Patti Smith – Horses

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Horses è un disco che nasce molto lontano, nel 1964, quando una giovane ragazza-madre – dai gusti decisamente strambi rispetto a tanti suoi coetanei – si avventura senza nemmeno un centesimo a New York. Nella grande mela vive di stenti e di lavori saltuari, fin quando non farà l’incontro che le cambierà definitivamente la vita: Robert Mapplethorpe.

La voglia di diventare artista e poetessa matura sempre di più vivendo a contatto con Robert, ma sino ai primi anni ‘70 l’idea di cantare non le sfiora nemmeno l’anticamera del cervello, è Lenny Kaye che le mette la pulce nell’orecchio.

Il trasferimento al Chelsea Hotel e la frequentazione di un centro nevralgico della sottocultura newyorkese la invogliano ad alzare l’asticella e credere nelle proprie capacità, perciò i reading si trasformano in performance con base musicale di chitarra elettrica.

Cresce così la convinzione in Patti di musicare le sue poesie trasformandole in canzoni. L’imprinting musicale è solido: oltre a scrivere recensioni per riviste specializzate come Creem (dove nascerà il rapporto di amicizia con Lester Bangs) e Rolling Stones; non ha mai nascosto una folle dedizione per Bob Dylan ed i Rolling Stones, perciò è semplice ritrovare la sensibilità del primo e la potenza dei secondi in Horses, mantenendo però una cifra stilistica riconoscibile e propria.

L’idea di Patti è di suonare un Rock ‘N’ Rimbaud (per essere precisi, si ispirerà molto anche a Blake e Baudelaire) “ciò che volevo fare nel rock’n’roll era di unire poesia e paesaggi sonori, le persone che hanno più contribuito a questa visione sono stati Jimi Hendrix e Jim Morrison“. Smith riversa profonda ammirazione nei confronti di questi artisti in due brani stupendi di HorsesElegie (dedicata alla memoria del chitarrista) e Break It Up (scritta dopo la visita alla tomba di Morrison a Père Lachaise).

Proprio da Jim Morrison eredita quella capacità magnetica di stabilire un contatto con ogni singolo ascoltatore, coinvolgendo le corde emotive e mentali di chi ascolta.

Horses sarà proprio quanto pensato da Patti, l’impressione che si ha ascoltandola è di avere a che fare con qualcosa di differente, non è la Nico sacerdotale e portatrice di funeste novelle o il Jim Morrison filosofo a tratti aggressivo. Patti ha una carica positiva e si fa portatrice di messaggi di speranza, tira fuori gli artigli sul palco e lo si sente nelle lunghe cavalcate convulse accompagnate da Kaye, Sohl, Kral e Daugherty. La band è un vero e proprio supporto che esalta con la semplicità di pochi accordi – ed in pieno stile da garage-band – i testi della Smith.

Nel 1973 a New York prende vita uno dei locali più iconici della storia della musica, il CBGB. Patti lo frequenta assiduamente e familiarizza con i principali artisti coinvolti nelle serate, tra i quali Tom Verlaine dei Television con il quale registrerà il suo primo 45 giri, (una nuova versione di Hey Joe e Factory Pissing, che ebbe più successo della cover di Hendrix). Da spettatrice a ospite il passo è enorme, ma Patti si troverà a calcare il palco del CBGB per una marea di volte, e di lì a poco il Patti Smith Group viene messo sotto contratto per registrare il primo album, che sarà prodotto da John Cale.

È il 1975 e per Patti Smith ci sarà una seconda nascita, da aspirante poetessa a vera e propria icona del proto-punk e della scena newyorkese. Per la copertina dell’album non ha nessun dubbio: Patricia vuole affidarsi a Robert Mapplethorpe. Lui la immortala in bianco e nero – un’immagine differente rispetto a quanto offerto dalle altre artiste in quegli anni- apparendo unisex “ero un incrocio tra Baudelaire e Sinatra“.

Patti Smith capisce di essere un punto di riferimento per la scena musicale quando ai suoi concerti nella grande mela la platea è affollata dai principali musicisti del periodo, tra i quali Lou Reed e l’idolo dell’adolescenza di Patti, Bob Dylan. Lo stesso Bob Dylan che 41 anni dopo le chiederà di presenziare alla cerimonia del Nobel al suo posto.

Se dovessi scegliere una canzone che descriva Horses, sicuramente opterei per la sua versione di Gloria – stravolge il testo di Van Morrison mantenendone solo il ritornello – diventerà l’inno anarchico di quella generazione, un perfetto esempio di come lavorare sulle proprie fonti di ispirazione senza maltrattarle… con una frase d’apertura che da a tutti l’idea di chi sia Mrs. Patti Smith:

“Jesus died for somebody’s sins but not mine.”

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Bob Dylan – Blonde On Blonde

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Blonde On Blonde è la cosa che più si avvicina al sound che sento nella mia testa. Un sottile e spontaneo suono, come fosse mercurio”,

Bobbe bobbe dopo averci deliziato con Highway 61 Revisited butta là un altro asso dalla manica, Blonde On Blonde non ha assolutamente nulla che sia fuori posto, e c’è da dirlo… per quanto Zimmy mi stia cordialmente sulle balle, Blonde On Blonde una volta che lo fai partire devi lasciarlo qualche ora a suonare, perché è giusto che ogni sua nota riempia tutte le stanze di casa.

