Henry Cow – Unrest

Henry Cow - Unrest

Gli Enrico Mucca sono stati un gruppo strafico, anch’esso proveniente da quel buco di culo di Canterbury. In futuro mi auguro di avere tempo per poter impostare delle ricerche socio-musicali al fine di comprendere come sia possibile che da una cittadina si venga a formare una catena virtuosa dove ogni anello è capace di alimentare quello che lo precede (non parlo solo di Canterbury, ma anche delle altre località che hanno dato vita a movimenti socio-culturali di impatto mondiale).

Va beeene, torniamo agli Enrico Mucca! Per chi non ne avesse sentito parlare, sono anche conosciuti come la band del calzino (merito dei pedalini illustrati da Ray Smith presenti in alcuni dei dischi prodotti dagli Enrico). Grandissima gruppo composto da fior fiore (non Coop) di musicisti, in grado di tirare fuori un secondo disco capolavoro, un misto tra lo Zappa orchestrale/jazz ed i Soft Machine di Third (e perché no il Lol Coxhill di Ear Of The Beholder). È il 1974, e questo disco sembra la sublimazione di un’idea musicale trasversale, dove regna sovrana l’improvvisazione di Frith alla chitarra.

La tecnica di Frith è discendente diretta degli ascolti propostigli da Tim Hodgkinson – felice di introdurlo al free jazz di Charles Mingus e Ornette Coleman – e dalla matematica, come dimostra l’applicazione del codice Fibonacci nella creazione delle armonie e del tempo in Ruins (seguendo l’esempio di Bela Bartok e dimostrando un notevole bagaglio di formazione musicale).

C’è un passaggio bellissimo nella biografia che Scaruffi dedica agli Henry Cow nel quale immortala – con una stilettata delle sue – la band “La coerenza morale e artistica si paga però in termini di insuccesso economico”, ecco potrei chiudere qui l’articolo…. e invece no.

Cerchiamo di andare un po’ più a fondo (nel tentativo di invogliarvi ad ascoltare questo capolavoro) e capire il perché voglio raccontarvi di questo disco. Prima di tutto Unrest vede la collaborazione di Mike Oldfield in veste di tecnico del suono, in secondo luogo il disco è dedicato a Uli Trepte (ex Guru GuruNeu! e Faust, insomma un peones) e a Robertino Wyatt – da poco incidentato – amico di Frith (che a sua volta ha collaborato a Rock Bottom).

Ok, ho la vostra attenzione?

In Linguaphonie i più attenti scorgeranno un tributo alle idee di Wyatt, i versi infantili, a tratti gutturali, sono sovrapposti e circondati da suoni buffi che affiorano su di una base angosciante, per rendervi l’idea si avvicina molto all’outro di Bike. La gran figata di Unrest è nel lavoro al mixer, tra loop, sovraincisioni e manipolazioni continue di suoni in un puzzle musicale di enorme complessità:

“La lavorazione di Unrest è stata un’esperienza splendida e radicale, nella quale molte situazioni personali hanno avuto un peso specifico consistente nell’insieme, almeno per me. […] Il lavoro in studio ci ha dato la possibilità di produrre dei risultati straordinari come in Deluge, che suona ancora fresca per me.” ricorda Fred Frith, in una recente intervista, e dimostra quanto Unrest fosse un disco soddisfacente in fase di realizzazione, oltre che nel risultato finale.

Spero che questo sia il primo passo verso la riscoperta di una band dalle molte idee che – come tante – poco ha raccolto, rispetto a quanto seminato.

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Julia Holter – Tragedy

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Capita di trovare analogie tra differenti articoli dello stesso ciclo, similitudini non calcolate durante la scelta dei dischi da approfondire. È bello trovare dei sentieri differenti che si muovono paralleli alla strada maestra per poi perdersi e ritrovare – quando meno te l’aspetti – la via principale, ramificazioni, connessioni quasi neurali che rendono artisti apparentemente distanti più vicini di quanto noi crediamo.

Abbiamo parlato degli Einsturzende e del ceppo del tutto similare (concettualmente parlando) con John Cage, ritroviamo in Julia Holter una declinazione interessante di quel mondo musicale, fortemente connotato dall’apparente stramberia di rumori che si susseguono in modo casuale. Siamo al confine di ciò che viene definito musica e non musica, un po’ come avviene per l’arte contemporanea, quando la corrente filosofica che caratterizza la formazione di un dato pensiero prevale sulla tecnica canonica.

