nello stesso ristorante… Dio ci salvi… Frank si avvicina al tavolo di Bowie e Belew sentendo puzza di tradimento. Il dialogo che ne segue è riportato di sotto:

DB: “Che gran bel chitarrista che hai Frank!”

FZ: “Fottiti Capitano Tom”

Al che Bowie cerca di attaccare bottone provando ad essere ancora cordiale e

FZ: “Fottiti Capitano Tom”

DB: “Non hai veramente nient’altro da dire?”

FZ: “Fottiti Capitano Tom”

Al che Bowie e Belew si alzano e se ne vanno in limo. Bowie col suo aplomb e umorismo britannico liquida la questione con un “Penso che sia andata piuttosto bene!”. E scippo fu.*

Lodger fatica ad arrivare, perché dopo aver vissuto gomito a gomito l’epopea di Heroes, Eno e Bowie si son persi di vista sviluppando visioni musicali non più tanto comuni. Questo sfocia in una acrimonia che non fa bene al disco, facendo nascere un ibrido dall’identità sporca, nel quale le personalità di Eno e Bowie cozzano in maniera prepotente. Eno a differenza delle prime due fatiche entra in maniera più determinante nelle logiche del disco, sia come musicista che come cultore di novità. Mentre le Strategie Oblique sono largamente accettate dopo le sessioni di Heroes, altre tecniche di pensiero laterale vengono difficilmente digerite dai musicisti – annoiando soprattutto Alomar. Creando quel senso di lezione scolastica dove Eno si comporta da professorino.

Lodger fatica ad arrivare, in quanto dopo aver terminato le sessioni delle basi musicali, Bowie fa passare 5 mesi prima di riprendere in mano il progetto e registrare il cantato. Con Visconti e Belew si va a New York a completare il disco, ma gli studi non sono mica come in Europa e l’attrezzatura non è tale da consentire un lavoro ottimale.

Lodger arriva, per quanto critica e principali artefici lo definiscono un incompiuto, per quanto le inimicizie interne abbiano inficiato sul risultato finale del disco, Lodger è un gran bel disco con un potenziale enorme espresso in parte.

Il tema del viaggio – evidenziato anche dalla cartolina dell’artwork – è prodromo di un certo tipo di world music e segue il concetto di motorik intrapreso da Neu!, Kraftwerk e in Station to Station. Così come il riciclo di canzoni passate dimostra una strepitosa attitudine allo studio della diversità.

Red Money è Sister Midnight – scritta durante lo Station to Station tour e donata a Iggy Pop – e che dire di Move On, una versione di All The Young Dudes al contrario ri-arrangiata, ma la figata si raggiunge con la Strategia Obliqua che suggerisce di suonare Fantastic Voyage con interpreti diversi agli strumenti, i musicisti così si scambiano le postazioni ed esce fuori una versione più veloce e decisamente più ritmata: Boys Keep Swinging.

Lodger è arrivato e ha chiuso un cerchio strepitoso che ancora oggi ci fa sognare.

Brian Eno – Before And After Science

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Dopo due anni di lavoro – un’eternità per chi fa dischi negli anni ’70 – e oltre 100 brani registrati con le Strategie Oblique, Brian Eno si è avvalso della collaborazione di questi signori: Phil Manzanera, Robert Wyatt, Jaki Liebezeit, Fred Frith, Phil Collins, Moebius, Roedelius, Conny Plank, Andy Fraser, Dave Mattacks, Bill MacCormick. E non solo!

Ecco chi ha lavorato a Before And After Science, un disco come composto – secondo Eno – da musica oceanica, in netta contrapposizione alla definizione di musica del cielo per Another Green World (commercializzato nel 1975).

Prima e dopo la scienza è un po’ come dire prima e dopo Cristo, il disco infatti è perfettamente divisibile in due, la prima sezione frenetica la seconda riflessiva. Nella prima facciata si denotano le influenze passate, presenti e future, le canzoni funk e tirate tra il Bowie di Low (in No One Receiving) ed i Talking Heads che andrà a produrre negli anni successivi.

La collaborazione con Byrne e soci comincerà immediatamente dopo Before And After Science, nonostante questo, alle Teste Parlanti dedica King’s Lead Hat – anagramma di Talking Heads – che se non ci fosse il faccione di Eno in copertina sembrerebbe proprio una loro canzone (con la chitarra solista di Fripp che fa grandi cose) tant’è che l’avrebbero cantata anche insieme questa canzone se Byrne e combriccola non fossero stati impegnati. Con questo brano possiamo anche identificare dei tratti distintivi dell’impronta che Eno da un anno a questa parte andrà a dare su Q: Are We Not Men? A: We Are Devo!

