Napoli Centrale – Napoli Centrale

Prendetemi per matto, ma Napoli Centrale – al contrario da quanto rappresentato in copertina – ha tutte le carte in regola per iscriversi a questo ciclo di pubblicazioni prettamente estivo. Perché?  

Scardinando le travi del solito stereotipo della bella Napoli estiva, come anticipato con Alice, album e canzoni difficilmente appartengono a una stagione, siamo “noi” a dargli una collocazione temporale e a rivestire di nuovo significato un brano, sulla base del nostro vissuto e delle nostre esperienze. È logico che Moon In June dei Soft Machine venga più semplice ascoltarla durante giugno quanto Harvest di Neil Young nei mesi estivi, però possono legarsi tranquillamente a periodi apparentemente lontani dal significato originario pensato per la canzone.  

Logicamente qualche composizione si presta di più a questa ricollocazione stagionale, altre meno, ma Napoli Centrale ha un suo senso in questo ciclo di pubblicazioni, nonostante in copertina risalti una campagna uggiosa e i quattro membri della band vestano giacche impermeabili, diretti verso una meta che presumo non sia una spiaggia.  

Facciamo questo giochino pertanto: immaginiamoci tutti insieme che Napoli sia stata colpita da uno di quegli acquazzoni estivi che sollevano il petricore e fanno crollare drasticamente le temperature, tanto da giustificare la vestizione di impermeabili e cerate; poi mettete su questo disco ed immergetevi nei lancinanti suoni sfornati dal Fender Rhodes di Mark Harris e dal sax senza fronzoli di James Senese.  

La temperatura comincerà ad alzarsi di brutto, le chiappette si agiteranno sempre più convinte e voi, euforici, vi renderete conto di quanto la trama musicale trasudi funk, jazz e soul

Chi mastica un po’ di jazz, sa che ha a cavallo tra anni ‘60 e ‘70 sono state compiute corpose rivoluzioni, tanto da leggere in Napoli Centrale una forte influenza subita dal Miles Davis di Bitches Brew, non tanto nel lavoro alla produzione svolto da Teo Macero in studio, bensì nei salti mortali eseguiti da Miles Davis e dalla sua band durante le esibizioni dal vivo, con Chick CoreaJoe Zawinul e Larry Young in grado di tessere linee armoniche col Fender Rhodes, ed il sax soprano di Wayne Shorter (vero faro di Senese) in grado di bilanciare l’essenza ed il carisma di Davis. Questo popò di roba è sfociata poi nella nascita dell’epico quintetto perduto, raccontato esaustivamente da Bob Gluck, puro sperimentalismo dal quale i Napoli Centrale hanno saputo pescare con diligenza, innestando la propria identità.  

Identità è una parola fondamentale, nel pieno rispetto delle proprie radici, Napoli Centrale è un disco che avrebbe deliziato le orecchie dell’antropofago Oswald de Andrade per la capacità di assorbire le influenze culturali dei due albionici Mark Harris e Tony Walmsley, miscelandole alla napoletanità [no non è una citazione dello Sgargabonzi ndr] di Franco Del Prete e James Senese, entrambi provenienti dalla precedente esperienza con i The Showmen. Senese, come Hendrix, si trova a cantare per necessità più che per passione, visto che successivamente agli Showmen viene a mancare la voce Mario Musella. Napoli, come Palermo, è una città che ha sempre avuto un tessuto sociale multiculturale, ma per chi desiderasse approfondire lo spaccato sociale della Napoli post-bellica (quella che ha dato i natali a Senese e Del Prete per intenderci ndr], Curzio Malaparte ne racconta magistralmente nei primi capitoli de La Pelle.  

Senese e Del Prete si incuneano nel tappeto jazz con elementi di musica popolare napoletana volti alla creazione di un linguaggio musicale unico e riconoscibile. Le tematiche sociali sono dirompenti e la voce di Senese, rugge [d’altronde come teneva a ricordarci Piero Ciampiil meridione rugge” ndr] e graffia, alternandosi al sax e presentando delle invettive che la musicalità del dialetto napoletano rende ancora più ficcanti.  

L’esplosiva Campagna esordisce con violenza nel disco, ricordandoci più un quadretto verista di Verga che il bucolico paradiso di Carducci, un ritratto ricco di storture e sofferenza che sottolinea la sperequazione sociale dello Stivale: 

Campagna, campagna 
Comme è bella ‘a campagna 
Ma è cchiù bella pe’ ‘o padrone 
Ca se enghie ‘e sacche d’oro 
E ‘a padrona sua signora 
Ca si ‘ngrassa sempre cchiù 
Ma chi zappa chesta terra 
Pe’ nu muorz’ ‘e pane niro 
Ca ‘a campagna si ritrova 
D’acqua strutt’ e culo rutto
” 

La lotta al caporalato, allo sfruttamento, alla denigrazione della dignità umana, l’emigrazione alla ricerca di migliori condizioni di vita, la difesa dei meno abbienti, sono solo alcune delle denunce che emergono dai testi di Del Prete (proveniente da Frattamaggiore, città poco distante da Napoli, centro canapiero e ai tempi trainata da un’economia a base agricola) e prodromi di un impegno di cui Almamegretta, Teresa De Sio e 99 Posse raccoglieranno l’eredità a piene mani.  