Per intenderci, facciamo l’esempio di Picasso e del suo studio alla ricerca della quarta dimensione, la necessità di intrappolare su tela il movimento – la fluidità. A chi non ha studiato un minimo Storia dell’Arte e non si è interessato a Picasso e ai suoi periodi, il pittore spagnolo apparirà come un eccentrico artista che spennellava casualmente sulla tela; la verità sta nel fatto che il cubismo è la sublimazione di un determinato pensiero artistico – formatosi negli anni e attraverso altri periodi (come il blu e il rosa) – partito sempre da uno studio accademico notevole. Picasso non è che non sapesse disegnare, era un ottimo esecutore, ma da lì è partito, non si è sentito arrivato.

Tutto questo pippone pseudo-intellettuale vuole porre l’attenzione su John Cage e Julia Holter, lo studio svolto dai due – con le debite distanze – non deve portare a liquidare causticamente un determinato approccio musicale, ma è volto alla necessità di porsi delle domande ben precise: “Cos’è la musica?” e “Cosa si vuole ottenere?”.

Julia Holter ha cercato di musicare – in solitaria (registrazione e produzione) – la tragedia dell’Ippolito Coronato di Euripide, trovo una similitudine molto marcata con le Ocean Songs dei Dirty Three, sarà per quello sbuffo della nave all’inizio della Introduction, o per la voglia di narrare con la musica delle storie articolate in una sorta di viaggio concettuale. In Try To Make Yourself A Work Of Art, si percepisce il senso epico nonostante la ripetizione ad libitum di due semplice strofe che proseguono sotto un unico presagio “This was my plot“, ad indicare la mancanza di libero arbitrio, come a dire “Hey è tutto scritto, così deve andare, è il destino baby”, lo stesso destino beffardo che vuole che Ippolito e Fedra muoiano in situazioni disgraziate.

In tutto questo la Holter sembra impersonare il ruolo di una musa narrante, una figura tra leggenda e realtà caratterizzata da una voce distante, come in Goddess Eyes nel quale il refrain anni ‘80 al vocoder si intreccia con una voce molto simile a quella di PJ Harvey e appartiene – insieme a The Falling Age – a quella schiera ridotta di brani “canonici” presenti in Tragedy.

“Per me non è divertente cantare canzoni che non sono direttamente correlate a qualche evento specifico. Sono più legata al concetto di storytelling” .

Sì perché Interlude – che indica il passaggio alla seconda parte del disco – propizia anche un cambio di registro, una sperimentazione grandiosa in Celebration. Basta lasciarsi trasportare dalla musica per immaginare la sacralità di questo pezzo che ricorda il canto disperato di Wyatt a cavallo tra Sea Song e Little Red Robin Hood Hit The Road, con un sax che ricorda la tromba di Mongezi Feza che si palesa e senza il senso di ansia che permea il capolavoro di Wyatt. Un filo comune con Cage lo si ha per esempio in So Lillies, brano nel quale la Holter registra i rumori ambientali in una stazione ferroviaria per poi costruirci l’intera struttura, nella sensazione di avere a che fare con un qualcosa di cinematico (e qui ci ricolleghiamo a Blixa & Teho oltre che alla kosmische musik di Neu e Kraftwerk), in quel discorso di riuscire a trasmettere con facilità delle immagini tramite i suoni.

Non ho le risposte naturalmente, o meglio, le mie risposte me le sono date e sono del tutto soggettive, ma mi aiutano ad apprezzare il percorso inusitato della Holter che – con i suoi collage musicali – si erge a nuova figura di riferimento per la musica d’avanguardia con un disco d’esordio ambizioso ma al tempo stesso estremamente definito e che ha ben chiaro in mente dove vuole andare.

“Se ascoltate Tragedy, è pieno di grandi idee all’interno […] Non ho nessun rammarico pensando di aver lavorato da sola su Tragedy, ma è ovvio che stavo cercando di creare qualcosa di più grande di quel che potessi fare. Si può vedere in quest’ottica, stavo cercando di fare qualcosa di talmente più grande rispetto a ciò che effettivamente avrei potuto fare da sola.”

Ultravox – Vienna

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C’è voglia di raccontare l’Europa in musica, una voglia che probabilmente cresce dopo Trans-Europe Express, una comunità che sta rivedendo i propri confini e un tema che tocca tutti direttamente. L’Europa questa volta ce la raccontano gli Ultravox post-John Foxx.

