Brian Eno – Music For Films

Brian Eno - Music For Films

Non so quanti di voi abbiano mai sentito parlare di questo curioso progetto messo in piedi dal buon Brian. Music For Films nasce come EP nel 1976 a seguito di un’altra idea di Eno: non lasciare il cibo sul piatto, che i bambini in Africa muoiono di fame (Drink your beer, there’s sober kids in India).

Ovvero, non sprecare quanto di buono scartato dalle registrazioni di Another Green World, riciccialo e facci i big money. Quindi, visto che le sessioni di AGW si sono rivelate estremamente costose – ma altrettanto proficue – perché non pescare dallo scatolone dei ricordi e costruirci un album?

Ma soprattutto, perché non monetizzare il tutto rendendosi più account degli account della E.G. records? È qui che Braianino prende il pallino in mano, va dal music manager David Enthoven (già ex manager di T.RexRoxy Music e successivamente dei Take That) con la proposta in mano “Senti maaaaa… ti ricordi di quelle recensioni che dipingevano Green World come un disco visionario? Ma tipo se ricicciassi gli scarti di Green World, ci facessimo un eppì in tiratura limitata [500 copie ndr] e dicessimo che sono ‘colonne sonore per film immaginari’ e lo inviassimo a delle case di produzione? Se tutto va bene famo i big money, altrimenti non ci abbiamo speso un kaiser. Bella Chì, pensece!”

David annuisce e il progetto va in porto, royalties a gogo, sia per Eno che per la E.G., piano piano quelle micro-composizioni sono state utilizzate in film, documentari, sigle televisive… in alcuni casi più e più volte (tanto da camparci di rendita e garantire una carta bianca perpetua – della lunghezza dei rotoloni Regina – a Eno).

L’ampio ventaglio di registrazioni lasciava già presagire adattamenti tra i più disparati, dalla fantascienza al documentario, dalla sigla di Stranger Things a Super Quark. Tanto da frenare un po’ il nostro amato dal pubblicare un’opera del genere al grande pubblico, conscio del fatto che la critica tenera non è, e difficilmente avrebbe digerito delle micro-composizioni.

Sarà nel 1978 che Music For Films vedrà la luce del giorno, con altri brani a completare l’idea e tante altre collaborazioni a garantire spessore comunicativo al disco. Annoveriamo oltre a Fripp, Cale e Collins anche l’ex Matching Mole Bill MacCormickDave Mattacks dei Fairport Convention e Fred Frith dagli Henry Cow.

Music For Films era la migliore compilation della storia. Era un’idea grandiosa, e il modo perfetto per far arrivare la musica di Eno nel mondo pubblicitario e così via. È stata tutta un’idea di Brian. Era davvero un venditore favoloso. Sono certo di aver detto soltanto: ‘Ottimo, mi pare magnifico.'”, ricorda David Enthoven.

Queste parole ci ricordano che il genio è fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione.

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Brian Eno – Another Green World

Brian Eno - Another Green World

Capita a tutti di improvvisare, di arrivare ad un appuntamento completamente impreparati. Qualche volta (poche volte a dire la verità) fila tutto liscio, altre vieni sgamato in maniera miserabile.  

E dato che prevenire è meglio che curare, Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno ha l’idea giusta per affrontare il problema “mi circondo di musicisti coi controcazzi”. 

Non serve altro, ascoltatevi l’assolo di Robertino Fripp in St. Elmo’s Fire (nell’unico intervento che fa in questo disco), è l’immensità. Poi consideriamoci anche il contributo più consistente del buon Filippo Colline e Giovanni Cala (al secolo Phil Collins e John Cale con il quale ha anche collaborato nel concerto con Kevin Ayers e Nico [registrato in un disco dal fantasioso nome June 1, 1974 data dell’evento ndr]). 

Dopo tutte queste parentesi su parentesi, chiudiamo l’articolo qui? Che ne dite? 