Before And After Science, è una radio accesa che cambia stazione di volta in volta, e nella quale possiamo ascoltare anche la frequenza di Canterbury. In Backwater, spuntano i massimi esponenti del non-senseBarrett e Ayers – con scioglilingua continui e atmosfere scanzonate degne di Joy Of A Toy; soprattuto quando nella coda del brano la chitarra elettrica è ancor più marcata (un po’ come per Religious Experience).

La stessa sensazione la si ha con il brano successivo: Kurt’s Rejohinder ha una linea di basso prettamente zappiana e un ritmo tribale di sottofondo al quale si aggiunge la voce campionata – dagli anni ’30 – del poeta dada Kurt Schwitters. L’intuizione di utilizzare una voce ripescata da un programma radiofonico ci offre un’anteprima di My Life In The Bush Of Ghosts, nel quale Eno e Byrne useranno le registrazioni, campioneranno suoni e… insomma ne parlerò un’altra volta su.

Frith invece mette lo zampino in Energy Fools The Magician con la sua chitarra “pimpata”, parte da una base jazz fino a diventare una classica sigla da Law And Order se fosse stato girato negli anni ‘80… per capirci una cosa tra la sigla di Attenti a Quei Due e Stranger Things, con una linea di basso jazz.

Il secondo lato si asciuga delle sovrastrutture pronunciate – della prima parte – guadagnandone in intensità, con la sensazione di trovarsi nel lato B di Low senza però avere l’angoscia e la potenza di Warszawa. Here He Comes nella sua malinconia è spensierata, ci si incupisce con Julie With – dove la musica oceanica risalta grazie ad una base musicale quasi acquatica – preparatoria alla perla By This River, con annessa conclusione delicata di Spider And I.

“Spider and I

Sit watching the sky

On our world without sound

We knit a web

To catch one tiny fly

For our world without sound”

P.S. vi sembrava che non avrei approfondito By This River? E’ un brano praticamente scippato da Eno durante le registrazioni del disco Cluster & Eno – che vedeva anche la partecipazione di Czukay. Niente praticamente Roedelius suona la melodia al piano, Moebius lo accompagna al basso, Eno dice “Weee Giampi! Guardate là ci fregano l’attrezzatura!” e mentre si girano ciula By This River ai Cluster scrivendoci il suo testo e cantandoci sopra. Easy no?

David Bowie – Heroes

David Bowie - Heroes.jpgC’è la old wave. C’è la new wave. E poi c’è David Bowie.”

La RCA si lecca i baffi, Bowie ha in mano una perla e stavolta la vuole promuovere in lungo e in largo. Non solo, è previsto un tour unico per Low e Heroes… roba da sfregarsi le mani.

L’esilio losangelino è alle spalle e piano piano Bowie riesce a ristabilire la propria mente grazie alla nuova formula: meno droghe e più sbornie in compagnia di Iggy. L’obiettivo dichiarato è quello di esporsi per difendere le scelte che hanno condotto alla deriva musicale di Low e Heroes. Già, perché a tanti è piaciuto Low, ma chi non l’ha compreso ha cercato di affossarlo alla grande e non è passato inosservato.

Inoltre David prende la decisione di non accompagnare Iggy per il tour di Lust For Life; David vuole concentrarsi sul suo progetto, ha già chiamato Brian Eno – in stallo creativo per Before And After Science (completato dopo le sessioni di Heroes) – per continuare quanto cominciato con Low.

La squadra è sempre la solita: il trio Murray/Davis/Alomar, Tony Visconti come produttore, la presenza di Eno per tutto l’album e Robert Fripp a consolidare il team (sia Fripp che Eno erano già attesi da Bowie per le sessioni di The Idiot ma i due diedero buca per impegni solisti). Il rapporto consolidato tra i musicisti contribuisce ad una rilassatezza mentale di Bowie, in continuità con Low e The Idiot – nel quale si instaura un clima cameratesco con i membri della band.