Foxx Forever, Ure Never!”, il ritornello che i fan scandiscono non lascia nulla all’immaginazione, l’accoglienza non è delle migliori, Midge Ure impone un cambio di rotta sostanziale, virando verso il sound del pop elettronico inaugurato da Neu! e sfruttato dai Kraftwerk, perciò la scelta del produttore ricade su Conny Plank che mixa il disco nel suo studio di Colonia. Vienna è stato registrato in 3 settimane, in scioltezza, dopo un periodo di prove e concerti abbastanza allenante per la nuova formazione degli Ultravox.

Come andava di voga dire negli anni ’80, un plagio di tastiere elettroniche è sicuramente meno grave di un plagio di chitarra elettrica, ciò non toglie il fatto che ci sia molto di già sentito in Vienna. Ma con Ure gli Ultravox gestiscono al meglio le varie anime della band, non abbandonando i sincopati di chitarra ma li rendono più accessibili. Celebre è lo stile in New Europeans che farà scuola e verrà replicato in tutte le salse. Ci sono tracce leggere dei barocchismi sui quali si poggeranno le fortune di Duran Duran e Spandau Ballet.

Sentiamo già la mano di Ure sulla magnifica Astradyne e il suo pitch al sintetizzatore che varia di tonalità mano a mano che la cavalcata musicale avanza. Reputo Astradyne una delle composizioni più belle ed incisive degli anni ’80.

Un altro dei picchi del disco viene toccato con Mr.X, una long take della sigla di Attenti A Quei Due in chiave anni ’80, perfettamente riuscita, misteriosa e oscura, in grado di evidenziare una dicotomia presente nel disco: quella tra musica dell’est e dell’ovest. L’attrazione verso un est dietro la cortina ed impenetrabile, evidenziata dall’alone di mistero di Mr.X e continuata in Western Promise – dove Ure si fa promotore di un salvataggio “culturale” da parte dell’ovest -con quell’intro arabeggiante che sfocia in una voce disturbata.

All Stood Still è un saluto alla new-wave dei Devo, ai loro giochi di parole scanditi con cadenza distinta ad ogni ritornello. Non apporta nulla di nuovo, dimostra più che altro quanto le influenze di Eno e Plank – entrambi collaboratori dei Devo – abbiano influito sugli Ultravox.

Ma il portone si apre con Vienna, o meglio… Vienna apre un portone e ne chiude un altro, salutando il pubblico innamorato della new-wave di Foxx.

“Volevamo registrare la canzone e renderla incredibilmente pomposa nel mezzo, lasciando aleatori la parte iniziale e successiva, ma terminando con il classico finale straordinario.”

Vienna è la title-track con il tipico taglio pop-elettronico, un climax di drum machine razziato da chiunque durante gli anni ’80. Vienna vienne (perdonatemi) scelta come terzo singolo con un videoclip affidato – come per Passing Stranger – a Russell Mulcahy (per i più distratti il regista di Highlander I & II oltre che di un fottio di altri video). La maggioranza delle scene sono state girate al centro di Londra e altre al nord, il resto a Vienna. Quando l’addetto alle riprese è stato mandato in avanscoperta nella capitale austriaca trovò gran parte dei posti segnalati per le riprese chiusi o in fase di ristrutturazione, così la statua che abbiamo modo di vedere nel video è di una tomba del cimitero principale di Vienna.

Un appunto finale va alla foto nella cover dell’album che vede la band catturata da un giovane Anton Corbijn.

Neu! – Neu!

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Il divertimento è nel cercare punti in comune e divergenti tra i protagonisti della Kosmische Music. Il 1972 è l’anno di Ege Bamyasi, Irrlicht, Hosianna Mantra, Zeit, Cluster II, cos’hanno in comune? Il mio intento è complicare ulteriormente il gioco mettendo il carico con uno dei pezzi da 90.

