The Jimi Hendrix Experience – Are You Experienced

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Il 1967 è – dagli storici – ricordato come anno 0, più precisamente dal 4 Giugno del 1967 entra in essere la locuzione D.H. (Dopo Hendrix).

Dio è sceso in terra, si è fatto carne palesandosi al Saville Theatre, dove in prima fila presenziano coloro che a suon di olio di gomito e album hanno ottenuto più fama di Gesù.

Allora Dio prima di qualsiasi cosa, li indica, si porta le dita alle orecchie e urla tre volte – come il gallo – in loro direzione “Watch out for your ears, ok?”.

Dio fisicamente è diverso da come è stato rappresentato sinora, ha una acconciatura afro, è aitante, senza barba e giovincello… ma soprattutto è un Dio nero, mettendo le pive nel sacco ai movimenti razzisti che fanno da sfondo agli anni ’60.

Dio è mancino, suona con la mano del diavolo. Dio interpreta solamente dopo 3 giorni dall’uscita di Sgt. Pepper Lonely Hearts Club Band, la sua versione dell’opening del disco sorprendendo i Fab Four accorsi al suo spettacolo, affermando così la sua leggenda e imponendosi su chi finora non ha riposto in lui alcuna fiducia (e sono stati in tanti).

Fino a quel momento le capacità del chitarrista sono sempre state tema di dibattito e curiosità. Il concerto in questione ha dato a tanti la risposta che cercavano.

Once you try black you never go back.

Are You Experienced è un’idea musicale capace di sparigliare le carte su ogni tavolo, Foxy Lady apre le danze, dove Hendrix è la macchina del sesso che riesce a spremere dalle corde della Stratocaster una sensualità feroce e animale, lasciandoci intendere quanta voglia di gigiabaffa avesse il treppiede di Seattle.

È il manifesto del rapporto feticista con il suo strumento, è la sua naturale estensione; sin dalla prima chitarra acustica ha instaurato un legame totale con la sei corde (per la quale riceveva cinghiate dal padre qualora l’avesse trovato a suonare con la mano del diavolo) una relazione che i musicisti di tutte le generazioni hanno tentato di scimmiottare dal ’67 a oggi con risultati discutibili.

Sovente mi dimentico di quanto sia importante la capacità di sintesi, perciò eviterò di dettagliare troppo alcune canzoni piuttosto che altre.

L’eccezione la faccio per Hey Joe, cover che ha reso Hendrix quello che è; Chas Chandler (ex bassista dei The Animals e ora produttore) è alla ricerca di qualcuno che possa arrangiare in chiave rock la canzone eseguita da Tim Rose. Hendrix in quel periodo è alle prese con una serie di concerti al Cafe Wha? – nel Greenwich Village -, Chandler se ne innamora e lo porta nel Regno Unito, dove la leggenda di Hendrix ha inizio.

Are You Experience viene pubblicato nel 1967 con 6 differenti tracklist e 4 copertine differenti. Curioso il caso del Sud Africa che, sotto il regime dell’apartheid, censura la fotografia dei membri della band, per mettere bene in evidenza solo il nome.

Ma si sa, le vie del signore sono infinite.

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The Beatles – Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band

The Beatles - Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band

Quanto ho amato la chitarra acida ed espressiva dell’intro di Sgt. Pepper… quanto ho amato tutto Sgt. Pepper, un disco che mi ha forgiato e insegnato la meraviglia delle armonie complesse, la bellezza di melodie semplici e di impasti vocali teneri (come nel caso di With a Little Help From My Friends). Nominato a più riprese il miglior disco della storia, il più influente e – al contempo – l’album più sopravvalutato, giudicato in alcuni casi come un’insulsa accozzaglia di suoni e trovate pop.

Non c’è bisogno che aggiunga altro, io amo questo disco e mai sarò obiettivo. MAI.

Innanzitutto, da Rubber Soul passando per Revolver, i Beatles si trovano ad ascoltare Pet Sounds, la sensazione è che qualcuno sia corso a riparo nel mondo della musica, abbia recepito le idee dei Beatles ed elevate… ma gettare il guanto di sfida ai Fab Four in questo periodo equivale a contribuire attivamente alla stesura di Sgt. Pepper.

“Non potevamo fare meglio di quanto avessimo già fatto… o no?”

