Napoli Centrale – Napoli Centrale

Prendetemi per matto, ma Napoli Centrale – al contrario da quanto rappresentato in copertina – ha tutte le carte in regola per iscriversi a questo ciclo di pubblicazioni prettamente estivo. Perché?  

Scardinando le travi del solito stereotipo della bella Napoli estiva, come anticipato con Alice, album e canzoni difficilmente appartengono a una stagione, siamo “noi” a dargli una collocazione temporale e a rivestire di nuovo significato un brano, sulla base del nostro vissuto e delle nostre esperienze. È logico che Moon In June dei Soft Machine venga più semplice ascoltarla durante giugno quanto Harvest di Neil Young nei mesi estivi, però possono legarsi tranquillamente a periodi apparentemente lontani dal significato originario pensato per la canzone.  

Logicamente qualche composizione si presta di più a questa ricollocazione stagionale, altre meno, ma Napoli Centrale ha un suo senso in questo ciclo di pubblicazioni, nonostante in copertina risalti una campagna uggiosa e i quattro membri della band vestano giacche impermeabili, diretti verso una meta che presumo non sia una spiaggia.  

Facciamo questo giochino pertanto: immaginiamoci tutti insieme che Napoli sia stata colpita da uno di quegli acquazzoni estivi che sollevano il petricore e fanno crollare drasticamente le temperature, tanto da giustificare la vestizione di impermeabili e cerate; poi mettete su questo disco ed immergetevi nei lancinanti suoni sfornati dal Fender Rhodes di Mark Harris e dal sax senza fronzoli di James Senese.  

La temperatura comincerà ad alzarsi di brutto, le chiappette si agiteranno sempre più convinte e voi, euforici, vi renderete conto di quanto la trama musicale trasudi funk, jazz e soul

Chi mastica un po’ di jazz, sa che ha a cavallo tra anni ‘60 e ‘70 sono state compiute corpose rivoluzioni, tanto da leggere in Napoli Centrale una forte influenza subita dal Miles Davis di Bitches Brew, non tanto nel lavoro alla produzione svolto da Teo Macero in studio, bensì nei salti mortali eseguiti da Miles Davis e dalla sua band durante le esibizioni dal vivo, con Chick CoreaJoe Zawinul e Larry Young in grado di tessere linee armoniche col Fender Rhodes, ed il sax soprano di Wayne Shorter (vero faro di Senese) in grado di bilanciare l’essenza ed il carisma di Davis. Questo popò di roba è sfociata poi nella nascita dell’epico quintetto perduto, raccontato esaustivamente da Bob Gluck, puro sperimentalismo dal quale i Napoli Centrale hanno saputo pescare con diligenza, innestando la propria identità.  

Identità è una parola fondamentale, nel pieno rispetto delle proprie radici, Napoli Centrale è un disco che avrebbe deliziato le orecchie dell’antropofago Oswald de Andrade per la capacità di assorbire le influenze culturali dei due albionici Mark Harris e Tony Walmsley, miscelandole alla napoletanità [no non è una citazione dello Sgargabonzi ndr] di Franco Del Prete e James Senese, entrambi provenienti dalla precedente esperienza con i The Showmen. Senese, come Hendrix, si trova a cantare per necessità più che per passione, visto che successivamente agli Showmen viene a mancare la voce Mario Musella. Napoli, come Palermo, è una città che ha sempre avuto un tessuto sociale multiculturale, ma per chi desiderasse approfondire lo spaccato sociale della Napoli post-bellica (quella che ha dato i natali a Senese e Del Prete per intenderci ndr], Curzio Malaparte ne racconta magistralmente nei primi capitoli de La Pelle.  

Senese e Del Prete si incuneano nel tappeto jazz con elementi di musica popolare napoletana volti alla creazione di un linguaggio musicale unico e riconoscibile. Le tematiche sociali sono dirompenti e la voce di Senese, rugge [d’altronde come teneva a ricordarci Piero Ciampiil meridione rugge” ndr] e graffia, alternandosi al sax e presentando delle invettive che la musicalità del dialetto napoletano rende ancora più ficcanti.  

L’esplosiva Campagna esordisce con violenza nel disco, ricordandoci più un quadretto verista di Verga che il bucolico paradiso di Carducci, un ritratto ricco di storture e sofferenza che sottolinea la sperequazione sociale dello Stivale: 

Campagna, campagna 
Comme è bella ‘a campagna 
Ma è cchiù bella pe’ ‘o padrone 
Ca se enghie ‘e sacche d’oro 
E ‘a padrona sua signora 
Ca si ‘ngrassa sempre cchiù 
Ma chi zappa chesta terra 
Pe’ nu muorz’ ‘e pane niro 
Ca ‘a campagna si ritrova 
D’acqua strutt’ e culo rutto
” 

La lotta al caporalato, allo sfruttamento, alla denigrazione della dignità umana, l’emigrazione alla ricerca di migliori condizioni di vita, la difesa dei meno abbienti, sono solo alcune delle denunce che emergono dai testi di Del Prete (proveniente da Frattamaggiore, città poco distante da Napoli, centro canapiero e ai tempi trainata da un’economia a base agricola) e prodromi di un impegno di cui Almamegretta, Teresa De Sio e 99 Posse raccoglieranno l’eredità a piene mani.  

C’è una tangenza anche con gli Area, nelle tematiche, per quanto la band di Stratos risulti più cerebrale e meno di pancia rispetto a Senese e Del Prete. I Napoli Centrale rappresentano più il cuore pulsante del popolo e sono lì a dar voce a chi non ne ha, per curare alla radice un male calcificato tramite una resistenza civile e artistica, per ricordare l’integrità morale di una popolazione che preferisce vivere di stenti piuttosto che chinare il capo dinanzi a soprusi e le angherie di chi tira i fili del destino. 

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Chico Buarque – Chico Buarque (Samambaia)

Che Chico Buarque destinasse tutto il proprio sforzo creativo nello stendere evocativi versi elegiaci, e se ne fregasse beatamente del nome con cui battezzare i propri dischi, questo penso lo aveste già inteso durante il primo ciclo brasiliano.  

E allora, per il quieto vivere dei poveri cristi che ascoltano, come già accaduto con i Velvet Underground il cui disco d’esordio è stato diffusamente identificato come Banana Album, quest’ennesima opera targata Chico viene rinominata – da critica e pubblico – come Samambaia, il nome della felce che campeggia dietro al Chico ridente sulla copertina. 

Ma cosa ha fatto questo disco per meritarsi un nome alternativo?  

La risposta è semplice: a causa del contenuto giudicato controverso (naturalmente controverso per il regime). 

Oltre a contenere la tanto vituperata – e pluri-censurata – Càlice, la presenza dell’inno della protesta civile Apesar de Você rende Chico una delle figure di punta non solo tra i dissidenti carioca ma anche dell’intero Brasile. Va da sé che gli aspetti da raccontare a proposito di questo disco sono numerosi e il dono della sintesi talvolta non mi appartiene, mi sforzerò di essere conciso ma ficcante. 