Il processo che porta alla formazione dei Neu! è simile a quello della riforma luterana, una scissione interna in seno ai Kraftwerk porta alla creazione dei Neu! da parte di Dinger e Rother. Le differenze tra Kraftwerk e Neu! sono marcate, Dinger e Rhoter percepiscono una mancanza di visione. I Neu! in ottica internazionale pagano dazio ottenendo un impatto maggiore nelle decadi successive dopo la riscoperta da parte di critici e pubblico negli anni a venire. La divergenza ce la spiega Dinger – più assoluto nella filosofia che contraddistingue il progetto rispetto a Rother:

“è una protesta contro il consumismo e contro i nostri colleghi del krautrock che hanno uno stile ed un gusto differente. All’epoca seguivo molto l’arte contemporanea, la Pop-Art ed Andy Warhol. Sono sempre stato molto visivo nel mio pensiero. Perciò durante questo periodo – per mantenere lo spazio nel quale vivevo (una comune) – ho fondato un’agenzia pubblicitaria unicamente per annunci cartacei. La maggiorparte delle persone con le quali vivevo cercarono di irrompere nel mercato pubblicitario (scippandomi le commissioni), quindi ero circondato da questi novellini (Neu!) per tutto il tempo”

Rispetto ai contemporanei del 1972, le composizioni hanno una durata media inferiore e offrono una naturalezza desueta oltre che un ventaglio molto più ampio di sonorità e di paesaggi musicali. La versatilità che dimostrano nell’elettronica li erge a ruolo di padrini dell’elettronica pop e dell’industrial. Tratto distintivo è il beat endlose gerade, anche conosciuto come Motorik – un tempo 4/4 poi riproposto in Autobahn dai Kraftwerk – che da il senso del movimento e che ha ispirato tutte le band a venire (Sonic Youth, Radiohead su tutti).

I Neu! sono la novità, il sound è simile a quello dei Kraftwerk – progetto al quale hanno contribuito attivamente – sicuramente l’opera prima può essere considerato come prodroma di Autobahn. Alle sonorità del disco ha messo a disposizione la propria professionalità Konrad Plank – collaboratore di Rother e Dinger durante la militanza nei Kraftwerk – che ha annoverato nei propri studi anche Brian Eno – con Before And After Science – e Devo – per Q: Are We Not Men? A: We Are Devo!.

Cluster – Cluster II

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Continua il viaggio nel 1972, questa magnifica annata che ha elargito perle di Kosmische Musik a destra e a manca. E’ il turno dei Cluster e di Roedelius e Moebius. Ho sempre pensato a loro come a Mario e Wario, non tanto per le personalità contrapposte, quanto per l’assonanza dei nomi.

Come al solito affrontando il discorso Kosmische si deve specificare quale è il lato del movimento percorso dai Cluster; per dare un’idea si può dire che è un compromesso tra Tangerine Dream e Neu!, per via del distinguibilissimo sound Motorik con sfumature psichedeliche. In ogni caso, riflette in pieno il sound della Berlino di quei giorni “Erano giorni caotici a Berlino, forse è questo il motivo per il quale abbiamo deciso di cominciare a suonare forte ed in modo rumoroso, perché la polizia sfrecciava per la strada tutti i giorni weee wooo weee wooo” ricorda Roedelius.

A dire il vero Cluster II è un album che un po’ si perde nel mare magnum della Kosmische, perché meno distinguibile rispetto alle pubblicazioni degli altri gruppi, ma in ogni caso sarebbe sciocco non parlarne soprattutto perché Moebius ha fortemente ispirato il suono di Heroes e Low, e la collaborazione di Roedelius e Moebius in Before And After Science di Eno non può certo passare inosservata. Poi c’è la figura di Konrad Plank – produttore centrale nella scena Kosmiche ma anche una della figura di riferimento del gruppo – di fatto considerato come parte integrante dei Cluster.

“Avevamo dei background differenti rispetto agli altri gruppi della zona, non avevamo alcun interesse in quello che le altre persone volevano fare, li incontravamo tutti i giorni e li conoscevamo, ma loro pensavano in maniera più commerciale. Noi non abbiamo mai pensato in maniera commerciale. Questa forse è la differenza. La si può riscontrare nella nostra musica” ricorda Moebius. Di fatto è vero, e risulta anche molto semplice comprendere quali siano i gruppi provenienti dalla Kosmische con un sound più accessibile e gli altri meno comprensibili ad un primo ascolto. Ciò non significa voler screditare gli uni più degli altri, bensì cerco solo di porre in evidenza quanto fosse ampio il concetto di Kosmische e quanti sentieri sono partiti da questo centro musicale.

La sensazione che si prova ascoltando Cluster II è di cadere in un lento stato di ipnosi soggiogato dai rumori bianchi, se durante l’ascolto dietro le vostre spalle comparisse Giucas Casella gridando “solo quando ve lo dico io” cadreste in trance (che si legge trans, ma in quel caso cadere potrebbe fare piuttosto male, in qualunque modo tu cadi, cadresti male).