Comunque, come avrete già notato da tempo, anche io ad inizio articolo improvviso quasi sempre: la “carta” bianca mi spaventa, ma appena vedo un paio di righe sommarsi in modo sconnesso – come i tetramini nel tetris – mi infervoro e mi appassiono. Direi quindi che ora posso smettere di scrivere cazzatelle e concentrarmi sul tema odierno. 

Torniamo su quanto scritto inizialmente, riguardo il concetto di improvvisazione. Brian Eno in principio paga per questa scelta, diversi sono i giorni passati a lillarsi in studio senza combinare nulla, non proprio la scelta più saggia pensando al costo d’affitto giornaliero pari a 420 sterline.  

Preso male dalla situazione – come un ragazzino delle medie in gita scolastica – tira fuori il mazzo delle strategie oblique, come fossero le carte UNO, e risolve tutto. Ora chiunque di voi conosca un po’ pillole ed il ciclo relativo alla Trilogia Berlinese, ascoltando Another Green World si imbatterà in una serie di idee musicali che Bowie mutuerà per Low, non sorprendetevi (l’attacco di Sky Saw vi apre un mondo in tal senso), fa tutto parte di un grande puzzle meraviglioso che disco dopo disco comincia a comporsi in questo spazio digitale. 

“Ogni giorno prendevo uno strumento diverso. Un giorno era un violoncello, un altro una marimba, un trombone… qualsiasi cosa. Non sapevo suonarne nessuno […]”, naturalmente tutto veniva registrato e qualche volta le idee che ne uscivano consentivano di cominciare lo sviluppo di nuove composizioni “non verticali” ovvero non canoniche o narrative, ma assimilabili alla kosmische musik e al minimalismo.  

In un processo di addizione perpetua (sovraincisioni ed idee confuse), vengono cavate fuori una trentina di idee. Successivamente, vengono ridotte a 14 ceppi musicali da sviluppare in canzoni, su di questi avviene un lavoro di sottrazione volto ad eliminare l’inutile (simile al concetto giapponese di muda).  

È qui che la creatività di Eno prende il sopravvento compensando i limiti tecnici; chi di voi ha il disco originale, avrà notato la presenza di strumenti mai sentiti nominare come la desert guitardigital guitar e snake guitar 

In un’intervista – rilasciata alla pover’anima di Lester Bangs – Eno spiega tutto “tutte queste parole sono le descrizioni di come dovrebbero essere suonati gli strumenti, o il suono al quale vorrei somigliassero; ad esempio la snake guitar volevo che mi facesse pensare alle movenze di un serpente […] energico e veloce. La digital guitar è una chitarra con un delay digitale ma ha generato molto feedback su sé stessa fornendo un suono che sembra fuoriuscito da un tubo di cartone. La Wimhurst guitar in St. Elmo’s Fire, deriva da un’idea che ho condiviso a Fripp ‘Conosci la macchina di Wimhurst?’, praticamente è un dispositivo che genera dei voltaggi estremamente elevati tra due poli, ed ha una forma erratica, perciò gli ho detto ‘Immagina una linea di chitarra che si muova velocissimamente e imprevedibilmente’, e Frippone ha suonato un solo che per me è veramente molto Wimhurst [anche il titolo della canzone, il fuoco di Sant’Elmo, fa riferimento ad un fenomeno che crea una sorta di plasma… la smetto di addentrarmi in cose che non so, approfondite voi, non scambiatemi per Alberto Angela o Neil Degrasse Tyson ndr]”. 

Quando la struttura musicale assume un senso, Eno comincia a mugolarvi sopra le linee vocali, per assonanza poi butta giù i testi delle canzoni, ed è così che si viene a creare Another Green World, titolo che prova a descrivere i panorami – tanto inquietanti quanto verdeggianti – immaginati da Eno ascoltando le canzoni che compongono il disco.  