Nonostante quel che ho scritto e la vocazione del disco possa sembrare ribelle, esso riesce a contenere tutte le anime di Chico, più di quanto fosse riuscito a fare con Construção perché l’apertura festante di Feijoada Completa è tutto fuorché un brano presago di negatività, non contiene la fiele che abbiamo assaggiato in Construção o il languore tenero di A Banda, e forse incarna meglio di tante altre canzoni fin qui presentate l’entusiasmo conviviale tipico dello stereotipo brasiliano per antonomasia.  

Trocando em Miúdos viene prestata a Sergio Endrigo per il suo Exclusivamente Brasil e la troviamo anche qui, rappresentando la classica canzone delicata di fine relazione con climax ascendente e con saluto a quel Pixinguinha massimo esponente del choro (mas fico com o disco do Pixinguinha, sim?però mi tengo il disco di Pixinguinha, va bene?), scritta a quattro mani con quel Francis Hime, trait d’union tra ChicoBituca per O Que Será?. 

Il disco si dimostra ben equilibrato nell’alternanza tra brani impegnati, ritmati, “leggeri”, il pathos non viene mai meno anche nella levità di Pedaço de Mim offerta dalla voce di Zizi Possi o nella sublime di Tanto Mar, scritta nel 1975 ed ispirata alla rivoluzione dei garofani in Portogallo (Revolução dos Cravos) del ‘74 col quale è stato deposto il regime post-salazarista dell’estado novo

Tanto Mar la eseguono Chico e Maria Bethânia per una serie di spettacoli al Canecão, nel quartiere Botafogo. Per poter ottenere la pubblicazione nel 1978 Chico ha dovuto rimettere mano al testo in quanto la versione primigenia conteneva versi che non andavano a genio al “Ministero della Verità”. 

Naturalmente non è un caso sporadico, Chico può vantare una lunga lista di composizioni poco gradite ai regimi brasiliani, non ci si può fermare solo ai brani presenti in Samambaia come Meu AmorApesar de Você e Càlice. Quest’ultima – dal testo evocativo – gioca sulla religiosità del tema – paragonando il calvario di Gesù sul Golgota con la situazione vissuta dai brasiliani con i governanti –  per attaccare il regime su una linea sottile e continue perifrasi e giochi di parole, su tutti: càlice

Esso funge da sostantivo quindi come un calice che, anziché contenere il sangue di Cristo, è colmo del sangue degli innocenti castigati dal regime, ma anche come un verbo declinato all’imperativo, un taci (in portoghese cale-se, omofono di càlice) abbaiato con rabbia dal regime per censurare il popolo governato. La canzone nasce dalla penna di Chico e Gilberto Gil nel 1973 per il festival musicale Phono73 a San Paolo, è stata sabotata ed ha visto la luce solo 1978 con la versione presente in Samambaia con Milton Nascimento.  

Poco dopo che Chico e Gilberto hanno cominciato a eseguire la melodia punteggiandola di tanto in tanto con la parola càlice, i microfoni sono stati spenti dagli stessi organizzatori che – presa coscienza del brano – hanno sconsigliato di interpretarlo. In particolar modo la cruenza del verso finale “E che la mia testa la smetta di pensare come te./Voglio annusare i vapori del gasolio/e ubriacarmi fino a esser dimenticato!” si riferisce all’omicidio di Stuart Angel. attivista del MR-8, soffocato con il tubo di scappamento di una jeep infilato in bocca. 

Ciliegina sulla torta di questo racconto fiume, è Apesar de Você che conclude l’album ed è stata composta ancor prima di Càlice nel 1970. Definito il “samba dedicato al dittatore di turno”, è stata pubblicata proprio nel 1970, quando Chico ha terminato il proprio esilio italiano (convinto a tornare dal discografico André Midani illudendolo che la situazione nel paese natale fosse migliorata), eludendo inizialmente il controllo della censura, vendendo 100.000 copie in pochi giorni, salvo poi subire lo stop da parte del governo di Emílio Garrastazu Médici che, ravvedendosi, inviò nella filiale della Philips la polizia a distruggere le copie del disco. 

Storicamente le pedine di un regime, e talvolta anche le teste a capo dei reparti, brillano per solerzia ma non per ingegno, questo è uno dei casi che conferma la precedente enunciazione, perché se vai nella sede della Philips, distruggi le copie ma te ne freghi bellamente dei master, ti esibisci in tutta la tua corrusca cialtroneria. 

Or dunque, seppure Apesar de Você fosse stata ritirata dal mercato, si era diffusa a macchia d’olio diventando l’inno di un popolo soppresso. Chico ha dribblato abilmente le critiche del governo in merito al você spiegando come non fosse una critica al governo, bensì a “una donna molto prepotente, decisamente autoritaria”. 

Durante il regime l’arguzia e la capacità di piegarsi, e non spezzarsi, ha consentito a molti artisti di aggirare abilmente il giogo dittatoriale, riuscendo ad imporsi come fiaccola di speranza per chi non disponeva più strumenti per credere nella libertà. È un inno che trova sempre voce, nella ciclicità dei momenti bui (come nella recente elezione di Jair Bolsonaro), ogni brasiliano si ricorderà di cantare: 

Tu che hai inventato questo stato 
e ti sei inventato di inventare 
tutta questa oscurità. 
Tu che hai inventato il peccato 
ti sei scordato di inventare 
il perdono 

Tuo malgrado 
domani sarà 
un altro giorno
” 

Milton Nascimento – Minas

Continua con Minas questo mini-ciclo di racconti rivolti a Milton Nascimento. Lo si fa col secondo gemello del gruppo, un disco dalla grande valenza simbolica, che si lega a Clube da Esquina ricucendo il discorso in un unico grande telaio autoreferenziale: quello legato alla narrazione di resistenza culturale e antropologica a una bieca dittatura. Il regime pretende dagli artisti delle produzioni musicali patinate che siano assoggettate a dinamiche autoritarie, sulle quali conserva un inderogabile diritto di veto. 

La presenza di un governo autoritario ha imposto l’urgenza creativa di dover eludere le restrizioni: quando il perimetro è circoscritto il vero creativo riesce ad attingere appieno dal proprio vissuto. Milton nato nel 1942 a Rio, orfano dopo appena due anni, viene adottato da un’altra famiglia che abita nel Minas Gerais, regione mineraria lontana dal mare e dal luccichio delle spiagge brasiliane, caratterizzata da una spiccata eterogeneità etnica (colonia portoghese a prevalenza di schiavi africani, con una folta comunità di italiani). 

Nonostante questo, Milton è uno dei pochi ragazzi di colore nella città di Três Pontas; vive sulla propria pelle l’intolleranza dei suoi concittadini. La madre adottiva di Bituca canta nel coro di Heitor Villa-Lobos (da qui presumibilmente deriva la spiccata attitudine musicale di Milton), così la religiosità diviene il medium metaforico che Milton – corista nelle chiese barocche di Três Pontas – applica ai propri testi, il codice di lettura delle sue canzoni per aggirare la tagliola della censura, in tal proposito un approfondimento sarà dedicato – a tempo debito – a Càlice di Chico Buarque (brano al quale partecipa proprio Bituca come seconda voce) fulgido esempio dello stile descritto.  