Vorrei far presente che non è che mi stia dilungando perché non so cosa scrivere, solo che non saprei veramente cosa dire di più. Fondamentalmente Cluster II serve ad avere un quadro un po’ più completo della scena elettronica tedesca e di come questa sia andata ad defluire in maniera massiccia nel mainstream.

David Bowie – Lodger

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Tony, Brian e io abbiamo creato un linguaggio di suoni potente, angosciato, a volte euforico. […] Nient’altro aveva il suono di quegli album e nient’altro gli si è avvicinato. Non avrebbe avuto alcuna importanza se non avessi fatto più nulla dopo quei 3 dischi, lì dentro c’è tutto me stesso. E’ il mio DNA.”

Lodger fatica ad arrivare, dopo il tour di Low/Heroes Bowie se ne va in giro per il mondo: Kenya, Giappone, Stati Uniti, è tutto un viaggiare. Il titolo del disco esprime proprio il concetto di “ospite”, in giro e senza fissa dimora, alla ricerca di contaminazioni. I tempi di Berlino sono quasi dimenticati – nonostante Lodger venga considerata la punta del trittico Berlinese. In comune con i precedenti Low e Heroes c’è la band ed il contributo di Visconti e Eno. Al posto di Fripp, alla chitarra solista c’è Adrian Belew, scippato a Frank Zappa dopo un concerto a Berlino dello Sheik Yerbouti Tour.

Piccola Parentesi

*Belew vede in zona mixer Bowie e Iggy Pop, Bowie gli propone di diventare il suo chitarrista per il tour di Heroes e Low (The Isolar II) che sarebbe cominciato due settimane dopo la fine dello Sheik Yerbouti Tour di Zappa. Vanno a cena insieme, destino vuole che Zappa va nello stesso ristorante… Dio ci salvi… Frank si avvicina al tavolo di Bowie e Belew sentendo puzza di tradimento. Il dialogo che ne segue è riportato di sotto:

DB: “Che gran bel chitarrista che hai Frank!”

FZ: “Fottiti Capitano Tom”

Al che Bowie cerca di attaccare bottone provando ad essere ancora cordiale e

FZ: “Fottiti Capitano Tom”

DB: “Non hai veramente nient’altro da dire?”

FZ: “Fottiti Capitano Tom”

Al che Bowie e Belew si alzano e se ne vanno in limo. Bowie col suo aplomb e umorismo britannico liquida la questione con un “Penso che sia andata piuttosto bene!”. E scippo fu.*

Lodger fatica ad arrivare, perché dopo aver vissuto gomito a gomito l’epopea di Heroes, Eno e Bowie si son persi di vista sviluppando visioni musicali non più tanto comuni. Questo sfocia in una acrimonia che non fa bene al disco, facendo nascere un ibrido dall’identità sporca, nel quale le personalità di Eno e Bowie cozzano in maniera prepotente. Eno a differenza delle prime due fatiche entra in maniera più determinante nelle logiche del disco, sia come musicista che come cultore di novità. Mentre le Strategie Oblique sono largamente accettate dopo le sessioni di Heroes, altre tecniche di pensiero laterale vengono difficilmente digerite dai musicisti – annoiando soprattutto Alomar. Creando quel senso di lezione scolastica dove Eno si comporta da professorino.

Lodger fatica ad arrivare, in quanto dopo aver terminato le sessioni delle basi musicali, Bowie fa passare 5 mesi prima di riprendere in mano il progetto e registrare il cantato. Con Visconti e Belew si va a New York a completare il disco, ma gli studi non sono mica come in Europa e l’attrezzatura non è tale da consentire un lavoro ottimale.

Lodger arriva, per quanto critica e principali artefici lo definiscono un incompiuto, per quanto le inimicizie interne abbiano inficiato sul risultato finale del disco, Lodger è un gran bel disco con un potenziale enorme espresso in parte.

Il tema del viaggio – evidenziato anche dalla cartolina dell’artwork – è prodromo di un certo tipo di world music e segue il concetto di motorik intrapreso da Neu!, Kraftwerk e in Station to Station. Così come il riciclo di canzoni passate dimostra una strepitosa attitudine allo studio della diversità.

Red Money è Sister Midnight – scritta durante lo Station to Station tour e donata a Iggy Pop – e che dire di Move On, una versione di All The Young Dudes al contrario ri-arrangiata, ma la figata si raggiunge con la Strategia Obliqua che suggerisce di suonare Fantastic Voyage con interpreti diversi agli strumenti, i musicisti così si scambiano le postazioni ed esce fuori una versione più veloce e decisamente più ritmata: Boys Keep Swinging.

