Leonard Cohen – Songs Of Leonard Cohen

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Ricordo l’America del Rock (la stupenda raccolta edita da La Repubblica nel 1993 con selezione di Assante, Castaldo, Zucconi, Pellicciotti, Bertoncelli, Placido e tanti altri), il cd 3 che risuona nello stereo: Il Rock Riscopre il Folk. C’è un piccolo cortocircuito in questa raccolta, perché Leonard Cohen è canadese (così come Joni Mitchell) ma c’è lo stesso in quel popò di scaletta. Lo credo bene, come fai a tirarlo fuori da li?

C’è Suzanne, quella stessa Suzanne magistralmente reinterpretata da De André, quella stessa Suzanne cantata da Judy Collins, che aprì definitivamente le porte del mondo della musica a Cohen, finora conosciuto più per le sue poesie che per le canzoni. Cohen era convinto di poter sfondare a Nashville, ma il destino lo dirotterà a New York, in quel focolare artistico chiamato Greenwich Village.

Il primo disco di Leonard Cohen sarà anche quello che la gente ricorderà di più, un successo maturato alla lunga, valutato come merita solo nel corso degli anni, forse perché pubblicato nel pieno periodo della musica politicizzata e del movimento hippy, fatto sta che gli apprezzamenti sono arrivati prima dall’Europa che dagli Stati Uniti (un po’ come avvenne per Jimi Hendrix).

Tornando al brano di apertura del disco, Suzanne, è stata scritta da Cohen nel giro di alcuni mesi, come rivelato da lui stesso: “La stesura di Suzanne, così come per tutte le mie canzoni, ha richiesto molto tempo. Ho scritto la maggiorparte di essa a Montreal – veramente tutta quanta a Montreal – nello spazio, forse, di quattro-cinque mesi. Avevo molti, molti versi. Tante volte i versi andavano per la tangente, avevi dei versi molto rispettabili, ma che conducevano lontano dal sentimento originale della canzone. Quindi, è necessario tornare indietro. È un processo veramente doloroso, in quanto c’è da buttar via un sacco di buon materiale”.

Suzanne Verdall si nasconde dietro la canzone, una vera e propria musa ispiratrice per i poeti beat, sposata all’epoca con lo scultore Armand Vaillancourt. Suzanne viveva in riva al fiume St. Lawrence insieme alla propria figlia, Leonard Cohen andava a trovarla spesso e bevevano del te e mangiavano mandarini “and she feeds you tea and oranges that come all the way from China“. Cohen descrive dei momenti passati insieme e idealizza questa relazione platonica… sarebbe bello dilungarsi ulteriormente su questa canzone e sull’analisi del testo ma dovrei anche raccontare un minimo dei restanti brani.

Come ad esempio, Master Song, la mia preferita “Mi piace cantare una canzone chiamata ‘Master Song‘ è sulla trinità. Ditelo agli studenti: è su tre persone.”, le tre persone sono l’io il tu e lei, parla del rapporto tra padrone e schiavo e di come si evolve sino all’invertimento delle parti. Una canzone che assume una forza considerevole grazie anche all’arpeggio ossessivo, in uno stile che ritroviamo sovente nel resto del disco. La canzone è stata scritta su di una panchina di pietra tra la Burnside e Guy Street, mentre uno dei suoi brani più famosi, So Long Marianne viene composta a cavallo tra due hotel, il Penn Terminal ed il ben più famoso Chelsea.

So Long Marianne è stata scritta in onore di Marianne Jensen, incontrata da Cohen in Grecia dopo che lei si è da poco separata dal marito. Si stabilisce una forte relazione tra i due, Marianne è una vera e inesauribile fonte di ispirazione, tant’è che Cohen offre ospitalità a Montreal a lei e al suo figlio, le dedica anche la sua raccolta di poesie Fiori per Hitler.

Toccante è il commiato tra i due, quando Cohen ha saputo della malattia della Jensen, le ha scritto “So che sei così vicina a me, tanto vicina che se allunghi la mano, penso che possa raggiungere la mia… arrivederci amica mia. Amore infinito, ci vediamo alla fine della strada.”

Si salta di palo in frasca, è un disco che dovrebbe essere toccato in ogni suo punto, ma come al solito mi dilungo e lascio tante di quelle cose che ci sarebbe bisogno di un vero e proprio libriccino per spiegare Songs Of Leonard Cohen. La bellezza di quest’album culmina con One Of Us Cannot Be Wrong, con quel coro stonato finale che offre un tocco di spensieratezza ad un disco eterno.