Come ha spiegato Carlo Massarini nell’egregia disamina dedicata a Bituca, il primo lavoro del Clube termina con Nada Serà Como Ante, nella quale Nascimento lamenta la certezza di un domani fosco. 

Eu já estou com o pé na estrada  (ho già il mio piede su quella strada) 
Qualquer dia a gente se vê (ogni giorno che ci incontriamo) 
Sei que nada será como antes, amanhã  (niente sarà come prima, domani) 

Da Clube a Minas passano 3 anni, nei quali quelle parole hanno scavato a fondo con pazienza orientale, e come goccia che batte nella roccia ha eroso la superficie. Così Fè Cega, Faca Amolada comincia da dove aveva lasciato, ma con una impetuosità diversa, quasi gioiosa a dispetto delle parole. 

Agora não pergunto mais pra onde vai a estrada  (ora non chiedo più dove sta andando la  strada) 
Agora não espero mais aquela madrugada  (ora non attendo più quell’alba) 
Vai ser, vai ser, vai ter de ser, vai ser faca amolada  (sarà, sarà, dovrà essere un coltello  affilato) 
O brilho cego de paixão e fé, faca amolada  (il bagliore cieco della passione e fede, e il  coltello affilato) 

[ndr Paixão e Fé sarà il titolo di un brano presente in Clube da Esquina 2, sempre tornando all’autoreferenzialità di Bituca

Il trait d’union sul quale l’intero disco si snoda è il refrain di Paula e Bebeto, la canzone che conclude la versione originale del disco (la riedizione contiene altri 3 brani) scritta a quattro mani con Caetano Veloso. Un coro di bambini intonano a cappella una nenia che l’ascoltatore incontra saltuariamente in Minas; nenia che scandisce il disco lasciando trasparire la felicità della coppia (che quando però la canzone è stata completata, nella vita reale si erano già lasciati). 

Mettendo il naso oltre quanto già scritto, nella musica di Milton Nascimento troviamo la sonorità di Minas Gerais assimilata, digerita e arricchita dalle influenze straniere, rappresentando uno degli esempi più chiari dell’antropofagia teorizzata da Oswald de Andrade [ci sarà tempo per approfondire anche questo aspetto ndr]. Impossibile non perdersi nei riferimenti alla musica inglese, da Kevin Ayers, Lol Coxhill (Beijo Partido), sino ai tributi più o meno velati ai Beatles (non a caso c’è una reinterpretazione di Norwegian Wood) sempre con ammiccamenti non troppo velati al jazz, senza smarrire l’identità musicale nativa.  

In Minas presenziano tutte le gemme che fioriranno con corrusco splendore nel suo gemello omozigoto Geraes

Francesco De Gregori – Rimmel

I would say I’m sorry 
If I thought that it would change your mind 
But I know that this time 
I have said too much 
Been too unkind 

Vi sto confondendo le idee?  Pensate a me quanto confonde ogni volta ascoltare l’intro di Rimmel! Con quella progressione di accordi alla Boys Don’t Cry, ti aspetti che parta Robertino Smith con tutto il suo spleen e invece parte moscissimo De Gregori.  

Però sentire la voce di De Gregori, appena ventiquattrene, placa i sensi e ristabilisce la connessione con la realtà; le sinapsi tornano al proprio posto e il corto circuito si arresta. È il disco perfetto con il quale concludere questo ciclo di pubblicazioni [già, ve lo scrivo così, tra le righe, di nascosto e senza aspettativa alcuna ndr]. 

Ora che vi ho reso partecipi di questo mio enorme limite cognitivo, cominciamo ad addentrarci in Rimmel, il disco della consacrazione popolare di De Gregori, reso celebre – oltre che dalle melodie di grande impatto anche – dal suo “ermetismo dadaista”. Un successo che lo ha inviso ai supercritici dell’epoca (vedi alla voce Giaime Pintor), ma che ha elevato questo lavoro a monumento per le generazioni a venire. 

Come ha dichiarato per l’anniversario dei 40 anni dalla pubblicazione, il Diggì non riesce a darsi una spiegazione sull’effettivo successo, e affetto, corrisposto dal pubblico per tutti i brani presenti nel disco, lasciandoci intendere che non lo considera il migliore tra quelli pubblicati nel corso della carriera.  

“Sono orgoglioso di essermi sempre contraddetto. Dopo Rimmel il mio posto nel pantheon della musica italiana ce l’avevo. Ma non mi è mai piaciuto che potesse finire così. Preferisco continuare a scrivere canzoni magari più brutte o di scarso successo, ma continuare a scrivere quello che ho in testa. Sempre meglio che cavalcare le onde del passato.” 

Eppure Rimmel è stato un disco con dei testi che traggono linfa dagli studi e dalle letture che De Gregori faceva all’epoca, oltre che dal vissuto, dal quale un buon autore attinge sempre per dare abbrivio ad un progetto artistico. 

Un lavoro importante per il ruolo che ha giocato nel cantautorato italiano, per aver offerto al pubblico un linguaggio differente – onirico a tratti – rispetto all’offerta proposta dalla scena dell’epoca. Un credo stilistico che ha reso Diggì riconoscibile e apprezzato. 

Tengo a precisare che cerco di dare un taglio diverso nella descrizione di questo disco rispetto ad altri racconti (senza seghe mentali), perché De Gregori non ha mai amato che le sue canzoni venissero interpretate. Nel corso degli anni, i brani di Rimmel sono stati associati ad eventi più o meno estemporanei, bollati simpaticamente come cazzate dal burberissimo Degre [“simpaticamente” leggetelo con la voce di Maurizio Mosca quando dice che Squitieri lo ha definito simpaticamente “menefreghista di merda” ndr]. 

Rimmel è la maschera pirandelliana che viene tirata giù, il maquillage pesante che copre la verità, per questo le interpretazioni delle canzoni di De Gregori vengono contrastate dallo stesso, in quanto rappresentano proprio ciò che ha combattuto con questo disco: la finzione ed il sotto-testo. Rimmel è un album estremamente diretto, concreto più di quanto il pubblico negli anni abbia creduto. 

Quindi cominciamo a smentire subito chi sostiene che la didascalica Pablo sia dedicata a Neruda anziché ad un immigrato spagnolo in Svizzera [troppo banale per il palato raffinato dei segaioli da bar ndr], che Quattro Cani parli di Patty PravoAntonellone Venditti, che Buonanotte Fiorellino sia dedicata alla moglie di De Gregori morta in un incidente aereo [ci tengo a ricordare che aveva 24 anni, non era ancora sposato quando incise Rimmel e la melodia volutamente melensa di Buonanotte Fiorellino non lascia presagire una storia drammatica nelle retrovie ndr].  

“Queste ed altre cose si sono diffuse in internet in blog gestiti da persone che dicono di essere miei fan, ma che in realtà sono dei talebani perché inventano storie assurde e complicatissime dietro la semplicità delle canzoni”. 

