Julia Holter – Tragedy

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Capita di trovare analogie tra differenti articoli dello stesso ciclo, similitudini non calcolate durante la scelta dei dischi da approfondire. È bello trovare dei sentieri differenti che si muovono paralleli alla strada maestra per poi perdersi e ritrovare – quando meno te l’aspetti – la via principale, ramificazioni, connessioni quasi neurali che rendono artisti apparentemente distanti più vicini di quanto noi crediamo.

Abbiamo parlato degli Einsturzende e del ceppo del tutto similare (concettualmente parlando) con John Cage, ritroviamo in Julia Holter una declinazione interessante di quel mondo musicale, fortemente connotato dall’apparente stramberia di rumori che si susseguono in modo casuale. Siamo al confine di ciò che viene definito musica e non musica, un po’ come avviene per l’arte contemporanea, quando la corrente filosofica che caratterizza la formazione di un dato pensiero prevale sulla tecnica canonica.

Per intenderci, facciamo l’esempio di Picasso e del suo studio alla ricerca della quarta dimensione, la necessità di intrappolare su tela il movimento – la fluidità. A chi non ha studiato un minimo Storia dell’Arte e non si è interessato a Picasso e ai suoi periodi, il pittore spagnolo apparirà come un eccentrico artista che spennellava casualmente sulla tela; la verità sta nel fatto che il cubismo è la sublimazione di un determinato pensiero artistico – formatosi negli anni e attraverso altri periodi (come il blu e il rosa) – partito sempre da uno studio accademico notevole. Picasso non è che non sapesse disegnare, era un ottimo esecutore, ma da lì è partito, non si è sentito arrivato.

Tutto questo pippone pseudo-intellettuale vuole porre l’attenzione su John Cage e Julia Holter, lo studio svolto dai due – con le debite distanze – non deve portare a liquidare causticamente un determinato approccio musicale, ma è volto alla necessità di porsi delle domande ben precise: “Cos’è la musica?” e “Cosa si vuole ottenere?”.

Julia Holter ha cercato di musicare – in solitaria (registrazione e produzione) – la tragedia dell’Ippolito Coronato di Euripide, trovo una similitudine molto marcata con le Ocean Songs dei Dirty Three, sarà per quello sbuffo della nave all’inizio della Introduction, o per la voglia di narrare con la musica delle storie articolate in una sorta di viaggio concettuale. In Try To Make Yourself A Work Of Art, si percepisce il senso epico nonostante la ripetizione ad libitum di due semplice strofe che proseguono sotto un unico presagio “This was my plot“, ad indicare la mancanza di libero arbitrio, come a dire “Hey è tutto scritto, così deve andare, è il destino baby”, lo stesso destino beffardo che vuole che Ippolito e Fedra muoiano in situazioni disgraziate.

In tutto questo la Holter sembra impersonare il ruolo di una musa narrante, una figura tra leggenda e realtà caratterizzata da una voce distante, come in Goddess Eyes nel quale il refrain anni ‘80 al vocoder si intreccia con una voce molto simile a quella di PJ Harvey e appartiene – insieme a The Falling Age – a quella schiera ridotta di brani “canonici” presenti in Tragedy.

“Per me non è divertente cantare canzoni che non sono direttamente correlate a qualche evento specifico. Sono più legata al concetto di storytelling” .

Sì perché Interlude – che indica il passaggio alla seconda parte del disco – propizia anche un cambio di registro, una sperimentazione grandiosa in Celebration. Basta lasciarsi trasportare dalla musica per immaginare la sacralità di questo pezzo che ricorda il canto disperato di Wyatt a cavallo tra Sea Song e Little Red Robin Hood Hit The Road, con un sax che ricorda la tromba di Mongezi Feza che si palesa e senza il senso di ansia che permea il capolavoro di Wyatt. Un filo comune con Cage lo si ha per esempio in So Lillies, brano nel quale la Holter registra i rumori ambientali in una stazione ferroviaria per poi costruirci l’intera struttura, nella sensazione di avere a che fare con un qualcosa di cinematico (e qui ci ricolleghiamo a Blixa & Teho oltre che alla kosmische musik di Neu e Kraftwerk), in quel discorso di riuscire a trasmettere con facilità delle immagini tramite i suoni.

Non ho le risposte naturalmente, o meglio, le mie risposte me le sono date e sono del tutto soggettive, ma mi aiutano ad apprezzare il percorso inusitato della Holter che – con i suoi collage musicali – si erge a nuova figura di riferimento per la musica d’avanguardia con un disco d’esordio ambizioso ma al tempo stesso estremamente definito e che ha ben chiaro in mente dove vuole andare.

“Se ascoltate Tragedy, è pieno di grandi idee all’interno […] Non ho nessun rammarico pensando di aver lavorato da sola su Tragedy, ma è ovvio che stavo cercando di creare qualcosa di più grande di quel che potessi fare. Si può vedere in quest’ottica, stavo cercando di fare qualcosa di talmente più grande rispetto a ciò che effettivamente avrei potuto fare da sola.”