Stavolta lo studio scelto è l’Hansa Tonstudio 2, vicinissimo al muro di Berlino. Come per Station to Station, The Idiot e Low, si comincia a registrare in modo del tutto casuale, tant’è che Brian Eno – ancora incontaminato dell’approccio di Bowie – rimane totalmente sconvolto da questo metodo… proprio lui, finito in una bonaccia creativa per Before And After Science non poteva credere che le brevi istruzioni di Bowie potessero sfociare in un “buona la prima”.

Eno ricorda: “Pensavo: ‘Merda non può essere così facile’. Facemmo anche delle seconde take, ma mai si rivelarono buone quanto le prime.”

Per questo motivo il mitico Visconti spende le prime settimane di lavoro per mettere a punto tutte le jam session registrate, a fare un taglia e cuci sapiente sui nastri (che venivano lasciati accesi dal produttore tutto il tempo dall’entrata all’uscita dallo studio, cosciente del fatto che ogni momento musicale potesse rivelarsi prezioso).

Il disorientato Eno non si perde d’animo, raccoglie le forze e suggerisce – ai musicisti presenti nelle session – dei metodi inusitati : in principio non riceve una piena collaborazione in cambio; successivamente riesce a far breccia in qualche modo nelle convinzioni di Alomar e soci. Certo, alcune di questi suggerimenti si rivelano arditi e perciò non sbandierati ai quattro venti, come le Strategie Oblique (in soldoni un mazzo di tarocchi con delle indicazioni volte a superare un blocco creativo) nascoste ai musicisti ed utilizzate con Bowie quando si trovavano nello studio da soli.

Molte delle tracce di Heroes devono la loro forma finale alle Strategie Oblique, su tutte Sense of Doubt, infatti Bowie ed Eno pescarono due carte diametralmente opposte e come per una partita di Risiko se le tennero nascoste fino alla fine. Il titolo della canzone deriva proprio dall’incertezza di base segnata dalle indicazioni interpretate dai due.

E’ divertente poi pensare al cameo di Robert Fripp in studio. Atterrato a Berlino – da New York – di sera, entra in studio e riceve le solite indicazioni da Bowie “suona come se non dovesse suonare per il tuo disco”… e via di Frippertronics, si tira fuori la chitarra e si comincia a familiarizzare con le registrazioni, ma non troppo, che poi si cambia subito. La mattina il lavoro è terminato e Fripp se ne torna a New York. Figo no?

Come per i precedenti album appartenenti alla sfera della Trilogia Berlinese, servirebbe un libro per poter raccontare tutti gli aneddoti con calma, ma l’articolo non si può dilungare più di tanto e quindi concluderò scrivendo della title-track.

Heroes è maestosa e deve questo alla ricerca da parte di Eno di un suono tra Can e Velvet Underground, un lavoro certosino avvenuto dopo la stesura delle armonie di Bowie e della band.

Come avvenuto per Low in alcuni brani, Heroes rischiava di rimanere strumentale. Nonostante in altre situazioni la tecnica Iggy Pop funzionasse sempre meglio, in questo caso Bowie si prende il tempo necessario, registra qualche parte, torna indietro fino a quando non viene folgorato dall’epifania definitiva. In maniera distratta – affacciandosi dagli studi di registrazione – vede due amanti abbracciarsi fugacemente sotto il muro di Berlino… quei due amanti sono il Visconti fedifrago (sposato all’epoca) e Antonia Maass (ai cori di Beauty And The Beast). Tale informazione è rimasta secretata sino al 25esimo anniversario del disco quando Baui ce la racconta smascherando il vile Visconti.

Heroes viene percepita come un inno alla speranza a causa del potente crescendo della canzone, ma Bowie vuole celebrare la disperazione di un amore fugace, la malinconia di dover vivere in clandestinità qualcosa che può bruciare in un attimo, come dice lui stesso: “l’unico atto eroico è il semplicissimo piacere di essere vivi.”

Della title-track vengono registrate anche una versione francese ed una tedesca, con videoclip annesso volto a pubblicizzare il ritorno alla vita – e all’ottimismo – di David Bowie dopo un periodo più che vergognoso dal punto di vista personale.

Ultimissimo accenno al disco che mi vale anche come link ad un altro album, V-2 Schneider è il brano di apertura del lato B, un ponte diretto tra i primi 5 brani di una potenza dirompente ed un lato più rilassato. Il titolo è un tributo a Florian Schneider dei Kraftwerk – di cui Bowie è un grande estimatore e non ha mai mancato di farcelo intendere – al termine di un circolo virtuoso di omaggi che comprende Trans-Europe Express (dall’omonimo album) nella quale viene citata Station to Station:”di stazione in stazione tornando a Düsseldorf per incontrare Iggy Pop e David Bowie“.