Dopo essersi attirato dei signori insulti e rabbie da puggile, con Highway 61 Revisited e la famosa svolta elettrica (di pari fama alla scissione dell’Impero Romano) Bobby intraprende un tour durante il quale prende corpo Blonde On Blonde e l’idea nata con Highway assume maggiore consistenza. Il rhyhtm and blues fa da sfondo al disco nel quale svettano testi di una intensità tale da rendere leggenda vivente Dylan e – da lì in poi – pietra miliare per tutti i cantautori.

Blonde On Blonde è la rottura di schemi definitiva, il primo doppio album della storia (giusto per una manciata di settimane d’anticipo su Freak Out!) con una copertina tanto storica quanto sfocata.

“Troppo veloce per essere messo a fuoco” diranno di lui, di fatto si innescò un processo di idealizzazione volto alla beatificazione quasi istantanea di Dylan per il messaggio celato dietro la scelta dell’immagine, s’è sempre pensato che fosse un’alterazione voluta per dar l’idea a chi osservava la fotografia di esser sotto l’effetto di droghe, ma la verità è che Jerry Schatzberg – autore dello scatto – e Dylan stavano letteralmente congelando. Era febbraio ed entrambi vestivano solo di una giacca, l’effetto stonato è quindi totalmente casuale, dovuto dal tremolio di entrambi… poi la scelta della foto comunque l’ha fatta Dylan, quindi molto culo ebbe. Ma tanto quando deve girare, gira bene.

In fondo la fortuna aiuta gli audaci, si perché il lavoro svolto da Dylan è a tutto campo ed estremo: la comunicazione visiva, la sua musica i suoi testi. Inoltre destò stupore la volontà di spostarsi da New York – vero e proprio centro culturale da mignolo perennemente alzato e scoregge trattenute, dove oltre alle scoregge tratteneva le idee – al ben più spiccio Tennessee – stato nel quale dopo aver sparato un rutto esulti anziché vergognarti – per registrare il disco.

Dalla prima sessione di registrazione esce la splendida Visions of Johanna – nata Freeze Out in quel di New York – dopo ben 14 versioni nel quale il suono viene centrato e diventa mercurio, ovvero rilucente e metallico. Visions of Johanna è letteratura pura, è uno dei motivi principali per il quale Dylan si è aggiudicato il Nobel, è la sua canzone preferita in Blonde On Blonde.

Le sessioni si rivelano impegnative e alcuni brani richiedono svariate versioni, come per la meravigliosa Stuck Inside of Mobile With The Memphis Blues Again – che subisce le influenze del Tennessee – e la chiusura del lato A del primo disco, la meravigliosa One Of Us Must Know (Sooner Or Later) maturata per intiero a Nashville, nella quale Dylan ci racconta la fine di un amore. L’amore è un sentimento ricorrente nell’album, I Want You – uno dei brani più celebri e pop del disco – racconta la voglia genuina che Dylan provava per l’allora sposa Sara Wilentz, per quanto i geniacci dell’analisi del testo ci hanno visto comunque un riferimento all’eroina.

Eroina… eroina everywhere! La ggente ci vive nei complotti cazzo.

Fatto sta che anche I Want You è stata sottoposta a numerose revisioni e rielaborazioni, lo stesso Dylan dirà a proposito “posso sentire il suono delle cose che voglio dire”, la ricerca di questo suono passa attraverso un lavoro certosino e metodico.

Poi ad una certa giunge il momento Signorini, dal quale è impossibile fuggire, e arriva su Just Like A Woman, oggetto di ricerche per scoprire chi fosse la donna della canzone. Naturalmente tutti questi scienziati della fica vogliono che Dylan si riferisse alla musa di Warhol, Edie Sedgwick (la prima Nico per intenderci, quella che quando Nico è arrivata è stata messa in disparte da Warholino), ma secondo altri invece è dedicata a Joan Baez, altra con la quale Zimmy avrebbe ficcato, prima naturalmente di Sara eh.

Insomma ci siamo capiti no?

Una menzione va al carattere cazzone di Dylan che in Fourth Time Around omaggia l’omaggio dei Beatles in Norwegian Wood; canzone che risente dello stile di Dylan, perciò si crea questo cortocircuito che venne esaltato al tempo come Dylan che canta Lennon che canta Dylan. Tipo ti sei scopato tua nonna, quindi sei il padre di tua madre (o padre, a seconda della nonna che ti sei ficcato [se ti ficchi entrambe le nonne non ho idea del casino spazio-temporale che si può innescare]). Vabè comunque, la tonalità e il tempo sono gli stessi, perciò se vi voleste divertire ad ascoltarle in parallelo, sentireste quanto le due canzoni siano simili.