Escludendo queste tesi fantasiose, il Degre ci confessa che c’è tanta farina del suo sacco [e poca farina del suo Vanzetti… non odiatemi ndr], molto di ciò che ha vissuto si è trasformato in canzone, senza troppi giri di parole. Pezzi di Vetro – ad esempio – è ispirata ad una scena che De Gregori vide passeggiando per Piazza Navona, di un artista di strada che spaccava bottiglie per terra e camminava sopra i frammenti come se nulla fosse.

La ragazza con cui stava passeggiando andò in brodo di giuggiole [che termine desueto che vi tiro fuori dal cilindro ndr] e lui se la prese di brutto perché in fondo il germe della gelosia contagia anche i cantautori stronzi. Che poi sfatiamo ‘sta cosa della stronzaggine di De Gregori, non deve essere per forza un capocomico, ma soprattutto, se non sei un capocomico non devi essere automaticamente uno stronzo. 

“Se la gente mi ferma per strada non mi dà fastidio, mi irrita se pensa di conoscermi dalle mie canzoni, o se considera una canzone come un vaticinio… È tutta fuffa”. #FreeDeGre  

Mentre invece Rimmel non è “niente di più” che un brano sugli amori sfioriti nella giovinezza, dell’accettazione di un addio quando si è ragazzi. Certo detta così sembra una merda, però lui l’ha scritta da Dio… questo significa che puoi anche raccontare banalità, ciò che conta è come queste banalità vengono raccontate. 

Infine, tengo a dispensare questa piccola curiosità: in riferimento al verso “chi mi ha fatto le carte ti ha chiamato vincente ma una zingara è un trucco”, De Gregori si è fatto fare veramente le carte “sì, un giorno mi hanno fatto le carte e mi hanno detto cose molto belle, mi hanno detto che sarei stato molto felice, mi hanno detto ‘Sarai un vincente’”; ma non è stato uno zingaro, bensì Enrica Rignon, all’epoca moglie di De André.  

Chiudo così questo racconto, senza dilungarmi ulteriormente, considerato che ho scritto più note che testo e sarete stanchi di leggere le cazzatelle sparate di qua e di là. Ma sono sicuro che almeno, questo racconto, come gli altri di questo ciclo, siano riusciti nel loro intento: quello di mettervi la pulce nell’orecchio.  

Sono certo che riascolterete Rimmel, così come sono convinto che vi diletterete nel canticchiarlo per i prossimi giorni. Quanto a me, sono pronto a congedarmi per tornare con altre pillole entro la fine dell’anno. 

A mille ce n’è, nel mio sito di pillole da narrar,  

Venite con me, nel mio mondo musicale per sognar…  

Non serve l’ombrello, il cappottino rosso o la cartella bella per venire con me…  

basta un po’ di fantasia e di bontà. 

C’era una volta il cantapillole dirà, e un altro articolo comincerà (plin)” 

Franco Battiato – Fetus

È il 1972 e un giovane Franco Battiato dal capello crespo, occhialone sfumato e salopette presenta il brano Energia in uno studio RAI. Tra il pubblico sono state distribuite alcune maschere di carta con la faccia del Maestro (che ad essere sinceri col mascara sembra un po’ Toto Cotugno), alcuni si guardano attorno senza capire molto, altri tengono le maschere in faccia per coprire l’imbarazzo tangibile per un brano che non comprendono.  

L’esordio discografico di Battiato lascia perplessi, ma rappresenta la volontà precisa di credere nella musica elettronica come impronta distintiva. Fetus è un disco ambizioso e sicuramente acerbo, ma ha tanti ottimi spunti che riescono a ergere l’idea di Battiato a ponte tra kosmische muzik e progressive italiano.  

Eppure con lo sguardo revisionista, tipico di chi non si fa mai andare bene un cazzo, c’è una grande fetta di pubblico che suole affermare “Battiato è stato Battiato solo fino al 1975”, rivalutando i primi lavori della produzione del Maestro e smerdando di fatto tutto quello che è venuto dopo.  

Come al solito nella musica, così come nella vita, ci vogliono mezze misure. Non si può vivere di estremi. 

Talvolta tacciato di finto intellettualismo, nel corso della carriera è riuscito a legittimare le proprie scelte dimostrando la sua effettiva caratura. La svolta elettronica avviene a seguito di una infatuazione per Karlheinz Stockhausen (col quale collaborerà in futuro) e cerca di tradurla in musica grazie all’ausilio di una batteria elettronica e di un VCS3 a sostegno di strumenti convenzionali come chitarra classica e basso. I collage sonori inoltre trovano spazio in diversi brani (tra cui Meccanica con le voci degli astronauti dell’Apollo 11 e Nixon sopra l’Aria Sulla Quarta Corda di Bach), dando vita così a uno dei primi album di elettronica pop in Italia.  

Certo quella copertina col feto sul foglio di carta paglia è stato un capolavoro di marketing, garantendo 15mila copie vendute [anche se molti negozianti si rifiutarono di esporla ndr] pensata per scioccare chi se la fosse trovata dinnanzi, merito del genio artistico di Gianni Sassi:  

“Era sicuramente geniale anche se non ero del tutto favorevole a certe cose che faceva. Per esempio la campagna stampa con cui ha cercato di lanciarmi fu una trovata notevole, che diceva cose tipo: ‘Battiato è un buffone… la gente non ne può più’”, ricorda il Maestro. 

In questo caso il vestito ideato da Gianni Sassi fa il monaco, perché quello che troviamo all’interno di Fetus è sì fichissimo, ma allo stesso tempo l’inno alla vita di Energia, con le voci prima di neonati e poi di bambini, rappresenta un brano supercreepy [qualora partisse di notte a casa da soli ndr] un collage sonoro con un certo impatto, diverso da quanto prodotto fino a quel momento in Italia (ricordiamo che oltre i Beatles, prima ancora Zappa e John Cage avevano già battuto questa strada). 

Le trovate musicali sono varie e in alcuni casi acerbe, sì va dall’elettronica al synth pop, fino al manouche alla Django Reinhardt, dimostrando quella cifra stilistica che ha marchiato a fuoco la produzione discografica di Battiato, melodie orecchiabili su testi “concettuali ma non troppo”, della serie “se volete approfondire, approfondite il significato dei miei testi, altrimenti godetevi la mia musica e imparate qualcosa ascoltandola passivamente, in un modo o nell’altro vi inculo” [queste non sono le parole di Battiato ndr]. 

È così che il Maestro ci propone un disco basato sul controllo mentale e l’eugenetica, ispirato al romanzo distopico Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley. In Fenomenologia, manifesto dell’album, ci spara formule matematiche che dovrebbero rappresentare due sinusoidi sfasate, ovvero l’elica del DNA. Ora io non capisco una minchia di matematica e algebra, ero veramente una sega, quindi mi fido delle info reperite in da web. 