Kraftwerk – Trans Europe Express

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Il 25 marzo del 1957 i sei principali paesi dell’Europa danno vita alla Comunità Economica Europea – fulcro dell’odierna Unione Europea. L’accordo prevedeva un sodalizio economico per garantire un maggiore flusso di capitali, l’incremento dei servizi e il potenziamento dell’agricoltura, del commercio nonché dei trasporti.

Al fine di ottemperare l’ultimo punto elencato, viene creata la Trans Europe Express, un servizio ferroviario capace di collegare l’Europa in lungo e in largo.

In questa breve lezione di storia (utile a elargire informazioni ai meno interessati sui pilastri della nostra Unione Europea) ci sono due argomenti molto cari ai Kraftwerk: l’Europa e il moto inteso come viaggio – concetti quanto mai attuali – terreno fertile per poter far attecchire l’elettronica e trasformarla definitivamente in pop.

Perché l’Europa? Autobahn è stato un disco percepito – dai critici anglofoni – come una esaltazione del regime nazista, difatti l’autostrada a cui si riferisce (A 555Autobahn è stata costruita a cavallo degli anni ’20 e ’30 e rientra nelle grandi opere volute dal regime nazionalsocialista. La volontà forte è quella di volgere lo sguardo in avanti, svincolandosi dalla radice tedesca e muovendosi verso la nuova realtà, quella dimensione europea comunemente e popolarmente apprezzata.

I Kraftwerk sono la semplificazione dei Neu!, dei Tangerine Dream, di Klaus Schulze, dei Cluster e di tutta la Kosmische Musik. Trans Europe Express è il padre degli Ultravox e dei Depeche Mode per intenderci.

La struttura del disco è concentrica ed infinita, sospesa e fuori dal tempo (“life is timeless”), Europe Endless esalta le radici (“Elegance and decadence”) e la visione di un Europa progressista (“Parks, hotels and palaces, promenades and avenues”). L’apertura del disco si connette alla chiusura di Franz Schubert e Endless Endless, una suite che ripropone lo stesso pattern musicale ma in tonalità più bassa.

Il secondo cerchio comincia con l’impassibile cantilena della title-track che sovrapponendosi alla base ritmica ricrea una struttura simile ad Autobahn; il pitch deforma la base e la batteria elettronica si esalta nel suo incedere cadenzato.

Trans Europe Express prosegue nella strumentale Metal on Metal – che evoca l’andamento di un treno sulle rotaie europee – sfociando in Abzug e termina la suite con il ritornello “Trans Europe Express” che prosegue ad libitum come un mantra.

Si parla di treni e l’omaggio a Station to Station è quasi scontato; a dire il vero è il culmine di una ispirazione reciproca tra i Kraftwerk e Bowie – quest’ultimo è stato capace di cogliere nel brano Station to Station i loop tipici dei crucchi, il loro sound apparentemente asettico (affinato poi in Low ed Heroes) e una ripetizione esasperata di ritornelli che espandono la concezione della durata del brano.

Schneider (alla quale è stata dedicata V2-Schneider in Heroes) e Hütter, incontrano Bowie e Iggy durante il loro soggiorno tedesco, e si dimostrano fortemente affascinati da The Idiot, in particolar modo Hütter grande fan di Pop e degli Stooges.

In questa sequenza concentrica, The Hall Of Mirrors e Showroom Dummies sembrano quasi appartenere ad un altro disco, anche se concettualmente sempre minimali e accattivanti. “Siamo dell’idea che se si può fare con una o due note è meglio che suonarne un centinaio”, diciamo che Hütter è abbastanza chiaro sul concetto di sintesi.

Showroom Dummies è il brano che più di Hall Of Mirrors pone l’ascoltatore dinnanzi all’eterna lotta tra realtà e apparenza, così come viene evidenziato dalla cover del disco dove i 4 Kraftwerk appaiono come manichini. Showroom Dummies è anche una simpatica parodia dei Ramones, con il countdown tipico della punkband dei parrucconi ma in tedesco “Eins, Zwei, Drei, Vier” – ed un’enfasi stile XX Pastsezd nella cover di Se Una Regola C’è di Nek .