La domanda di Paul è lecita, nessuno possiede una sfera di cristallo, ma parafrasando John, se Rubber Soul era stato l’album della marijuana ed è un signor album, Revolver quello degli acidi ed è stato meglio, cosa aspettarci dal sergente Peppe? Assolutamente un passo avanti. Andiamo in ordine, che ci sono talmente tante cose da raccontare. Si entra in studio dopo un periodo di tour in giro per il mondo e di obblighi contrattuali, la nuova fase dei Fab Four è caratterizzata da una felicità di fondo, conseguenza anche del congelamento dei live, Paul partecipa da spettatore a concerti di musicisti contemporanei (tra i quali Berio), ma anche John, Ringo e George prestano il fianco a nuove esperienze, l’apertura mentale è alla base di nuove intuizioni.

Sgt. Pepper è Paul dopo un viaggio in America. Quei gruppi dal nome lunghissimo della West Coast stavano venendo di moda […] improvvisamente si era Fred and His Incredible Shrinking Grateful Airplanes. Penso che Paul sia stato influenzato da questa tendenza. Voleva stabilire una distanza tra i Beatles e il pubblico, così nasce la figura di Sgt. Pepper“, John ricorda questo particolare e infatti all’inizio Paul pensa a nomi come Col Tucker’s Medical Brew and Compound o Laughing Joe and His Medicine Band, dopo numerose prove – mescolando le parole e associandole ad orecchio – arriva Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band e di conseguenza la title track.

Prende così forma l’idea della band alter-ego, 4 alias che sostituiscono John, Paul, George e Ringo per tutta la durata del disco, un approccio volto a slegare mentalmente i Fab Four da dogmi e immagini musicali del passato al fine di liberare la fantasia. Prende vita così Sgt. Pepper, a differenza di ciò che diranno critica e addetti ai lavori, non come un concept album – difatti l’unica liason è nel brano di apertura e nella reprise verso la chiusura del disco – ma come un flusso di canzoni ben legate tra di loro che mostrano una armonia e nelle quali è possibile trovare una storia.

Come in Little Help From My Friends, scritta a detta di John parimenti da tutti i Bitolz basandosi su un’idea di Paul, oppure come per Lucy In The Sky With Diamonds, con un grande sforzo creativo di Macca e Lennon intenti a consigliarsi immagini psichedeliche come Newspaper taxis, Cellophane Flowers, Kaleidoscopic Eye e Looking Glass Ties. Figure evocative che per tanto tempo hanno invogliato a pensare ad un riferimento ai trip di LSD (acronimo de facto di Lucy in the Sky with Diamond) che in quel periodo i Fab si son fatti… la realtà – stando a quanto ci viene riportato dalle interviste dell’epoca – vuole che Julian Lennon porge un disegno intitolato Lucy in the Sky with Diamond al padre, che ispirato si butta a capofitto sul piano per comporre

Questa armonia è frutto dell’attitudine di tutti i membri nel contribuire alla creazione dei brani accantonando il proprio ego ed utilizzando le idee migliori al fine di ottenere di composizioni eccellenti, anche in questo caso il tocco di George Martin risulta decisivo andando ad aggiungere tutta l’esperienza maturata nella pre Beatles era con la musica elettronica e concreta. Per un George felice c’è un George infelice: è il karma. Le esperienze in India con Ravi Shankar hanno avvicinato Harrison alla spiritualità che crescerà sempre più negli anni fino a dischi smaccatamente improntati sul tema (Living In The Material World), riducendo Georgy ad uno stato di insoddisfazione che mai ha provato fin lì con i Fab Four, quasi un rifiuto di continuare… comunque ne ha tratto l’ispirazione per scrivere Whitin You Without You, dove il tentativo di imitare Shankar spinge Georgy boy in territori esotici.

Menzione d’onore per A Day In The Life, una delle mie canzoni preferite partorite dai Beatles, capolavoro di LennonJohn e io ci sedemmo. Lui aveva il verso d’apertura e la melodia. Prese l’idea su come proseguire dal Daily Mail, dove c’era un articolo bizzarro sulle buche a Blackburn, quello seguente riguardava l’esibizione di una signora alla Albert Hall. Il tutto si è fuso in una miscela poetica che suonava bene. Ho aggiunto un pezzetto suonato al piano ‘Mi sono svegliato, sono caduto dal letto, ho arato la testa con un pettine…‘ che era una mia canzoncina allegra, senza altre parti già scritte. Pensammo ‘Dovremo farlo iniziare con una sveglia’ e lo facemmo durante la registrazione”.

