Morphine – Good

Morphine - Good

Dududu du dududu du dududu du

Papa pa papa pa papa pa pa papa

You’re good- good- good

Penso ai Morphine, a quel giro di basso che arriva dritto allo stomaco, al sax capace di martellare come il volo di un calabrone, al lirismo e al confine tra musica borghese e accessibile. Non posso esimermi dai soliti paragoni, per quanto continuamente Sandman venga posto alla stregua di Tom Waits e Nick Cave esso si esprime con una identità più naturale e genuina, meno teatrale, diretta.

Non è un caso che sia stata una delle band di riferimento degli anni ’90, capace di insinuare nel panorama musicale elementi tipici del jazz e blues con quelli che erano gli strascichi degli anni ’80 basati su new wave e depressione cronica.

Pronti, via, Sandman piazza già la hit di apertura con la title track, il basso a due corde vibra senza sosta, un crescendo che fa vibrare ogni cellula, ed una voce tanto cupa quanto densa. Tutto quanto si sposa da dio con il sax di Dana Colley che entra sempre in punta di piedi intrecciandosi e vestendo i giri di basso con naturalezza. Ne nasce un sound torbido, contraddistinto dalla voce baritona di Sandman, che a tal proposito ha dichiarato:  “ Siamo persone baritone e l’effetto cumulativo di tutti questi strumenti genera un sound decisamente grave, ma si riesce comunque a distinguere cosa accade tra gli strumenti. Scatena sul corpo una serie di vibrazioni che piacciono tanto a molte persone”.

Quello che si trova dentro questo album è un tesoro di cui ognuno ha il diritto di usufruire. La suggestione scatenata da Good è quella di trovarsi in un film noir senza tempo, in un pub con il bancone in legno ed una nebbia da fumo degna della Londra autunnale. C’è una rincorsa continua all’amore, l’unicità, le incomprensioni, dichiarazioni surreali, fughe, la capacità di essere parte e di specchiarsi in tutto ciò.

Se dovessi cercare di tracciare una linea dritta per definire quest’album sceglierei questo trittico di canzoni: GoodYou Speak My LanguageI Know You (part II).

“Something tells me you can read my mind” “Everywhere I go no one understand me, but you speak my language” “Cause you’re just like me and I know you”, sono delle dichiarazioni d’amore esplicite e romantiche che dimostrano quanto questo sia il tema principale dell’album, l’aver trovato qualcuna con cui condividere tutto, senza però apparire melenso o fuori fuoco.

I Morphine, al contrario di quanto si possa pensare, devono il loro nome non alla morfina, quanto a Morfeo, il dio del sonno:

“Ho saputo che c’è una droga che si chiama morfina (morphine), ma non veniamo da lì… noi stavamo dormendo, Morfeo è apparso nei nostri sogni… così ci siamo svegliati e abbiamo cominciato la band… eravamo così avvolti dal messaggio apparso in sogno, che siamo stati costretti a fondare la band.”

Mark Sandman ricalca l’archetipo del bluesman che viene sopraffatto dagli eventi della vita, elevando la sua condizione d’artista ad uno stato di grazia che lo guidano ad una immedesimazione completa in ciò che scrive. La morte prematura di due suoi fratelli e un accoltellamento al petto hanno inciso in maniera probante sulla sua vita, andando a gravare successivamente sulla sua ipertensione arteriosa… ma questa – purtroppo – è un’altra storia.

 

 

PJ Harvey – To Bring You My Love

 

Pj Harvey - To Bring You My LoveLa consacrazione definitiva per PierJulia Harvey arriva con To Bring You My Love.

I proventi derivati dalle prime due fatiche discografiche consentono alla nostra eroina di acquistare casa nella nativa Yeovil – a poca distanza dall’abitazione dei genitori – ove dalla finestra osserva, come una novella Leopardi, distese di campi. L’ispirazione facilitata dall’ambiente e dall’assenza di vicini getta le fondamenta del terzo album, che prende vita nel 1994.