Senza addentrarmi sui testi, chiudo raccontando di una piccola chicca che riguarderebbe questo album. Battiato durante un tour europeo del 1972 avrebbe incontrato Frank Zappa, manifestandogli tutta la stima del caso [vorrei vedere ndr]. Lo stesso Frank ascoltando Fetus sembrò gradire il lavoro di Battiato e gli regalò un paio di scarpe argentate con le ali, come simbolo di buon auspicio. Probabilmente la sicilianità dei due ha agevolato l’incontro ed il conseguente confronto, ma dimostra come il buon Frank fosse legato musicalmente alle proprie origini (come dimostreranno gli apprezzamenti nei confronti dei Tenores De Bitti o nell’album Francesco Zappa). 

Ah, sembra che il Maestro perse le scarpe durante uno dei vari traslochi che lo hanno riguardato. Sigh! 

Queen – A Night At The Opera

Ci eravamo lasciati con Sylvester Stallone e il suo Cliffhanger

 Ricapitolando. 

Il successo finalmente si sta consolidando, Sheer Heart Attack è un album acclamato da pubblico e critica, Killer Queen una hit da favola… eppure qualcosa non va.  

Non c’è un solo membro della band che viva una situazione economica tale da consentire serenità. Anzi, i ragazzi sono poveri in canna, e la situazione evidenzia un raggiro evidente ai danni dei Queen. Il loro accordo con la Trident è paragonabile alla firma del contratto della Sirenetta con Ursula: una merda.  

La Trident è una società produttrice che rivende alle case discografiche, quindi i Queen sono come scimmie ammaestrate per far arricchire i padroni del circo. Dopo 2 anni i ragazzi capiscono la solfa perché: il povero John si è sposato e non ha potuto versare il deposito per acquistare casa (in quanto il management gliel’ha negato); il povero Freddie non ha ricevuto un nuovo piano da 5000 mila sterline; il povero Roger è costretto a non picchiar duro sulle pelli per non rovinarle (e così essere costretto a cambiarle).  

Insomma questo mobbing da libro cuore ha da finire, c’è da trovare una nuova soluzione discografica e la scelta inizialmente cade sulla Swan Song etichetta dei Led Zeppelin, ma le principali attenzioni sarebbero state comprensibilmente per i Martelli di Dio.  

Fortunatamente la strada di Mercury e compagnia bella si incrocia con quella del manager di Elton John, John Reid, che da un solo compito alla band “ok… ragazzi, io mi occuperò della parte finanziaria, voi entrate in studio e fate l’album più grande che potete realizzare”. 

Challenge Accepted! 

Si comincia con Death On Two Legs, un messaggio di “stima incondizionata” verso il vecchio manager, Norman Sheffield.

Una consecutio di insulti che lascia intendere come i Queen hanno ben metabolizzato la presa per i fondelli dei 3 anni precedenti. May ricorda che la Trident aveva ogni intenzione di sguinzagliare i migliori avvocati pur di bloccare l’uscita di A Night At The Opera “pensavano che Death On Two Legs fosse diretta a loro. Ma non potevano provarlo […] Era tutto così stupido, volevano denunciare Freddie, la band e l’etichetta discografica subentrata, per diffamazione”. Però la canzone è solo un messaggio per Norman, quindi han poco da incazzarsi quelli della Trident.

Dog with disease, 
You’re the king of the ‘sleaze’. 
Put your money where your mouth is, Mr. Know-All. 

D’altronde la tenerezza nascosta nello stralcio sopracitato, ci lascia intendere quanta dolcezza Mercury abbia riservato al buon Norman. Tanto che la presenza dei testi all’interno della sleeve del 33 giri ha consentito a tutti gli acquirenti di eseguire un’analisi semiotica del testo. 

All’ascolto, la sensazione che subito si ha – con il primo brano – è del livello generale raggiunto dai Queen, in termini tecnici, di sonorità ben delineate, come se le idee si fossero schiarite di volta in volta negli anni. May definisce la prima era dei Queen terminata con Sheer Heart Attack “è stato il primo album nel quale suoniamo come band anziché come quattro individualità” un legame rafforzatosi con i continui tour che hanno contribuito al perfezionamento delle dinamiche musicali.  

La peculiarità è che i Queen si sono sempre rivelati come un gruppo coeso, composto da quattro teste pensanti con personalità definite, complementari. Ad esempio, l’introverso John Deacon, reticente nel presentare i propri brani per timidezza – oltre che per un senso di rispetto nei confronti degli altri membri più anziani – viene stimolato da Freddie sin dai tempi di Queen II a creare dei propri pezzi, conscio delle sue capacità. Quindi non c’è un solo autore, nonostante ciò tutto converge verso un unico sound distinguibile, il sound Queen. Un calderone di sovraincisioni e multi-tracce che si schiudono come un fiore che sboccia. 

“Delle volte sento che Freddie e io prendiamo direzioni differenti, ma poi viene da me con qualcosa e penso ‘Dio l’avevamo pensata allo stesso modo’. Quando lavoro su qualcosa di suo posso sintonizzarmi facilmente sulla sua idea, sulla parte di chitarra che desidera, e vice versa”. 

Il suono Queen è una derivazione del lavoro svolto da Jimi Hendrix e dai Beatles, che hanno interpretato lo studio di registrazione come uno strumento aggiuntivo, solo che i Queen dispongono di una tecnologia più avanzata, ergo maggiori margini di sperimentazione. In Good Company la Red Special fa gli straordinari sostituendosi a trombe e campane, in Seaside Rendezvous Taylor si è infilato dei ditali di metallo sulle dita con le quali picchietta sulla scrivania a simulare il tiptap, la presenza del Koto in Prophet’s Song, o la voce sparata in una cassa di metallo per caricare di effetto retrò Lazy On A Sunday Afternoon
sono solo alcuni de tanti esempi a disposizione. Oltre a questo elenco sbrigativo, si aggiunge un Roy Thomas Baker – in stato di grazia – capace di comprendere oltre quale limite potersi spingere. 

A Night At The Opera (omaggio alla pellicola dei fratelli Marx) è stato quasi tutto composto in studio – come avvenuto per Sheer Heart Attack – la summa del barocchismo, un vero manifesto queeniano di rabbia, dolcezza, magniloquenza e ironia. Al crocevia la strada imboccata si è rivelata giusta, l’eccesso ha salvato i Queen ed ha aperto loro le porte della leggenda. 

Un eccesso che risponde alla voce di Bohemian Rhapsody, una composizione dalla struttura di una complessità allucinante con 180 tracce vocali frutto di sessioni di 10 ore giornaliere, per 3 settimane di registrazioni complessive. Un’anomalia rispetto agli altri brani presenti nel disco, perché già tutto nella testa di Freddie. In generale, un’anomalia rispetto a tutto quello che finora c’è stato nel mercato discografico mainstream.  

Mercuryvuole condensare un’operetta in poco meno di 6 minuti e di riscrivere così la storia del musica commerciale anni ‘70. Le 180 tracce vocali devono trasmettere l’idea di un coro spalmato su di un palco con tanto di tenori, baritoni, bassi, soprani, mezzosoprani e contralti; la suddivisione del brano in 4 parti strizza l’occhio alle diverse arie delle opere liriche, così come il testo tragico e nichilista. 