La progressione dell’orchestra nel bordello finale è frutto di un’idea di Paul che ha convinto ogni musicista a seguire il proprio istinto portando all’esplosione finale nella canzone.

Nota conclusiva dedicata alla copertina del disco, una delle più memorabili della storia della musica, grazie al coacervo di gente famosa presente. La Sgt Pepper band è di fatto composta da tutti i personaggi presenti in copertina, la scelta dei Fab Four è quella di evolvere l’immagine preconfezionata propinata negli anni, vestendo delle belle divise sgargianti che non passino inosservate, la decisione poi è quella di includere una lista di personaggi che i 4 baronetti avrebbero voluto nella Lonely Heart Club Band senza limitazioni. Per questo motivo troviamo gente come Stockhausen, Mae West, Fred Astair, Crowley, Poe, Jung, Marlon Brando, Bob Dylan, l’ex quinto Beatles Stue Sutcliffe, Burroughs, Freud, Huxley, qualche guru indiano, Einstein e le statue di cera dei 4 Beatles. Tutti gli artisti viventi presenti, hanno firmato una liberatoria per apparire, mentre chi non ha accettato è stato escluso naturalmente… inizialmente dovevano figurare anche Gandhi (posizionato vicino ad una palma) e Cristo con Hitler, ma persone vicine alla band li hanno fatti desistere per evitare ogni qual tipo di bega legale.

 

The Beatles – Rubber Soul

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“Credo che il titolo Rubber Soul derivi da un commento fatto da un tizio su Jagger. Ho sentito nostre registrazioni poi scartate, suonavamo I’m Down e io, prima di attaccare, parlo di Mick. Riporto la frase di un amico americano che aveva detto ‘Mick Jagger. Beh sapete, questa gente non è male: ma ha un’anima di plastica’. Così ‘anima di plastica’ [Plastic Soul ndr.] fu il germe dell’idea di Rubber Soul“.

Macca ci racconta la scelta di uno dei titoli più belli mai scelto per un album, quel Rubber Soul che viene concepito nel 1965, un disco spartiacque nella carriera dei Beatles, che per la prima volta non presentano il proprio nome sulla cover del disco.

La necessità è quella di intervenire in maniera decisa sul percorso artistico intrapreso, deviando un po’ dal pop da top chart sciorinato nei primi anni di carriera. Rubber Soul è l’asticella che si alza verso il surreale, a fronte di un miglioramento tecnico che spinge verso una modernità la musica dei Beatles.

L’estate del 1965 scaldata da Highway 61 ha di fatto sistemato le pedine per un effetto domino con i fiocchi, la comunità musicale colpita dall’idea di Bob Dylan si rende conto della necessità di uno sforzo collettivo che di fatto comincia con Rubber Soul, prosegue con Blonde on Blonde (ricordate l’intreccio con Norwegian Wood?) e a cascata con altri signori dischi, sarà mia premura illustrarlo in questo spazio nelle prossime settimane.

I Fab Four percepiscono che il vento della novità sta soffiando forte e il loro momento sta arrivando, abbandonare il RnB per guardare in alto e appagare la sete di cambiamento. Non è un caso che le droghe comincino da un anno a questa parte a circolare in maniera più insistente tra John, Paul, George e Ringo… proprio quest ultimo ricorda come George Martin avesse cambiato il proprio approccio in sede di registrazione, il tasto rec viene schiacciato sin da subito registrando a ruota libera tutta la sessione prodotta dai Fab Four “Quando assumevamo troppe sostanze, la musica era merda, assolutamente merda. Non ne usciva niente di buono quando eravamo troppo fuori”, specifica Ringo.

Rubber Soul – per il vizio di spippacchiare erba a qualsiasi ora – necessita di più tempo, risultando un disco prodotto dopo attente riflessioni, volte alla ricerca di una sonorità differente, che i Beatles poi trascineranno dietro fino alla fine dei loro giorni. L’evoluzione non è solo sonora, ma personale, i ragazzi stanno maturando e scrivono in maniera talmente tanto naturale da partorire canzoni con facilità. A detta loro la droga ha influito in maniera importante  “Rubber Soul è stato l’album della marijuana e Revolver è stato quello dell’acido” ci dice John… insomma ci siamo capiti.