C’è una tangenza anche con gli Area, nelle tematiche, per quanto la band di Stratos risulti più cerebrale e meno di pancia rispetto a Senese e Del Prete. I Napoli Centrale rappresentano più il cuore pulsante del popolo e sono lì a dar voce a chi non ne ha, per curare alla radice un male calcificato tramite una resistenza civile e artistica, per ricordare l’integrità morale di una popolazione che preferisce vivere di stenti piuttosto che chinare il capo dinanzi a soprusi e le angherie di chi tira i fili del destino. 

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Mauro Pagani – Mauro Pagani

«Si deve essere curiosi, ma prudenti, avere cura della propria anima. Dice un proverbio: il danaro va e viene, la dignità, una volta andata, non torna più». 

Non esiste artista che stimi di più del Maestro Pagani, sarebbe pleonastico elencarne i motivi. Mi limito a raccontarvi en passant questo primo disco solista.  

Credo vi siate fatti più o meno un’idea del valore dei personaggi che stiamo affrontando, credo inoltre che stiate capendo chi affronteremo nelle prossime pubblicazioni di questo ciclo. Sì perché la linea narrativa è abbastanza regolare, gli anni d’oro della musica sperimentale italiana coincidono con la compresenza di alcuni personaggi dallo spiccato spessore.  

Mauro Pagani è l’anello di congiunzione tra la musica ricercata e quella popolare, e il suo primo disco omonimo è stato l’apripista per uno dei miracoli della musica italiana: Crêuza de mä. Con le debite proporzioni Mauro Pagani è un disco che mi viene facile accomunare a Before And After Science, un compendio della scena musicale contemporanea di media durata, con dei pezzi ben assemblati, l’uno differente dal successivo, ma non per questo eterogenei. Si ascolta tutto con trasporto e piacere, con attenzione o distrattamente, ma mai con fastidio… anzi, ci troviamo dinanzi ad un’opera che provoca assuefazione e un gran movimento di chiappette e budella. 

Ma dove nasce questo disco? 

Dopo 7 anni di militanza tra Quelli e P.F.M., Mauro Pagani si dice che sia stressato, distante dalle idee degli altri membri della Premiata, vuole alzare l’asticella. Poi, tutto questo girare il mondo gli consente di ottenere riconoscimenti per le proprie doti da parte della critica, ma lo consuma.  

La ricerca è la strada maestra, è il 1976 quando piscia i P.F.M. e comincia ad approfondire gli studi sulla world music, in particolare la musica etnica di matrice araba lo rapisce. La capacità, la curiosità e la creatività, combinate insieme sono una miscela di rara potenza e da questo mix Pagani maneggia in maniera sopraffina idee che in testa ad altri difficilmente troverebbero sfogo. 

Europa Minor dimostra ciò: un ritmo arabeggiante viscerale che potenzialmente può essere riprodotto all’infinito; in Argiento invece ci muoviamo in Campania con la voce di Teresa De Sio sopra di una melodia non troppo elaborata, accompagnata dai fiati e dal violino di Pagani che rendono il pezzo un raffinato miscuglio di world music e musica da camera. 

Senza addentrarmi in una misera cronaca di un disco che DOVETE TASSATIVAMENTE ASCOLTARE, è con L’Albero di Canto e la sua reprise – a chiusura del disco – che si toccano vette emotive di intensità strepitosa. La voce di Stratos e la presenza degli Area rendono il pezzo un incrocio tra Gioia e RivoluzioneLuglio, Agosto, Settembre Nero, i ritmi mediorientali degli Area ben copulano con l’idea musicale di Pagani che rende il tutto meno caotico di quanto solitamente si confà agli Area

Sino a qui ho citato signori ospiti, ma all’appello mancano ancora gli ex-compagni della scuderia P.F.M. (eccezion fatta di Flavio Premoli), parte del Canzoniere del Lazio (Vivaldi e Minieri), Roberto Colombo (reso celebre più per le sigle che ha creato che per il popo’ di musica che ha suonato [vabé che ha fatto il segnale orario del TG5, quindi gloria imperitura ndr]), Luca Balbo, Mario Arcari ed il grande Walter Calloni alla batteria. 

Pagani in tutto ciò non si risparmia suonando un po’ tutto: viola, violino, mandolino, bouzouki e un flauto di canna. Naturalmente questo disco non ha fatto il botto di vendite, però è stato accolto in maniera strapositiva dalla critica, dando ulteriore luce e credibilità alla carriera di una delle divinità del Pantheon musicale. 

«Solo nel 1978 [mi è capitato di non essere capito dal pubblico ndr], quando – finita la bellissima esperienza con la P.F.M. – pubblicai il mio primo disco solista, quelle sonorità mediterranee spiazzarono il pubblico. Però poi cominciai a collaborare con Fabrizio De André, e quel lavoro mi permise di scrivere le musiche di Crêuza de mä con naturalezza». 

Cari lettori, è giunto il momento di immergervi (nuovamente) in questo capolavoro. Buon ascolto.