Lodger è arrivato e ha chiuso un cerchio strepitoso che ancora oggi ci fa sognare.

Kraftwerk – Trans Europe Express

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Il 25 marzo del 1957 i sei principali paesi dell’Europa danno vita alla Comunità Economica Europea – fulcro dell’odierna Unione Europea. L’accordo prevedeva un sodalizio economico per garantire un maggiore flusso di capitali, l’incremento dei servizi e il potenziamento dell’agricoltura, del commercio nonché dei trasporti.

Al fine di ottemperare l’ultimo punto elencato, viene creata la Trans Europe Express, un servizio ferroviario capace di collegare l’Europa in lungo e in largo.

In questa breve lezione di storia (utile a elargire informazioni ai meno interessati sui pilastri della nostra Unione Europea) ci sono due argomenti molto cari ai Kraftwerk: l’Europa e il moto inteso come viaggio – concetti quanto mai attuali – terreno fertile per poter far attecchire l’elettronica e trasformarla definitivamente in pop.

Perché l’Europa? Autobahn è stato un disco percepito – dai critici anglofoni – come una esaltazione del regime nazista, difatti l’autostrada a cui si riferisce (A 555Autobahn è stata costruita a cavallo degli anni ’20 e ’30 e rientra nelle grandi opere volute dal regime nazionalsocialista. La volontà forte è quella di volgere lo sguardo in avanti, svincolandosi dalla radice tedesca e muovendosi verso la nuova realtà, quella dimensione europea comunemente e popolarmente apprezzata.

I Kraftwerk sono la semplificazione dei Neu!, dei Tangerine Dream, di Klaus Schulze, dei Cluster e di tutta la Kosmische Musik. Trans Europe Express è il padre degli Ultravox e dei Depeche Mode per intenderci.

La struttura del disco è concentrica ed infinita, sospesa e fuori dal tempo (“life is timeless”), Europe Endless esalta le radici (“Elegance and decadence”) e la visione di un Europa progressista (“Parks, hotels and palaces, promenades and avenues”). L’apertura del disco si connette alla chiusura di Franz Schubert e Endless Endless, una suite che ripropone lo stesso pattern musicale ma in tonalità più bassa.

Il secondo cerchio comincia con l’impassibile cantilena della title-track che sovrapponendosi alla base ritmica ricrea una struttura simile ad Autobahn; il pitch deforma la base e la batteria elettronica si esalta nel suo incedere cadenzato.

Trans Europe Express prosegue nella strumentale Metal on Metal – che evoca l’andamento di un treno sulle rotaie europee – sfociando in Abzug e termina la suite con il ritornello “Trans Europe Express” che prosegue ad libitum come un mantra.

Si parla di treni e l’omaggio a Station to Station è quasi scontato; a dire il vero è il culmine di una ispirazione reciproca tra i Kraftwerk e Bowie – quest’ultimo è stato capace di cogliere nel brano Station to Station i loop tipici dei crucchi, il loro sound apparentemente asettico (affinato poi in Low ed Heroes) e una ripetizione esasperata di ritornelli che espandono la concezione della durata del brano.

Schneider (alla quale è stata dedicata V2-Schneider in Heroes) e Hütter, incontrano Bowie e Iggy durante il loro soggiorno tedesco, e si dimostrano fortemente affascinati da The Idiot, in particolar modo Hütter grande fan di Pop e degli Stooges.

In questa sequenza concentrica, The Hall Of Mirrors e Showroom Dummies sembrano quasi appartenere ad un altro disco, anche se concettualmente sempre minimali e accattivanti. “Siamo dell’idea che se si può fare con una o due note è meglio che suonarne un centinaio”, diciamo che Hütter è abbastanza chiaro sul concetto di sintesi.

Showroom Dummies è il brano che più di Hall Of Mirrors pone l’ascoltatore dinnanzi all’eterna lotta tra realtà e apparenza, così come viene evidenziato dalla cover del disco dove i 4 Kraftwerk appaiono come manichini. Showroom Dummies è anche una simpatica parodia dei Ramones, con il countdown tipico della punkband dei parrucconi ma in tedesco “Eins, Zwei, Drei, Vier” – ed un’enfasi stile XX Pastsezd nella cover di Se Una Regola C’è di Nek .