Si viene a formare un disco dalla struttura compatta, un vero e proprio LP omogeneo in ogni suo brano: ad inaugurare il disco ci pensa Drive My Car – con quel giro di basso suonato da George e che si rifà a Respect di Otis Redding –  uno dei brani più rinomati dei Beatles e come accaduto per Yesterday la linea melodica nasce immediatamente, invece di Scrambled Eggs qui il ritornello prevedeva You can buy me golden rings. La metrica lascia a desiderare e dopo essersi scervellati per bene, Macca e John tirano fuori un Drive my car risolutorio. Da lì sì è cominciato a pensare su cosa facesse quella ragazza, rendendo il significato tutto il brano decisamente più ambiguo.

Per una Drive My Car che va, segue una Norwegian Wood composta da Lennon; brano autobiografico che descrive una relazione extraconiugale di un John estremamente paranoico in quel periodo.

Il buon Lennon è sempre stato intento a ‘nzippettare a destra e a manca, dispensando il suo credo Pis en Lon a tutte le ragazze che incontrava in tour. La sonorità del brano dimostra l’interesse di confrontarsi con nuovi strumenti e ricercare soluzioni alternative rispetto al passato, George ha appena scoperto Ravi Shankar rimedia perciò un sitar e sovrincide sui vari tape di chitarra. Una meraviglia.

Sarebbe stupendo poter soffermarsi su ogni singolo brano… ma come per altri dischi che ho trattato, se insistessi questo articolo non sarebbe più una pillola bensì una supposta 8 bit. Indi per cui si va avanti rapidamente con Michelle, una perla di Paul nel quale c’è lo zampino di John “entrò in studio canticchiando le prime strofe e poi mi fa ‘come vado avanti?’. Caso volle che avevo appena ascoltato I Put A Spell On You di Nina Simone che mi ispirò il ritornello ‘I love you, I love you, I love you‘. I miei contributi alle canzoni di Paul riguardavano sempre un’aggiunta blues, un contrappunto di tristezza alle sue melodie luminose”.

E Nowhere Man la lasciamo in disparte? Sia mai! Una canzone nata in seguito allo smarrimento interiore che John vive all’epoca per le varie scappatelle, nella quale parla di sé stesso in terza persona… insomma, le canzoni di John nascono sempre per un senso di colpa per aver scopicchiato in giro.

Ma che cazzo, mi sento in colpa a non spendere nemmeno due righe su Wait, Girl, In My Life o The Word

Sono ingeneroso, perciò vi regalo le ultime righe dicendovi cosa c’è dietro la scelta della copertina di Rubber Soul… non è una storia particolarissima, semplicemente Robert Freeman – il fotografo che ha immortalato i ragazzi durante una sessione fotografica – proietta le diapositive scattate su di un cartone della dimensione del disco, mentre lo fa, il cartone si sposta, l’immagine appare deformata e sbam “che ficata! Teniamola così! Con le scritte deformate”.

Ecco… finisce così questo articolo breve se ne va… (se ne va), ma aspettate e un altro ne avrete, c’era una volta’ il cantapillole dirà, e un altro articolo comincerà (plin)

George Harrison – Living In The Material World

George Harrison - Living In The Material World

Il piccolino dei Beatles è stato anche uno dei più sottovalutati artisticamente e musicalmente  parlando; quando i Fab Four erano ancora una entità unica, le sue intuizioni venivano spesso trascurate a favore della coppia che scoppia Lennon/Macca. Tant’è che All Things Must Pass è un album composto da canzoni tenute nel cassetto durante il periodo Beatlesiano, sull’onda dell’entusiasmo e della voglia di cambiare il mondo si è tenuto il grandioso concerto per il Bangladesh seguito da un anno sabbatico.

C’è chi ha imputato questa latenza alla mancanza di materiale da registrare, supposizione in parte corretta. Il tempo preso si è rivelato necessario a terminare l’album; dove l’influenza induista ha attecchito in maniera profonda e Living In The Material World. I raga ed i tala (tempi musicali indiani incentrati su dei cicli) non sono una novità, anzi già ai tempi di Rain l’influenza indiana si palesava prepotentemente nei Beatles, così anche le tematiche dei testi in maniera costante e sempre più consapevole si sono evolute, sfociando quasi 10 anni dopo in un disco che ha l’odore e la forte connotazione indiana.

Oltre alla dedica a Sri Krasna è presente all’interno del book un’immagine ripresa dalla Bhagavad-Gītā As It Is, ovvero l’edizione occidentale del testo sacro indù.

