The Beatles – Rubber Soul

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“Credo che il titolo Rubber Soul derivi da un commento fatto da un tizio su Jagger. Ho sentito nostre registrazioni poi scartate, suonavamo I’m Down e io, prima di attaccare, parlo di Mick. Riporto la frase di un amico americano che aveva detto ‘Mick Jagger. Beh sapete, questa gente non è male: ma ha un’anima di plastica’. Così ‘anima di plastica’ [Plastic Soul ndr.] fu il germe dell’idea di Rubber Soul“.

Macca ci racconta la scelta di uno dei titoli più belli mai scelto per un album, quel Rubber Soul che viene concepito nel 1965, un disco spartiacque nella carriera dei Beatles, che per la prima volta non presentano il proprio nome sulla cover del disco.

La necessità è quella di intervenire in maniera decisa sul percorso artistico intrapreso, deviando un po’ dal pop da top chart sciorinato nei primi anni di carriera. Rubber Soul è l’asticella che si alza verso il surreale, a fronte di un miglioramento tecnico che spinge verso una modernità la musica dei Beatles.

L’estate del 1965 scaldata da Highway 61 ha di fatto sistemato le pedine per un effetto domino con i fiocchi, la comunità musicale colpita dall’idea di Bob Dylan si rende conto della necessità di uno sforzo collettivo che di fatto comincia con Rubber Soul, prosegue con Blonde on Blonde (ricordate l’intreccio con Norwegian Wood?) e a cascata con altri signori dischi, sarà mia premura illustrarlo in questo spazio nelle prossime settimane.

I Fab Four percepiscono che il vento della novità sta soffiando forte e il loro momento sta arrivando, abbandonare il RnB per guardare in alto e appagare la sete di cambiamento. Non è un caso che le droghe comincino da un anno a questa parte a circolare in maniera più insistente tra John, Paul, George e Ringo… proprio quest ultimo ricorda come George Martin avesse cambiato il proprio approccio in sede di registrazione, il tasto rec viene schiacciato sin da subito registrando a ruota libera tutta la sessione prodotta dai Fab Four “Quando assumevamo troppe sostanze, la musica era merda, assolutamente merda. Non ne usciva niente di buono quando eravamo troppo fuori”, specifica Ringo.

Rubber Soul – per il vizio di spippacchiare erba a qualsiasi ora – necessita di più tempo, risultando un disco prodotto dopo attente riflessioni, volte alla ricerca di una sonorità differente, che i Beatles poi trascineranno dietro fino alla fine dei loro giorni. L’evoluzione non è solo sonora, ma personale, i ragazzi stanno maturando e scrivono in maniera talmente tanto naturale da partorire canzoni con facilità. A detta loro la droga ha influito in maniera importante  “Rubber Soul è stato l’album della marijuana e Revolver è stato quello dell’acido” ci dice John… insomma ci siamo capiti.

Si viene a formare un disco dalla struttura compatta, un vero e proprio LP omogeneo in ogni suo brano: ad inaugurare il disco ci pensa Drive My Car – con quel giro di basso suonato da George e che si rifà a Respect di Otis Redding –  uno dei brani più rinomati dei Beatles e come accaduto per Yesterday la linea melodica nasce immediatamente, invece di Scrambled Eggs qui il ritornello prevedeva You can buy me golden rings. La metrica lascia a desiderare e dopo essersi scervellati per bene, Macca e John tirano fuori un Drive my car risolutorio. Da lì sì è cominciato a pensare su cosa facesse quella ragazza, rendendo il significato tutto il brano decisamente più ambiguo.

Per una Drive My Car che va, segue una Norwegian Wood composta da Lennon; brano autobiografico che descrive una relazione extraconiugale di un John estremamente paranoico in quel periodo.

Il buon Lennon è sempre stato intento a ‘nzippettare a destra e a manca, dispensando il suo credo Pis en Lon a tutte le ragazze che incontrava in tour. La sonorità del brano dimostra l’interesse di confrontarsi con nuovi strumenti e ricercare soluzioni alternative rispetto al passato, George ha appena scoperto Ravi Shankar rimedia perciò un sitar e sovrincide sui vari tape di chitarra. Una meraviglia.