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Robert Wyatt – Rock Bottom

Robert Wyatt - Rock Bottom

Chi non ha un album del cuore che porterebbe in un’isola deserta (un po’ come Desmond in Lost quando ascoltava ad libitum Make Your Own Kind Of Music della compianta Mama Cass Elliott) per ascoltarlo senza sosta e senza cenno di stanchezza? Io ad esser sincero ne ho più di uno, ma Rock Bottom è la certezza più che assoluta.

Ho un legame di affetto indissolubile verso questo capolavoro… di sicuro è l’album più vicino al senso della vita e alle domande che affliggono l’essere umano e la redazione di Focus: dal pre e post big-bang al terzo segreto di Fatima; dalla morte di JFK al gol di Turone; dalla crisi mondiale alla domanda dell’uovo e la gallina, ed altri dubbi annosi e privi di consistenza. Sarebbe capace di rivelarvi anche il motivo per il quale siete finiti in un’isola deserta con un disco.

E’ l’album della verità, concepito da diobatteria Wyatt (con l’aiuto determinante della sua sposa Alfreda Benge e di Nick Mason in vece di produttore), entità assoluta e sovrannaturale del mondo musicale – morto e risorto all’età di 28 anni – dando il là ad una seconda vita artistica di una intensità impetuosa.

L’ospedale costringe Wyatt ad un recupero lento dopo l’incidente e Rock Bottom prende una forma differente rispetto al principio; in un luogo in cui vita e morte si susseguono ad un ritmo incessante, permettendo – a chi trascorre un periodo di degenza abbastanza lungo – di riflettere e comprendere delle dinamiche che coinvolgono lo scibile ed oltre. Questo stop forzato di 8 mesi, l’incidente e le passate registrazioni aiutano Wyatt a dirigere la sua vena artistica oltre una sperimentazione ben definita che ha dell’incredibile.

A dire il vero Rock Bottom comincia a prendere vita a Venezia qualche mese prima del tragico incidente. Wyatt accompagna la Benge – impegnata nelle riprese di un film nella città degli innamorati – e lei come attestato d’amore gli regala una tastierina. In questi casi si sa, la ragazza non c’è, la città e la residenza alla Giudecca sono abbastanza suggestivi, e diobatteria comincia a gettare le basi di Rock Bottom scrivendo parti dei testi di Sea Song, A Last Straw, Alife. E’ facile associare le atmosfere ovattate, sottomarine e nebulose alla città lagunare, ma a Robert Wyatt l’incidente ha quietato l’animo e liberato il pensiero da dogmi precostituiti: c’è l’accettazione di non poter più suonare la batteria, le sensazioni percepite nell’album acquistano così una dimensione differente, oltre lo spiritualismo e al di là di ogni forma di intimismo.

In End Of An Ear c’è una follia estremista di fondo che governa l’album, Rock Bottom invece è dominato da un caos ordinato, una sensazione di quiete data dal disordine. Antipodi che vengono assimilati e omogeneizzati in un unicum. E’ come se Wyatt avesse raggiunto il nirvana mentre intorno a lui si stava scatenando la fine del mondo, un atto di fede verso sé stesso e l’universo che lo circonda. Il silenzio nelle filosofie orientali viene definito come verità, a mio avviso il concetto di silenzio si avvicina alle preghiere elegiache di Alifib e Alife dove introduce delle parole che non esistono permeandole di un senso e di un messaggio che non sarebbe stato possibile trasmettere altrimenti.

In Alifib il respiro di Robert Wyatt si fa ritmo e batteria concependo l’anima della canzone sul quale poi si poggiano il basso e la tastiera, una accettazione del suo stato che sprofonda nell’ angoscia di Alife (il nomignolo storpiato della Benge) dove si percepisce il disagio di Wyatt nel comprendere la sua condizione assoluta e ormai imprescindibile (la paralisi dalla cintola in giù e una vita ordinaria e limitata), il terrore e l’incubo di gravare sulla vita della sua compagna.

Ma tutto Rock Bottom è un viaggio fino agli abissi non solo marini ma interiori. Si è dinanzi ad un auto-processo, cambia la sua visione della vita e della musica, non è più necessario ora comporre per il gruppo come in precedenza. La scelta può cadere su diversi musicisti in base alle esigenze della canzone, quindi non c’è più l’utilizzo degli stessi strumenti per ogni canzone e questo lo porta a sviluppare il diaframma per far della voce uno strumento completo e malleabile.

Il Rock Bottom trova la sua esplosione totale in Little Red Robin Hood, ‘Dead moles lie inside their holes’, Wyatt si identifica nelle talpe, animali abituati al buio e al silenzio, considerati inutili e destinati ad una fine scritta ‘The dead-end tunnels crumble in the rain underfoot’. Si ha la percezione di aver toccato il fondo di un’era non solo personale, è una Apocalisse sonora che si inceppa sul verso ‘Can’t you see them?‘ come un mantra che fa collassare tutto ciò che lo circonda, come se Wyatt avesse compreso la “verità” e il peso dell’universo ora lo schiaccia crollandogli addosso.