La spiritualità densa e decisa è condannata aspramente all’epoca dai critici, il giudizio sull’album è a tratti impietoso: un veicolo per promuovere la propria “setta spirituale” -similmente qualcosa di simile è accaduto anche a Johnny Cash quando si incaponì sulla volontà di registrare album esclusivamente di gospel e salmi incontrando le resistenze dei produttori.

La differenza tra le due figure giace nel percorso di Harrison che risulta più ponderato, genuino e consapevole paragonato al fondamentalismo a tratti cieco di Cash. I testi presenti in Living In The Material World sono permeati dal disagio interiore vissuto da Harrison che deve far coesistere lo status di “illuminato” e quello di superstar.

Give Me Love (Give Me Peace On Eart) è sicuramente la canzone di maggior successo dell’album e una tra le più amate, riesce a unire in modo esemplare e più profondo rispetto a My Sweet Lord il gospel ed il bhajan.

Rappresenta la fotografia a colori di George Harrison, del suo modo gentile ed affettuoso di cantare e di rivolgersi ad un’entità superiore, è l’esaltazione della leggerezza ricamata dalla sua Stratocaster. Lo stesso Harrison ha definito questo brano come “una preghiera ed una dichiarazione tra me, il signore e chiunque la apprezzi” e riguardo la sua nascita ha dichiarato “Qualche volta apri la bocca e  non sai cosa dirai, qualunque cosa esca sei ad un punto di partenza. Se sei fortunato, questo può diventare una canzone”.

Il tema principale, quello del fardello karmico e della trasmigrazione delle anime, è frutto del periodo non proprio allegro al quale era sottoposto il buon George: dal fallimento del matrimonio con Pattie Boyd alla frustrazione correlata al suo progetto per il Bangladesh.  La preghiera rivolta è carica di questi dubbi e della ricerca di serenità interiore, con la presenza post-ritornello dell’Om, come a voler garantire la santità della propria richiesta.

Insomma Georgetto non si limita a constatare questo, ma lancia anche un’accusa nella title track ai suoi ex-compagni di millemila avventure (oltre che a sé stesso), prendendo sempre spunto dalla Bhagavad-Gītā sostiene che l’esperienza dei Beatles lo abbia trasportato ad un mondo materiale. La canzone presenta un forte dualismo, risiedente soprattutto nella personalità di Harrison che riversa nella canzone e nell’album in generale “Sono una persona estrema… Sono sempre estremamente su o estremamente giù, estremamente spirituale o estremamente drogato”… diciamo che Living in The Material World ci comunica a fondo la dicotomia da yin e yang.

The Beatles – White Album (parte II)

The Beatles - White Album

 

Si torna con la seconda parte dedicata ad una delle pietre miliari dei Beatles

Un brano del White Album al quale sono particolarmente legato è While My Guitar Gently Weeps di George Harrison.

E’ stata scritta a casa di sua madre mentre pensava ai concetti fondamentali dell’I-Ching (in soldoni è il libro dei mutamenti fondato sul concetto di casualità legata al destino) perciò l’input per il processo creativo si è basato sulla prima parola che ha letto aprendo un libro a caso (ovvero “Gently Weeps“). Posato il libro è cominciata la vera e propria opera di creazione.

Quando il prototipo di traccia è stato presentato in studio, l’idea di Harrison non viene presa seriamente dagli altri e così è risultato abbastanza difficile lavorarci seriamente, sino a quando George non ha deciso di coinvolgere il suo grande amicone Eric Clapton che ha fornito un contributo eccezionale sia in termini musicali che disciplinari (riuscendo anche a dare una calmata agli altri anarchici presenti in studio).

Happiness Is A Warm Gum è stata una canzone proibita dalle radio perché associata, non si sa per quale motivo, all’abuso di droga. A dire il vero John Lennon ha pensato di scrivere una canzone riguardante la copertina di un periodico, mostratagli da George Martin, intitolata “La felicità è una pistola calda” (concetto folle e guerrafondaio secondo Lennon e non solo).

Revolution 9 è una sperimentazione di alto livello da parte di Lennon – ispirato dalla tecnica di collage musicale espressa da Paul McCartney a tempo perso – fondata sull’utilizzo di 20 loop ricavati dall’archivio della EMI, da nastri di musica classica tagliati, incollati, e mandati all’indietro. Il “Number 9” ripetuto è stato estrapolato dalla voce di un tecnico e mantenuto perché ha richiamato una numerologia, e generato un aspetto simbolico, del tutto casuale in quanto Lennon è nato il 9 ottobre, ha vissuto al numero 9 di Newcastle Road e lo ha considerato come il numero più alto dell’universo (dopo il 9 si torna all’1).