Dimenticavo di scrivere che il gruppo scelto da Cohen per registrare è quello dei Kaleidoscope nelle figure di Crill, Darrow, Feldthouse e Lindley… arriverà anche il momento di parlare di loro.

Tim Buckley – Goodbye And Hello

Tim Buckley - Goodbye And Hello

Tim Buckley è stato un vero innovatore – termine ampiamente inflazionato al giorno d’oggi – riuscendosi a spingere veramente oltre i limiti fin lì stabiliti, unendo generi distanti tra loro.

A cavallo degli anni ’60-’70 c’era veramente qualcuno capace di apportare delle modifiche sostanziali al movimento, per tale motivo è assolutamente paragonabile a Frank Zappa in termini di contributo al mondo musicale.

Tant’è che lo stesso Zappa assieme al suo manager di allora, Herb Cohen, lo assoldarono nella Straight Records, aiutando Tim a porre le basi della sua carriera artistica con Goodbye and Hello, disco ambizioso per un ventenne di belle speranze e fortemente ispirato a Blonde on Blonde di Bob Dylan.

Tim Buckley è stato un eccelso autore ed un grandissimo cantante; dalla voce fasciante, estesa e capace di mantenere la padronanza di tutte le tonalità. L’acido desossiribonucleico in questi casi non mente mai donando poi a Jeff Buckley una voce divina. Goodbye And Hello nasce proprio dalla fuga dalle responsabilità del giovane Tim, poco dopo il concepimento di Jeff – appena diciottenne – non regge il peso della notizia e si trasferisce a New York – nel Greenwich Village – in cerca del sogno musicale, abbandonando così la compagna incinta e dedicandosi alla scrittura del suo secondo album.

Oltre ad un costruzione musicale complessa presente in alcune canzoni, la voce modulata di Buckley e la sua passione hanno dato una profondità eccezionale ad un disco che riflette le sensazioni negli Stati Uniti dell’epoca: allegria, repressione, violenza, ricerca di libertà; Tutti gli elementi che troviamo nella title-track Goodbye and Hello.

Goodbye and Hello ha un climax assoluto, creato ad arte da una miriade di strumenti che formano atmosfere epiche, medievali, zigane e circensi all’interno di un unico brano suddiviso in diverse sezioni legate tramite la voce di Buckley ed un testo di protesta. Ciò contribuisce ad un livello metafisico difficilmente riscontrabile in altre realtà musicali dell’epoca.

Queste atmosfere vengono richiamate più volte nel corso del disco come in Carnival Song -canzone ipnotica angosciante e monocorde – e Hallucinations.  La ritmica viene esaltata in brani come Pleasant Street – che avvolge in un clima tetro e solenne l’ascoltatore per riprendersi con delle cabrate vocali paurose – e I Never Asked To Be Your Mountain, distinta da un ritmo martellante ed una psichedelica galoppante (canzone reinterpretata assieme a Once I Was dal figlio Jeff per un concerto tributo).

Phantasmagoria in Two è la punta di diamante di questo disco – una delle canzoni d’amore più belle: asfissiante, malinconica, profonda tanto da riempirti e svuotarti mentre la ascolti. E’ un disco sorprendente e confusionario allo stesso tempo, lo spleen che viene trasmesso tramite i brani è anticipato dalla cover dell’album che ritrae un Tim Buckley che sorride con mestizia.

Se non riuscite a comprendere la grandezza di quest’artista, ci penserà Lee Underwood – suo chitarrista storico – a farvi capire il suo contributo:

Buckley fu per il canto ciò che Hendrix fu per la chitarra, Cecil Taylor per il piano e John Coltrane per il sassofono”

Kevin Ayers – Joy Of A Toy

Kevin Ayers - Joy Of A Toy

“Quando in Aprile le dolci piogge cadevano

E penetravano la siccità di marzo alla radice, e tutte

Le vene erano impregnate di umore in tale potere

Da portare al generarsi dei fiori,

Quando anche Zeffiro con il suo fiato dolce

Ha esalato aria in ogni bosco e in ogni brughiera

Sopra i teneri germogli, e il nuovo sole

Ha percorso la sua metà del cammino in Ariete,

E gli uccellini hanno fatto melodia

Che dormono tutta la notte con gli occhi aperti

(Così la natura li punge nei loro cuori impegnati)

Allora la gente va lontano in pellegrinaggio

E i pellegrini (vanno) lungamente alla ricerca di lontani santuari

Variamente noti, si trovano in contrade forestiere,

E specialmente, fin dalle più lontane parti

Dell’Inghilterra, loro si recano a Canterbury […]”

 

Nel prologo delle Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer, si può leggere tra le righe di ciò che accadrà con il movimento musicale di Canterbury. Dove il santuario della psichedelia e del progressive viene preso a modello d’ispirazione da una generazione di band.