Si abbandona un po’ l’aggressività strafottente e l’attacco al concetto tradizionale di mascolinità, si canta di perdite, appartenenza e amori che sfuggono, viene introdotto inoltre il tema religioso. Curioso quest’ultimo aspetto in quanto – come per Nick Cave -non c’è fede nell’artista (che non è stata nemmeno battezzata) ma è tema che ricorre nelle canzoni, una sorta di giustificativo e palliativo per poter affrontare gli ostacoli della vita e trovarne il senso.

Ulteriore carattere distintivo dell’album è la continua citazione a Captain Beefheart; difatti la title track che ci introduce nell’album, è la frase di apertura di Sure ‘Nuff ‘n Yes I Do (primo brano di Safe as Milk) con “I was born in the desert”.

Anche in Meet Ze Monsta prende in prestito la frase Meet the Monster Tonight dal brano Tropical Hot Dog Tonight (album Shiny Beast).

Oltre a queste due citazioni palesi, ci sono dei richiami più o meno nascosti e a tratti anche frutto di un’interpretazione azzardata. Sempre da Safe as Milk c’è una somiglianza delle melodie e dei testi con Dropout Boogie, mentre in Teclo la linea melodica è il riflesso di Her Eyes Are A Blue Million Miles.

Captain Beefheart è nell’imprinting musicale della Harvey, negli ascolti d’infanzia che la facevano star male; la riscoperta di CuorediManzo con un accezione positiva è merito di John Parish – polistrumentista e produttore che ha avviato una lunga e positiva collaborazione con PolliJijia – capace di ravvivare l’interesse della cantante regalandole la musicassetta di Shiny Beast.

Non si può terminare senza aver citato il brano che – nell’immaginario collettivo – rappresenta l’album: Down By The Water. In controtendenza – per via dei synth – e in contrasto con l’immagine e l’idea musicale che finora ha trasmesso PolliJijia.

Il videoclip – girato anche questa volta dalla Mochnacz – ci mostra la nostra eroina in panni totalmente diversi rispetto a quanto ci ricordavamo: dall’approccio sfatto e menefreghista, alla cura nell’aspetto e nei movimenti meno concitati.

La filastrocca che chiude la canzone è in parte ripresa dalla canzone folk – di inizio ‘900 – Salty Dog Blues nella versione di Lead Belly.

La bellezza dell’album, risiede nella presenza di numerosi easter eggs – sparsi qua e là dalla PJ – che rendono tributo a coloro che in un modo o nell’altro hanno formato la sua coscienza musicale, ma anche nell’evoluzione compiuta nella scrittura dei brani e nella familiarizzazione con i propri mezzi.

PJ Harvey – Rid Of Me

Pj Harvey - Rid Of Me

Patata Joconda Harvey, si mette a nudo per il suo secondo lavoro – con una faccia degna di chi si è appena svegliata e gli occhi pieni di cispe – viene immortalata mentre scuote i capelli bagnati nel bagno di casa sua. Le esigue dimensioni della stanza non hanno concesso alla fotografa – tale Maria Mochnacz – di inquadrare Pigéi, e lo scatto è stato eseguito al buio con il solo flash della macchina fotografica (ecco spiegato il perché della faccia assonnata di Patata J.).

La cara Mochnacz si occuperà anche della direzione dei video di 50 ft. Queenie e Man-Size, per quanto riguarda il primo videoclip il consiglio è di non vederlo appena mangiato – perché le inquadrature sono un misto tra Lucignolo e Rusty Cage – ne uscireste con una discreta nausea. Man-Size invece porrà sotto i vostri occhi una gestualità degna del buon caro Nicola Caverna (all’epoca dei fatti conosciuto come Nick Cave futuro partner sentimentale della Harvey), oltre che una scena in bianco e nero in cui la nostra amica è seduta con mutandone della nonna e naso colante – che non ha più idea di come arginare.

Per quanto io ne parli in maniera ironica, questi videoclip manifestano al meglio il sentimento e la felicità di PJ Harvey: “Faccio tutto per me stessa prima di tutto, e sono felice di questo. Non ascolto le persone quando hanno qualcosa di positivo da dirmi, questo perché tendo a non elogiarmi. Ma sono veramente soddisfatta di Rid of Me. E’ stato veramente un momento perfetto della mia vita. O almeno non proprio perfetto, ma vicino alla perfezione.”