Helter Skelter è una canzone proto-metal, creata da Macca che si è ispirato a delle parole di Pete Townshend ascoltate in radio. La ricerca di una canzone fuori di testa ha portato alla creazione di un brano realizzato nel pieno dell’isteria e della follia generale.

Praticamente Paul ha cominciato ad urlare e l’ha realizzata in quel momento.

La registrazione è avvenuta dopo un intera giornata di prove, supportate da uno straordinario Ringo Starr che termina la registrazione con un “I’ve got blister on my fingersssss” (“Ho le vesciche sulle dita”), vesciche procurate nel tentativo di far suonare il più forte possibile la sua batteria durante la sessione di registrazione.

Purtroppo questa canzone negli States è stata interpretata in maniera totalmente folle, in particolare Charles Manson ha identificato l’Helter Skelter come un segnale dell’apocalisse e ha fatto quel casino di cui tutti siamo a conoscenza (se non lo sapete c’è wikipedia).

Menzione finale va a Savoy Truffle grande canzone scritta da Harrison e che tratta della passione di Clapton per i cioccolatini, che vede al sax la partecipazione di Ronnie Ross (maestro sassofonista di David Bowie).

The Beatles – White Album (parte I)

The Beatles - White Album

L’equazione di massima di Pillole Musicali 8 Bit è “Doppio Album = Doppio Post”.

Cominciamo subito col dire che il White Album è un doppio album e non ha un vero è proprio titolo… cioè… sarebbe The Beatles, ma considerando che la cover è completamente bianca, gli è stato affibbiato questo epiteto.

L’idea per la copertina è stata suggerita dall’artista Richard Hamilton, amico di Paul McCartney, che ha aiutato anche per quanto riguarda il naming dell’album e l’artwork minimalista, con una numerazione ad hoc per scatenare una guerra tra collezionisti… la copia numero 1 è in mano a Ringo Starr.

Prima di entrare nel dettaglio c’è bisogno di fare chiarezza riguardo la situazione all’interno della band.

L’aspetto creativo si è moltiplicato rispetto ai precedenti lavori in quanto non vi è più un lavoro di simbiosi come un tempo, ognuno ha portato una quantità di brani non indifferente (ispirati dal viaggio in India, dalle parole di Maharishi e da Donovan) al produttore George Martin, persino il quieto Ringo Starr con la fantastica e scanzonata Don’t Pass Me By si è scoperto produttivo in tal senso (George Harrison ha presentato 5-6 brani, Paul McCartney una dozzina e John Lennon su per giù 15) tutto questo ha palesato l’effettiva mancanza dell’amalgama di un tempo per via dei dissidi interni. L’egocentrismo di ogni membro dei Beatles è identificabile nel doppio album, difatti dei più di 30 pezzi presentati una minima parte è stata scartata. Ma c’è un ulteriore spiegazione, una gabola che ha permesso pubblicando più brani in un album di liberarsi celermente dal proprio contratto con la EMI stabilendo l’inizio della fine dei Fab Four. Effettivamente questo lavoro presenta quattro anime distinte in un unico elemento, senza alcun filo conduttore tra un brano e l’altro, generi diversi, stili divergenti, ognuno ha potuto realizzare la propria canzone come avrebbe voluto.

Un clima fondamentalmente ostile si è instaurato tra i 4, tant’è che un simpatico siparietto si è venuto a creare tra Ringo Starr e gli altri membri della band. Stanco di tutto e vedendo Harrison, Macca e Lennon felici, si è sentito tagliato fuori dal gruppo, perciò – deciso più che mai a rassegnare le dimissioni – è andato prima a casa di John Lennon, dichiarandogli:

<<Me ne vado dal gruppo perché non sto suonando bene e mi sento poco amato e tagliato fuori, e voi tre siete molto uniti>>

ma la risposta di John è stata:

<<Pensavo foste voi tre a volermi tagliare fuori!>>

Poco dopo è andato a casa di Paul ripetendogli lo stesso discorso, e naturalmente la risposta di Paul è stata la stessa di Lennon! Morale della favola? C’è una sorta di “odio” reciproco all’interno della band che ha indotto Ringo – esaurito dalle continue seghe mentali – a farsi una vacanza in Sardegna senza nemmeno prendersi la briga di passare da George Harrison a presentare le proprie dimissioni…