La durata è uno sbarramento non indifferente che pone i Queen di fronte a resistenze discografiche difficili da fronteggiare. Bohemian Rhapsody non può essere considerata una canzone standard e le radio – a detta della stanza dei bottoni della EMI – si rifiuteranno di passarla… a meno che non ti giochi la carta Kenny Everett.  

Kenny fa il DJ per Capital Radio e riceve da Roy Thomas Baker e dai ragazzi una copia di Bohemian Rhapsody su bobina aperta “noi te la diamo pure, ma promettici non suonarla [ammicco ammicco]”, la risposta è un contro-ammicco da parte di Kenny “non la metterò su di certo amico [contro-ammicco controa-mmicco]. Inizialmente il DJ stuzzica il pubblico mandando in onda solo delle sezioni della canzone, facendo crescere l’aspettativa degli ascoltatori, che tempestano di chiamate la radio.

Everett fa poi risuonare Bohemian Rhapsody per 14 volte nell’arco di due giornate di trasmissione, mandando in visibilio gli ascoltatori che dal seguente lunedì si precipitano nei negozi di dischi per acquistare un singolo che ancora non è stato stampato. 

Reazione che convince la EMI ad assecondare la scelta dei Queen di avere Bohemian Rhapsody come singolo di uscita per il nuovo album. Come b-side va la tamarrissima I’m In Love With My Car (potete approfondire qui il motivo per il quale è stata scelta questa canzone rispetto ad altre magari più meritevoli). 

La fortuna aiuta gli audaci, non ci sono più le mezze stagioni, Sean Connery è più bello adesso di prima, ai miei tempi si portava rispetto agli anziani. I Queen – al quarto album – hanno finalmente una strada spianata verso il successo, possono smettere di condividere stanze e appartamenti, a patto che la follia e l’eccesso – che hanno contraddistinto A Night At The Opera – continuino ad essere assecondati (col senno di poi è stato fatto anche troppo).  

Frank Zappa – Joe’s Garage (Act I, II & III)

Frank Zappa - Joe's Garage

“This is the Central Scrutinizer”

Se avete dimestichezza con Joe’s Garage non faticherete a riconoscere questa introduzione.

Il Central Scrutinizer è il fastidioso ed irritante narratore del disco, il Grande Fratello 2.0, un impiegato del governo dalla morale bigotta che pontifica sul pernicioso ruolo della musica nella società. La musica ci viene descritta come uno scivolo verso le devianze, un pretesto che conduce irreversibilmente al consumo di droga, a pratiche sessuali perverse, alla prigione e addirittura alla pazzia.

Joe’s Garage è una vera e propria cautionary tale opera [proviamo a tradurla con opera dalla morale ndr] nella quale Frengo – con la sagacia che lo contraddistingue – si tuffa a peso morto in tutti i discorsi a lui cari come: individualismo, censura, libertà d’espressione, ingerenze del governo, sessualità, religione.

“Inizialmente l’album doveva essere costituito solo da poche canzoni, che nel loro insieme avevano una certa coerenza. Una sera – a metà delle registrazioni – dopo essere tornato a casa, ho scritto la storia e l’ho trasformata in un’opera. Probabilmente è la prima opera in cui si può battere il piede tenendo il tempo e farsi una sana risata”.

Commercializzato in due uscite (il disco risultava troppo costoso e difficilmente digeribile nel complesso), ha degli argomenti che si intrecciano in una monolitica critica sociale, rivolta ad un pubblico di ragazzi più che allo zoccolo duro dei fan costruito agli esordi “La maggior parte di loro non viene più ai miei concerti, perché ora ha mogli, figli, mutui, lavori d’ufficio e tutto quel genere di cose, non ha voglia di stare in un palazzetto dello sport ed essere ricoperto dal vomito di qualche sedicenne impasticcato. Di conseguenza il nostro pubblico si fa via via più giovane”.

Il protagonista, Joe, è un adolescente nel quale è facile immedesimarsi. Come la stra-grande maggioranza dei suoi coetanei vuole sfondare nel mondo della musica, fonda una band con la quale suona incessantemente la stessa “semplice” canzone all’interno del suo stretto garage [caratteristico inganno uditivo di Zappa, nella quale una melodia apparentemente semplice nasconde una struttura e dei cambi da far rabbrividire al solo pensiero delle citazioni nascoste ndr].

Le prove assidue suscitano le ire della madre, che lo incita di abbassare il volume, ma al tempo stesso riesce a farsi ascoltare dal vicinato ottenendo il successo e catapultandolo nell’occhio del ciclone “[…] qua fuori è pieno di Joe che hanno problemi con le case discografiche, e ogni giorno si scontrano con un sacco di stronzate”.

Zappa è solito comunicare il proprio messaggio in maniera duplice, estrema, conflittuale, acutizzando concetti per evidenziarne l’aspetto gretto, accentuando le storture sociali.  Ne è un esempio Catholic Girls un j’accuse all’ipocrisia della chiesa Cattolica esercitato da un pioniere dell’onestà intellettuale e della rivoluzione sessuale come lo zio Frank.

La sessualità è un tabù sociale, per questo diviene argomento cardine del disco: da Crew Slut – nella quale la ragazza di Joe assorbe i vizi della vita da groupie e partecipa al contest di miss maglietta bagnata in Fembot In A Wet T-Shirt – a Sy Borg (tanto esplicita quanto divertente nella porcaggine di ogni sua parola); passando per Why Does It Hurt When I Pee? – canzone su una malattia trasmessa sessualmente a Joe da Lucille – a Keep It Greasy nel quale Zappa ci ricorda quanto sia fondamentale lubrificare se si intende passare per il lato B.

Non mancano altre critiche dirette, come nel caso di A Token Of My Extreme nella quale Appliantology (Scientology) è presentata come una religione poco sincera che abbraccia un regime totalitario malevolo. Il governo è rappresentato come un regime tentacolare di stampo orwelliano dalla capacità di plasmare le coscienze dei cittadini tramite le ingerenze pubbliche ed i media (I’m The SlimeStink Foot, ecc).

La pigrizia inquisitiva degli intervistatori ha spinto, più volte, a credere che le canzoni traessero ispirazione da vicissitudini personali, tutte supposizioni rispedite al mittente da Zappa. Naturalmente non mancano delle analogie tra i vari brani e la vita di Frank, ma da qui ad essere un disco autobiografico ce ne passa.

La critica da parte di Zappa nei confronti del sistema discografico e mass mediatico esplode in Packard Goose, una dichiarazione d’amore viscerale nei confronti della musica e della libertà di espressione che culmina nel celebre sillogismo:

Information is not knowledge.  

Knowledge is not wisdom.  

Wisdom is not truth.  

Truth is not beauty.  

Beauty is not love.  

Love is not music.  

Music is the best. 

(L’informazione non è conoscenza. La conoscenza non è saggezza. La saggezza non è verità. La verità non è bellezza. La bellezza non è amore. L’amore non è musica. La musica è la cosa migliore.)