Anche in questa occasione (come in Dry) la PJ è accompagnata da Rob Ellis e Steve Vaughan, formando così un power trio che esprime un tipo di musica rude e aggressiva, dettata da tematiche perlopiù (ndr. è triste che stessi per scrivere “Piero Pelù”, non oso immaginare che tipo di tematiche potessero essere correlate) autobiografiche come ammesso dalla stessa Polligianna: “Rid of Me si riferisce ai miei malanni, in parte può essere considerato psicotico, alcune canzoni sono ispirate da fatti che mi sono accaduti, ma dovrei avere almeno 40 anni per aver vissuto tutto ciò che descrivo in questo lavoro”.

La title-track è un crescendo che scopre piano piano le potenzialità vocali di PolliGigia sfociando in un vortice grungettone e primitivo coi controcazzi (grazie al sapiente lavoro di Steve Albini che ci ha dato sotto di feedback e distorsioni) con un grido afono che chiude il brano, altro che quella bagasciotta di Courtney Love. Una menzione di onore – a mio avviso – va alla cover di Highway 61 Revisited, che fornisce una idea ben precisa degli arrangiamenti adottati da Patata Joahssen Harvey in questo album.

Rid of Me è il classico esempio di rock anni ’90 sapientemente gestito senza apparire mai banale o stancante: powerchord a manetta, linee di basso potenti e blueseggianti, strutture energiche e scarne che pongono in risalto la teatralità e l’estro di PolliGiovanna.

Nick Cave & The Bad Seeds – Murder Ballads

Nick Cave and the Bad Seeds - Murder Ballads

Le Murder Ballads sono una delle espressioni più tipiche della musica folk angloamericana, perfettamente centrate con la poetica e lo stile di Nicola Caverna.

Murder Ballads non è solo il titolo ma anche la sinossi dell’album, un concept incentrato su omicidi – storie d’amore naufragate, dilemmi morali, vittime e carnefici – in una sorta di Antologia di Spoon River versione 2.0, che ha rappresentato un enorme successo di critica e di pubblico grazie anche alla partecipazione di PJ Harvey (all’epoca squinzia di Nick Cave) e Kylie Minogue (all’epoca molto fica).

Stagger Lee – storpiata in Stagolee – narra fatti di cronaca nera (in quanto Lee di origine afroamericana) avvenuti realmente nella fine del ‘800 che hanno in Lee Shelton “Stag” il protagonista (stag in slang significa “senza amici”, da ciò si evince che se ci fosse stato Facebook nel 1800 sicuramente si sarebbe potuta evitata una carneficina). Tanti i musicisti che nel corso degli anni hanno raccontato la follia compiuta da Stagolee, reo di aver ucciso un barista – e non solo – per futili motivi nella notte di Natale, entrando nell’immaginario collettivo degli americani. Nick Cave rispetto a tutte le altre versione, narra la storia in maniera molto cruenta, anacronistica (portando i fatti agli anni ’30 del XX secolo) e da una prospettiva neutrale, dove lo stesso Stagolee anti-eroe (come Butch e Cassidy o altri casi di banditismo americani) si definisce “bad motherfucker”.

Si prosegue con Henry Lee, che non è il fratello di Stagger, bensì il secondo brano proveniente dal filone tradizionale, interpretato magistralmente con PJ Harvey.

La canzone ha origine in Scozia come Young Hunting, ha le proprie varianti nel resto del Regno Unito ma anche negli Stati Uniti (qui conosciuta come Henry Lee e Love Henry) e ci racconta di una donna che non trovando il proprio amore corrisposto decide di porre fine alla vita dell’uomo (della serie “o io o nessuna”).

Il testo della versione di Cave è mutuato dalla versione di Dick Justice, ma la struttura musicale viene stravolta e da ballata campagnola – con forcone e spiga di grano in bocca – a nenia cupa (melodia resa poi tzigana e utilizzata in The Curse of Millhaven).

Il boom di questo album però è quasi totalmente imputabile al duetto con Kylie Minogue, all’epoca fidanzata con Michael Hutchence, che funse da intermediario tra Cave e la Minogue.