Uno dei fautori delle Canterbury Tales targate anni ’60 è stato Kevin Ayers, capostipite -assieme a mastro Wyatt – dei Soft Machine, successivamente abbandonati per una pigrizia congenita. Succede che dopo un tour dei Soft Machine come spalla a Jimi Hendrix e la sua Experience, Ayers vuole staccarsi dallo showbiz e dai suoi meccanismi. Jimi cuore d’oro che non è altro, gli regala una Gibson acustica affinché possa continuare ad esercitarsi nello scrivere canzoni. Lui così fa, va a vivere prima a Ibiza – dove butta giù i testi della sua prima fatica solista – poi a Londra e Peter Jenner lo produce.

Nei versi di Chaucer c’è anche il manifesto del primo disco solista di Ayers, Joy of A Toy. Un risveglio, come una primavera musicale, l’allegria nel disco ed il suo disordine è coinvolgente e ha molto in comune con il Syd Barrett scanzonato di The Madcap Laughs – album coevo che risente oltre che dell’influenza di Jenner anche della presenza dei vari Soft Machine.

Hopper, Ratledge e Wyatt, hanno contribuito in maniera determinante alla realizzazione del capolavoro di Barrett.

Ayers figura come una versione più disciplinata del lisergico Syd, ma con le medesime radici.  Non solo, anche la necessità di staccarsi dalle band che hanno fondato trasmette chiaramente la voglia di intraprendere un progetto diverso, svincolato dalla “serietà” della musica prodotta e da tutto ciò che ne consegue in termini di impegni.

I due si troveranno a collaborare in un singolo di punta di Ayers, Singing a Song in the Morning, dove Barrett suona la chitarra in una versione inedita fino agli inizi del 2000. Ayers a tal proposito ricorda Syd come una presenza flemmatica, incapace di accordare la chitarra o di suonare gli accordi giusti. Vabè, semplicemente quello che ci è stato raccontato anche dagli altri musicisti durante le sessioni che hanno contribuito alla registrazione dei suoi due dischi.

Tornando a Joy of A Toy, il titolo dell’album è un tributo alla passata esperienza del bassista, nello specifico al primo singolo rilasciato negli USA da parte dei Soft Machine, facente parte di un enclave musicale all’interno della suite Hope For Happiness. La composizione che apre il disco si intitola Joy of A Toy Continued, come a voler indicare una continuità con quanto fatto sino a quel momento con la sua band, distaccandosene con un bailamme di suoni che fanno festa ad ogni vibrazione.

Kazoo, organetto, trombette, frizzi, lazzi, scazzi, si sente l’influenza dei Pink Floyd dello UFO, con il quale i Soft Machine hanno condiviso il palco, si sente l’outro di Bike in questa melodia.

Il bambino paffutello coi calzetti tirati su, il tamburo in mano e l’esultanza alla Paolo Rossi, danno l’idea del clima che si può trovare nel disco: allegria, esaltata da una rana che suona un trombone e che ci lascia intendere che magari anche un po’ di psichedelia all’interno dell’album non ci sfuggirà.

La sua voce impostata e baritona – aiutata dai fiati dominanti nel disco – è camaleontica e con sfumature diverse ad ogni ascolto ed ogni ritornello, unica nella sua poliedricità, in Town Feeling il suo canto deciso e trascinato ricorda leggermente Roger Waters, in Clarietta Rag il canto veloce, onirico e spensierato contro le leggi della metrica incontra in tutto e per tutto Syd Barrett, così come la chitarra con punte di acidità e distorsione palesa un’influenza dalla Vegetable Man floydiana memoria. In Song For Insane Times ricorda a tratti Nick Drake nell’intimità dell’esecuzione

Scanzonato, ma niente di innovativo, idee sviluppate con grazia e raffinatezza, intrecci e armonizzazioni che danno un corpo consistente ai suoi brani, vestiti che indossa perfettamente. Sicuramente un apporto deciso ad una corrente musicale che già si è sviluppata con forza negli anni passati. Un disco da ascoltare per cominciare ad assemblare i pezzi di un puzzle sconosciuto ai più.