L’album conclude con due pezzi da 90: Watermelon In Easter Hay e Little Green Rosetta.

Il primo è un brano strumentale contenente la summa di alcuni dei migliori passaggi chitarristici mai registrati da un ispirato Zappa, oltre ad essere – insieme a Crew Slut – l’unico vero assolo registrato specificatamente per il disco. Il secondo è il classico pastiche zappiano – proveniente dal 1975 – con un testo surreale imperniato sulla siringa per guarnire i muffin.

In quest’ultimo, viene citato anche lo Utility Muffin Research Kitchen (già presentato nell’introduzione di Muffin Man), ovvero lo studio di registrazione di proprietà di Zappa, nel quale dal settembre del 1979 – fino al termine della propria vita – Frank ha registrato i propri album.

Joe’s Garage viene ricordato anche per la tecnica di incisione della xenocronia. Come anticipato, Watermelon In Easter Hay è l’unico caso nel quale è stato registrato appositamente un assolo nel disco, per gli altri brani sono state recuperate registrazioni in alta qualità dai live degli anni precedenti sistemando la tonalità e adattando la parte ritmica (prelevata magari da un altro concerto) “non riesce così facilmente. Ci vuole un po’ di sperimentazione per ottenere un risultato piacevole, non funziona sempre”.

P.S. non menzionare i principali musicisti coinvolti lo considero un grande insulto: Terry e Dale Bozio, Vinnie Colaiuta, Warren Cuccurullo, Ike Willis, Jimmy Carl Black e Steve Nye (al remix).

Brian Eno – Music For Films

Brian Eno - Music For Films

Non so quanti di voi abbiano mai sentito parlare di questo curioso progetto messo in piedi dal buon Brian. Music For Films nasce come EP nel 1976 a seguito di un’altra idea di Eno: non lasciare il cibo sul piatto, che i bambini in Africa muoiono di fame (Drink your beer, there’s sober kids in India).

Ovvero, non sprecare quanto di buono scartato dalle registrazioni di Another Green World, riciccialo e facci i big money. Quindi, visto che le sessioni di AGW si sono rivelate estremamente costose – ma altrettanto proficue – perché non pescare dallo scatolone dei ricordi e costruirci un album?

Ma soprattutto, perché non monetizzare il tutto rendendosi più account degli account della E.G. records? È qui che Braianino prende il pallino in mano, va dal music manager David Enthoven (già ex manager di T.RexRoxy Music e successivamente dei Take That) con la proposta in mano “Senti maaaaa… ti ricordi di quelle recensioni che dipingevano Green World come un disco visionario? Ma tipo se ricicciassi gli scarti di Green World, ci facessimo un eppì in tiratura limitata [500 copie ndr] e dicessimo che sono ‘colonne sonore per film immaginari’ e lo inviassimo a delle case di produzione? Se tutto va bene famo i big money, altrimenti non ci abbiamo speso un kaiser. Bella Chì, pensece!”

David annuisce e il progetto va in porto, royalties a gogo, sia per Eno che per la E.G., piano piano quelle micro-composizioni sono state utilizzate in film, documentari, sigle televisive… in alcuni casi più e più volte (tanto da camparci di rendita e garantire una carta bianca perpetua – della lunghezza dei rotoloni Regina – a Eno).

L’ampio ventaglio di registrazioni lasciava già presagire adattamenti tra i più disparati, dalla fantascienza al documentario, dalla sigla di Stranger Things a Super Quark. Tanto da frenare un po’ il nostro amato dal pubblicare un’opera del genere al grande pubblico, conscio del fatto che la critica tenera non è, e difficilmente avrebbe digerito delle micro-composizioni.

Sarà nel 1978 che Music For Films vedrà la luce del giorno, con altri brani a completare l’idea e tante altre collaborazioni a garantire spessore comunicativo al disco. Annoveriamo oltre a Fripp, Cale e Collins anche l’ex Matching Mole Bill MacCormickDave Mattacks dei Fairport Convention e Fred Frith dagli Henry Cow.

Music For Films era la migliore compilation della storia. Era un’idea grandiosa, e il modo perfetto per far arrivare la musica di Eno nel mondo pubblicitario e così via. È stata tutta un’idea di Brian. Era davvero un venditore favoloso. Sono certo di aver detto soltanto: ‘Ottimo, mi pare magnifico.'”, ricorda David Enthoven.

Queste parole ci ricordano che il genio è fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione.

Brian Eno – Another Green World

Brian Eno - Another Green World

Capita a tutti di improvvisare, di arrivare ad un appuntamento completamente impreparati. Qualche volta (poche volte a dire la verità) fila tutto liscio, altre vieni sgamato in maniera miserabile.  

E dato che prevenire è meglio che curare, Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno ha l’idea giusta per affrontare il problema “mi circondo di musicisti coi controcazzi”. 

Non serve altro, ascoltatevi l’assolo di Robertino Fripp in St. Elmo’s Fire (nell’unico intervento che fa in questo disco), è l’immensità. Poi consideriamoci anche il contributo più consistente del buon Filippo Colline e Giovanni Cala (al secolo Phil Collins e John Cale con il quale ha anche collaborato nel concerto con Kevin Ayers e Nico [registrato in un disco dal fantasioso nome June 1, 1974 data dell’evento ndr]). 

Dopo tutte queste parentesi su parentesi, chiudiamo l’articolo qui? Che ne dite? 

Comunque, come avrete già notato da tempo, anche io ad inizio articolo improvviso quasi sempre: la “carta” bianca mi spaventa, ma appena vedo un paio di righe sommarsi in modo sconnesso – come i tetramini nel tetris – mi infervoro e mi appassiono. Direi quindi che ora posso smettere di scrivere cazzatelle e concentrarmi sul tema odierno. 

Torniamo su quanto scritto inizialmente, riguardo il concetto di improvvisazione. Brian Eno in principio paga per questa scelta, diversi sono i giorni passati a lillarsi in studio senza combinare nulla, non proprio la scelta più saggia pensando al costo d’affitto giornaliero pari a 420 sterline.  

Preso male dalla situazione – come un ragazzino delle medie in gita scolastica – tira fuori il mazzo delle strategie oblique, come fossero le carte UNO, e risolve tutto. Ora chiunque di voi conosca un po’ pillole ed il ciclo relativo alla Trilogia Berlinese, ascoltando Another Green World si imbatterà in una serie di idee musicali che Bowie mutuerà per Low, non sorprendetevi (l’attacco di Sky Saw vi apre un mondo in tal senso), fa tutto parte di un grande puzzle meraviglioso che disco dopo disco comincia a comporsi in questo spazio digitale. 

“Ogni giorno prendevo uno strumento diverso. Un giorno era un violoncello, un altro una marimba, un trombone… qualsiasi cosa. Non sapevo suonarne nessuno […]”, naturalmente tutto veniva registrato e qualche volta le idee che ne uscivano consentivano di cominciare lo sviluppo di nuove composizioni “non verticali” ovvero non canoniche o narrative, ma assimilabili alla kosmische musik e al minimalismo.  