Candidamente la cantante ha successivamente ammesso di non conoscere quasi affatto Nick Cave prima di ricevere la proposta di collaborazione. Oh rabbia!

Fatto sta che anche Where the Wild Roses Grow trae ispirazione da un canto tradizionale (Down In the Willow Garden, ri-arrangiata e presente nel lato B del singolo con la Minogue), ma è stata appositamente scritta per la cantante; difatti Nick Cave ha avuto un’ossessione di circa 6 anni per lei che l’ha portato a buttare nero su bianco il brano, incentrato sul dialogo tra l’assassino e l’assassinata.

Song of Joy è il brano di apertura del disco; il titolo è un gioco di parole che offre una doppia chiave di lettura “Canzone della Gioia” e “Canzone di Joy” lasciando presagire lo spirito triste e agrodolce di Murder Ballads. 

Si descrive il viaggio di un uomo – alla ricerca dell’assassino di sua moglie (Joy) e dei suoi figli – che fermandosi in una baita di notte racconta tutti i suoi cazzi all’oste. Mano a mano si arriva alla fine del brano con un dubbio sottinteso, non sarà che il marito è l’omicida? Non vorremmo essere nei panni dell’oste (chili e chili di merda). Questo brano sembra sia il seguito di Red Right Hand presente in Let Love In.

La cover di Dylan, Death is Not the End è una We are the World dei poveri che chiude il disco ed è l’unica canzone nella quale non muore nessuno.

Alla fine dell’album possiamo contare 65 omicidi (di cui 23 solo in The Curse of Millhaven).

Nick Cave and the Bad Seeds – No More Shall We Part

Nick Cave and the Bad Seeds - No More Shall We Part

Molti ricorderanno il 2001 per l’attentato alle Twin Towers, altri per la prolificità nelle pubblicazioni musicali come ad esempio Origin of Symmetry dei Muse, Reveal dei R.E.M. o Exciter dei Depeche Mode… a mio avviso non può essere tralasciato in questo elenco No More Shall We Part di Nick Cave l’album della maturità consacrata di quest’artista tutto tondo.

Nick Cave da un taglio netto al passato e dopo 4 anni di assenza torna con No More Shall We Part, che esprime un lato ancora poco conosciuto di Cave, un lirismo profondo, quasi mistico, con riferimenti continui ed espliciti alla religione. L’abuso di alcool e di eroina sono superati poco prima dell’inizio dei lavori per l’album e questa svolta si riflette profondamente nei testi, che associati al talento dei Bad Seeds ed al violino di Warren Ellis, conferisce uno stile aulico e solenne a No More Shall We Part (riscontrabile in diverse tracce come ad esempio in Halleluja ed evidenziato dall’assenza quasi totale delle sezioni ritmiche nell’album).

La cover dell’album rappresenta più che bene il contenuto, un dipinto di una natura morta che permette all’ascoltatore di capire già a cosa andrà incontro, ovvero: canzoni discretamente lunghe, intense e di difficile interpretazione, un pianoforte cadenzato e malinconico talvolta anche drammatico, chiaramente ispirato da Bob Dylan e Leonard Cohen, una atmosfera coinvolgente che dura per tutti i 67 minuti dell’album e che permette agli ascoltatori di immedesimarsi nelle sensazioni che Cave prova e ha provato dopo le disintossicazioni. La percezione che si prova nell’ascoltare quest’album è una sorta di voyeurismo il mondo che viene osservato da un punto di vista esteriore (un rapporto con Dio indefinibile e a volte critico) quasi come se fosse un collegamento con la visione cristiana adottata da Cave che spicca nella trilogia di brani Halleluja, God Is In The House e Oh My Lord, che segna anche un distacco dall’approccio punk a favore di uno stile poetico puro modello beat-generation (Nick Cave come stile si avvicina molto a Borroughs ricordando a tratti anche Kerouac). Questa visione cristiana e ansiogena è tipica di chi ha vissuto problemi di dipendenza (nel mondo musicale, soprattutto, ci sono diverse prove viventi).