Sarebbe stupendo poter soffermarsi su ogni singolo brano… ma come per altri dischi che ho trattato, se insistessi questo articolo non sarebbe più una pillola bensì una supposta 8 bit. Indi per cui si va avanti rapidamente con Michelle, una perla di Paul nel quale c’è lo zampino di John “entrò in studio canticchiando le prime strofe e poi mi fa ‘come vado avanti?’. Caso volle che avevo appena ascoltato I Put A Spell On You di Nina Simone che mi ispirò il ritornello ‘I love you, I love you, I love you‘. I miei contributi alle canzoni di Paul riguardavano sempre un’aggiunta blues, un contrappunto di tristezza alle sue melodie luminose”.

E Nowhere Man la lasciamo in disparte? Sia mai! Una canzone nata in seguito allo smarrimento interiore che John vive all’epoca per le varie scappatelle, nella quale parla di sé stesso in terza persona… insomma, le canzoni di John nascono sempre per un senso di colpa per aver scopicchiato in giro.

Ma che cazzo, mi sento in colpa a non spendere nemmeno due righe su Wait, Girl, In My Life o The Word

Sono ingeneroso, perciò vi regalo le ultime righe dicendovi cosa c’è dietro la scelta della copertina di Rubber Soul… non è una storia particolarissima, semplicemente Robert Freeman – il fotografo che ha immortalato i ragazzi durante una sessione fotografica – proietta le diapositive scattate su di un cartone della dimensione del disco, mentre lo fa, il cartone si sposta, l’immagine appare deformata e sbam “che ficata! Teniamola così! Con le scritte deformate”.

Ecco… finisce così questo articolo breve se ne va… (se ne va), ma aspettate e un altro ne avrete, c’era una volta’ il cantapillole dirà, e un altro articolo comincerà (plin)

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David Bowie – Hunky Dory

David Bowie - Hunky Dory

Mai titolo è stato più azzeccato.

Hunky-Dory è un termine inglese che significa meraviglioso, soddisfacente o magnifico. Insomma un aggettivo che ben descrive la sensazione che si ha nell’ascoltare questo album, il quarto di David Bowie. Hunky Dory indica la consacrazione del Duca e l’inizio della scalata senza fine verso la leggenda. Come lui stesso ha ammesso “Hunky Dory è stata come una meravigliosa ondata. Suppongo mi abbia messo in condizione – per la prima volta nella mia carriera – di raggiungere un pubblico ampio. Intendo persone che venivano da me a dirmi ‘Bell’album, belle canzoni!’, qualcosa di mai accaduto sin lì. Ho cominciato a comunicare ciò che avrei voluto”.

Non stiamo parlando assolutamente di un disco innovativo, bensì di un piacevole incontro tra folk – un ritorno alle origini – e pop, ma soprattutto di un album che rappresenta il codice genetico della carriera musicale di Bowie.

Hunky Dory mette in evidenza una delle caratteristiche principali sulle quali David Jones ha basato la sua carriera: catturare i pregi e difetti musicali di altri artisti, portandoli al limite e migliorandoli. Dimostrando un’attenzione oculata verso il panorama musicale che lo ha circondato e senza precludersi sperimentazioni di ogni tipo.

Alla base di Hunky Dory vi è prima di tutto l’avvicendamento tra Tony Visconti – che in seguito diverrà il produttore storico di Bowie – e Ken Scott, in secondo luogo una band estremamente capace che dall’album successivo cambierà nome in The Spider From Mars.

L’album in sé, appare quasi come un greatest hits, comincia con quello che poi sarà un classico della discografia di Bowie, Changes, canzone che tratta il tema del cambiamento artistico – fulcro della carriera del Duca – e  nata come “una parodia buttata là di una canzone da Night Club“.

Hunky Dory prosegue con Oh! You Pretty Thing – una delle prime canzoni del disco ad essere registrata. Bowie si sveglia nel cuore della notte con un motivetto ben preciso in testa che deve fissare al pianoforte, ricorda a tratti la storia di Paul McCartney con Yesterday.