In un processo di addizione perpetua (sovraincisioni ed idee confuse), vengono cavate fuori una trentina di idee. Successivamente, vengono ridotte a 14 ceppi musicali da sviluppare in canzoni, su di questi avviene un lavoro di sottrazione volto ad eliminare l’inutile (simile al concetto giapponese di muda).  

È qui che la creatività di Eno prende il sopravvento compensando i limiti tecnici; chi di voi ha il disco originale, avrà notato la presenza di strumenti mai sentiti nominare come la desert guitardigital guitar e snake guitar 

In un’intervista – rilasciata alla pover’anima di Lester Bangs – Eno spiega tutto “tutte queste parole sono le descrizioni di come dovrebbero essere suonati gli strumenti, o il suono al quale vorrei somigliassero; ad esempio la snake guitar volevo che mi facesse pensare alle movenze di un serpente […] energico e veloce. La digital guitar è una chitarra con un delay digitale ma ha generato molto feedback su sé stessa fornendo un suono che sembra fuoriuscito da un tubo di cartone. La Wimhurst guitar in St. Elmo’s Fire, deriva da un’idea che ho condiviso a Fripp ‘Conosci la macchina di Wimhurst?’, praticamente è un dispositivo che genera dei voltaggi estremamente elevati tra due poli, ed ha una forma erratica, perciò gli ho detto ‘Immagina una linea di chitarra che si muova velocissimamente e imprevedibilmente’, e Frippone ha suonato un solo che per me è veramente molto Wimhurst [anche il titolo della canzone, il fuoco di Sant’Elmo, fa riferimento ad un fenomeno che crea una sorta di plasma… la smetto di addentrarmi in cose che non so, approfondite voi, non scambiatemi per Alberto Angela o Neil Degrasse Tyson ndr]”. 

Quando la struttura musicale assume un senso, Eno comincia a mugolarvi sopra le linee vocali, per assonanza poi butta giù i testi delle canzoni, ed è così che si viene a creare Another Green World, titolo che prova a descrivere i panorami – tanto inquietanti quanto verdeggianti – immaginati da Eno ascoltando le canzoni che compongono il disco.  

Come notate sto cercando di togliermi dalle balle il vezzo di commentare brano per brano, vorrei perciò che sognaste ascoltando il disco, il dettaglio avrete modo di carpirlo all’ennesimo ascolto che sicuramente affronterete.  

Godete del lavoro di Eno Rhett Davis, senza preconcetti, senza paura.  

Suicide – Suicide

Suicide - Suicide.jpg

“Se sei brutto, ti tirano le pietre,

Se sei Alan Vega, ti tirano le asce”

Cantava Antoine nel 1967, anticipando di 11 anni quanto sarebbe successo durante un tour europeo dei Suicide in apertura ai Clash.

Ma perché? Perché c’è questo accanimento verso i Suicide? Perché hanno cominciato al CBGB’s e sono finiti in Europa? Perché? Perché? Perché? (da ripetere in maniera disperata alla Antonio Socci durante la lite con Capezzone in una puntata di Excalibur).

Partiamo dal principio, i Suicide forse non li avete mai sentiti (non è che siano mai stati così celebri nello stivale) ci hanno provato gli Afterhours con Milano Circonvallazione Esterna a farceli apprezzare, ma l’effetto è stato tutt’altro che quello desiderato in principio. Il problema è che se non sei Alan Vega non li puoi fare i suoi urletti, soprattutto se ti prendi troppo sul serio (come gli Afterhours da Non è per Sempre in poi).

Vabè, chiudo la polemica tra me e il sottoscritto.

Alan Vega è famoso per il suo modo di cantare e per il suo trasporto nel canto, simula l’amplesso in ogni canzone del disco d’esordio, per questo si becca insulti da morire negli States. Insieme a Martin Rev – il tappeto sonoro vivente dei Suicide – se ne vanno in Europa ad aprire i concerti dei Clash, dove vengono insultati come accade con Richard Benson, culminando poi nel lancio dell’ascia che sfiora Vega a Glasgow. Un grido lancinante si alza in sala “I NANIIIIII!!!”.

Se fosse stato centrato, la band avrebbe dovuto cambiare nome in Homicide.

“Suppongo fossimo più punk dei punk nella folla. Ci odiavano. Allora li ho provocati: ‘Voi teste di cazzo, dovrete passare sopra di noi prima che suoni la vostra band!’ È stato quello il momento in cui l’ascia ha sfiorato la mia testa per un pelo. È stato surreale. Ho pensato di trovarmi in un film 3-D di John Wayne. Ma non c’era nulla di inusuale. In ogni concerto dei Suicide in quel periodo era come trovarsi nella terza guerra mondiale. Ogni sera credevo che sarei stato ucciso.” Alla fine Alan è campato tanto da potersi ritenere un sopravvissuto, purtroppo però ci è stato portato via da un 2016 che non ha lasciato prigionieri.

I Suicide non sono stati capiti – da quel che avrete capito – ospiti fissi del CBGB’s insieme a Patti Smith, Television, Talking Heads e Ramones, vennero ridicolizzati dalla critica salvo poi – come spesso capita – far dietrofront. La vera fortuna per il duo Vega e Rev è stato quello di incontrarsi a SoHo in un laboratorio artistico: “Abbiamo avuto la stessa fortuna che hanno avuto Jagger e Richards quando si incontrarono” ricorderà il cantante, in principio scultore; uno originario di Brooklyn l’altro del Bronx, avevano in comune una povertà che caratterizzava le loro giornate (un po’ come per Patti Smith e Robert Mapplethorpe quando all’inizio della loro carriera si trovarono a New York).

Rev era in possesso di un Wurlitzer da 10 dollari che sputava suoni strani, e Vega improvvisava sopra quelle emissioni sonore; la vera rivoluzione avvenne nel 1975 quando il duo rimediò una drum machine che ne completava la struttura musicale e ne rafforzava la consapevolezza dei propri mezzi. Sarebbero diventati – da lì in poi – i pionieri della no-wave e del sound anni ‘80 fatto di sintetizzatori e merda elettronica (della peggior specie in molti casi).

I primi concerti sono ricordati per le performance dei due con un Alan Vega più body artist che cantante, capace di procurarsi ferite sul volto con la catena ed il coltello che si portava sempre sul palco. Fortemente forgiato dal rock ‘n’ roll di Gene Vincent, Roy Orbison ed Elvis, Vega riesce ad emulare ed evolvere il loro linguaggio musicale.

Suicide è un album meraviglioso, fonte d’ispirazioni per tanti musicisti, tra i quali Bruce Springsteen – che in Frankie Teardrop vede le origini per la sua State Tropper in Nebraska – o gli R.E.M. veri fanatici di Vega e Rev – celebri sono negli anni le loro interpretazioni di Ghost Rider.

Ah dimenticavo… il nome Suicide è un tributo al soprannome del protagonista nell’omonimo fumetto Ghost RiderSatan Suicide – del quale Rev è un grande ammiratore.