Il disco termina con Sad Eyed Lady of the Lowlands, anch’essa dedicata a Sara, nasce come una canzone di celebrazione del matrimonio e soprattutto per essere breve. Si trasforma nella versione – che conosciamo – da più di 11 minuti. Elaborata principalmente al Chelsea Hotel, anch’essa fu terminata e registrata a Nashville per la gioia dei turnisti alle 4 di mattina (dopo sessioni durate tutta la serata), chiude teneramente il disco con un altro brano straordinariamente emotivo.

Leonard Cohen – Songs Of Leonard Cohen

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Ricordo l’America del Rock (la stupenda raccolta edita da La Repubblica nel 1993 con selezione di Assante, Castaldo, Zucconi, Pellicciotti, Bertoncelli, Placido e tanti altri), il cd 3 che risuona nello stereo: Il Rock Riscopre il Folk. C’è un piccolo cortocircuito in questa raccolta, perché Leonard Cohen è canadese (così come Joni Mitchell) ma c’è lo stesso in quel popò di scaletta. Lo credo bene, come fai a tirarlo fuori da li?

C’è Suzanne, quella stessa Suzanne magistralmente reinterpretata da De André, quella stessa Suzanne cantata da Judy Collins, che aprì definitivamente le porte del mondo della musica a Cohen, finora conosciuto più per le sue poesie che per le canzoni. Cohen era convinto di poter sfondare a Nashville, ma il destino lo dirotterà a New York, in quel focolare artistico chiamato Greenwich Village.

Il primo disco di Leonard Cohen sarà anche quello che la gente ricorderà di più, un successo maturato alla lunga, valutato come merita solo nel corso degli anni, forse perché pubblicato nel pieno periodo della musica politicizzata e del movimento hippy, fatto sta che gli apprezzamenti sono arrivati prima dall’Europa che dagli Stati Uniti (un po’ come avvenne per Jimi Hendrix).

Tornando al brano di apertura del disco, Suzanne, è stata scritta da Cohen nel giro di alcuni mesi, come rivelato da lui stesso: “La stesura di Suzanne, così come per tutte le mie canzoni, ha richiesto molto tempo. Ho scritto la maggiorparte di essa a Montreal – veramente tutta quanta a Montreal – nello spazio, forse, di quattro-cinque mesi. Avevo molti, molti versi. Tante volte i versi andavano per la tangente, avevi dei versi molto rispettabili, ma che conducevano lontano dal sentimento originale della canzone. Quindi, è necessario tornare indietro. È un processo veramente doloroso, in quanto c’è da buttar via un sacco di buon materiale”.

Suzanne Verdall si nasconde dietro la canzone, una vera e propria musa ispiratrice per i poeti beat, sposata all’epoca con lo scultore Armand Vaillancourt. Suzanne viveva in riva al fiume St. Lawrence insieme alla propria figlia, Leonard Cohen andava a trovarla spesso e bevevano del te e mangiavano mandarini “and she feeds you tea and oranges that come all the way from China“. Cohen descrive dei momenti passati insieme e idealizza questa relazione platonica… sarebbe bello dilungarsi ulteriormente su questa canzone e sull’analisi del testo ma dovrei anche raccontare un minimo dei restanti brani.

Come ad esempio, Master Song, la mia preferita “Mi piace cantare una canzone chiamata ‘Master Song‘ è sulla trinità. Ditelo agli studenti: è su tre persone.”, le tre persone sono l’io il tu e lei, parla del rapporto tra padrone e schiavo e di come si evolve sino all’invertimento delle parti. Una canzone che assume una forza considerevole grazie anche all’arpeggio ossessivo, in uno stile che ritroviamo sovente nel resto del disco. La canzone è stata scritta su di una panchina di pietra tra la Burnside e Guy Street, mentre uno dei suoi brani più famosi, So Long Marianne viene composta a cavallo tra due hotel, il Penn Terminal ed il ben più famoso Chelsea.

So Long Marianne è stata scritta in onore di Marianne Jensen, incontrata da Cohen in Grecia dopo che lei si è da poco separata dal marito. Si stabilisce una forte relazione tra i due, Marianne è una vera e inesauribile fonte di ispirazione, tant’è che Cohen offre ospitalità a Montreal a lei e al suo figlio, le dedica anche la sua raccolta di poesie Fiori per Hitler.

Toccante è il commiato tra i due, quando Cohen ha saputo della malattia della Jensen, le ha scritto “So che sei così vicina a me, tanto vicina che se allunghi la mano, penso che possa raggiungere la mia… arrivederci amica mia. Amore infinito, ci vediamo alla fine della strada.”

Si salta di palo in frasca, è un disco che dovrebbe essere toccato in ogni suo punto, ma come al solito mi dilungo e lascio tante di quelle cose che ci sarebbe bisogno di un vero e proprio libriccino per spiegare Songs Of Leonard Cohen. La bellezza di quest’album culmina con One Of Us Cannot Be Wrong, con quel coro stonato finale che offre un tocco di spensieratezza ad un disco eterno.

Dimenticavo di scrivere che il gruppo scelto da Cohen per registrare è quello dei Kaleidoscope nelle figure di Crill, Darrow, Feldthouse e Lindley… arriverà anche il momento di parlare di loro.