Scanzonata all’apparenza ma con diversi messaggi che hanno dato vita a numerosi dibattiti e a dietrologie sul credo politico di Bowie e sul suo stile di vita. Si è sempre pensato che il Duca avesse simpatie naziste, o comunque una discreta affinità con l’idea di una razza superiore. Tale tesi è rafforzata dai riferimenti al pensiero di Nietzsche, in particolar modo in Oh! You Pretty Thing si fa riferimento al concetto di übermensch –  l’oltreuomo – una sorta di evoluzione dell’uomo capace di superare i propri limiti e legittimare la propria superiorità imponendosi sulla società.* L’homo superior si riferisce con molta probabilità alle nuove generazioni, bombardate dai media e capaci – secondo Bowie – di sviluppare anticorpi emotivi.

Oltre a Nietzsche c’è un altro pallino di Bowie nascosto in questa canzone, quello di Alister Crowley e dell’occultismo; un file rouge che attraversa la carriera del cantautore in tutta la sua interezza, sino a Black Star.

Altre curiosità sono legate a Life On Mars?, difatti leggenda vuole che fosse ispirata a My Way. My Way è una canzone dalla genesi complessa, Claude François nel 1967 scrisse la canzone Comme d’Habitude – fece il boom e venne chiesto a Bowie di adattarne il testo nell’anno seguente. Prende così forma Even a Fool Learns to Love, un titolo a posteriori definito cafone dallo stesso Bowie. Fatto sta, che alla fine della giostra l’adattamento del testo scelto è quello scritto da Paul Anka, reso poi celebre dall’interpretazione di Frank Sinatra. Dalle ceneri di quell’esperienza e da quel giro d’accordi Bowie tira fuori Life On Mars?, una canzone zeppa di riferimenti pop e glam, uno zapping alla Warhol. Life On Mars? È l’esaltazione del bombardamento mediatico al quale è sottoposto l’homo superior, la celebrazione di un mondo che sta sempre più diventando di plastica, ma soprattutto della fetta di celebrità che ognuno di noi avrà per 15 minuti.

Warhol che viene celebrato nell’omonima Andy Warhol, un brano reso celebre dalla trama delle chitarre ancor prima del testo. C’è un curioso aneddoto legato a Bowie e Warhol, un incontro  presso la Factory nel quale il Duca cercò di impressionare – facendo il mimo – l’artista cecoslovacco che però rimase più che freddo di fronte allo spettacolino messo in atto da Bowie. Nonostante la “bocciatura” subita, Bowie non smetterà di vedere in Warhol una delle figure più ispiranti della propria carriera.

I riferimenti pop non finiscono con Warhol e Life On Mars? Ma proseguono con Song for Bob Dylan, l’omaggio che Bowie rende al cantautore di Duluth è una parodia della canzone Song for Woody, brano composto da Dylan per Woody Guthrie.

Gli aneddoti sono infiniti e sarebbe più consono scrivere un libro piuttosto che un breve articolo a riguardo, mi limito però a chiudere con Queen Bitch, il brano dedicato da Bowie all’amico Lou Reed – anche nello stile il Duca attinge a piene mani dalla scrittura “urbana” tipica di Lou Reed (Queen nel gergo newyorkese sta a significare “omosessualità”). Possiamo considerare questo brano come un assaggio di ciò che andiamo a trovare un anno dopo in Transformer.

In Queen Bitch si parla anche di Flo & Eddie, i fondatori di The Turtles, ex membri dei Mothers Of Invention di Zappa e supporto di Marc Bolan con i T.Rex.

La cover dell’album trae ispirazione da una foto di Marlen Dietrich che Bowie portò con se durante il servizio fotografico. Giusto a suggellare tutti i riferimenti pop presenti nell’album, Hunky Dory è la fotografia di un mondo e la previsione di dove quel mondo finirà di lì a breve.

 

*Mi limito semplicemente a riportare una interpretazione estremizzata del pensiero di Nietzsche, da parte di alcuni studiosi, che naturalmente non può essere sintetizzata in poche righe. Ci sono numerose interpretazione sulle parole di , ma naturalmente non essendo una pagina dedicata alla filosofia mi limito ad invitare chi fosse interessato ad approfondire l’argomento.