Come notate sto cercando di togliermi dalle balle il vezzo di commentare brano per brano, vorrei perciò che sognaste ascoltando il disco, il dettaglio avrete modo di carpirlo all’ennesimo ascolto che sicuramente affronterete.  

Godete del lavoro di Eno Rhett Davis, senza preconcetti, senza paura.  

Patti Smith – Radio Ethiopia

Patti Smith - Radio Ethiopia.jpg

Passano pochi mesi e Patti torna in studio, questa volta non c’è John Cale a produrre e si sente, soprattutto nelle sonorità della band più edulcorate e pulite, meno viscerali in alcuni casi.

La potenza comunicativa della voce di Patti Smith invece non fa un piega, anzi si evolve ad uno stadio successivo, elaborando delle forme libere più insistenti rispetto a Horses. Radio Ethiopia è un titolo che può apparire singolare, ma che nasconde la passione per Rimbaud, difatti l’Etiopia è stata la seconda patria del poeta francese dove ha vissuto per qualche anno e dove si è ammalato prima di tornare a morire in Francia (a lui è dedicata anche l’ultima canzone del disco Abyssinia, l’antico nome dell’Etiopia per chi non lo sapesse).

Patti Smith era fortemente attratta dall’Etiopia, tanto da programmare un viaggio che non si realizzò per colpa di un preoccupatissimo Robert Mapplethorpe – che avrebbe fatto di tutto pur di impedirle di viaggiare in solitaria verso l’Africa. La Smith ha sempre cercato di stabilire delle connessioni ultraterrene con i suoi numi tutelari, perciò si rivela necessario – al fine di assimilarne la capacità creativa ed entrare in una empatia totale – dover visitare e rendere omaggio ai luoghi che hanno rappresentato un punto di svolta o momenti salienti per gli artisti, è stato così per Jim Morrison, per Baudelaire e lo stesso per Rimbaud.

Proprio a Rimbaud e ai suoi ultimi desideri sul letto di morte è riferita la caotica title-track, che nei suoi 10 minuti deliranti scrive una pagina importante nella carriera di Patti Smith divenendo uno dei brani più rappresentativi e preferiti dell’artista.

Radio Ethiopia è il nome del nostro nuovo disco e rappresenta per noi un campo nudo dove ognuno può esprimere sé stesso. È una radio libera. Noi siamo i DJ. La gente è il DJ. Quando suoniamo Radio Ethiopia, suono la chitarra. Non so come si suoni la chitarra, ma riesco a tenere il ritmo perfettamente e suono, non mi importa. E la gente è libera di farlo se lo desidera. Se fosse veramente un grande show, tipo migliaia di persone, 10mila, 50mila. 50mila menti, 50mila subconsci nei quali posso tuffarmi dentro. Voglio dire, più la gente da, più io do, il più grande spettacolo deve venire. Non mi piace il pubblico che siede e non reagisce perché non accade nulla.”

Patti Smith si nutre dell’energia del proprio pubblico, in un rapporto simbiotico e reciproco, sperimenta e azzarda con la title-track, ma vince lei. Personalmente non apprezzo il sound patinato di alcune canzoni del disco, meno ruvide rispetto a Horses: parlo di Ask the Angels, Pumping e Distant Fingers, ciò non significa che non apprezzi il valore della canzone in sé, ma ci sono brani come la stupenda Pissing In A Rivers, o le già citate Radio Ethiopia e Abyssinia che rappresentano la vera essenza di Patti Smith.

Patti Smith – Horses

Patti Smith - Horses.jpg

Horses è un disco che nasce molto lontano, nel 1964, quando una giovane ragazza-madre – dai gusti decisamente strambi rispetto a tanti suoi coetanei – si avventura senza nemmeno un centesimo a New York. Nella grande mela vive di stenti e di lavori saltuari, fin quando non farà l’incontro che le cambierà definitivamente la vita: Robert Mapplethorpe.

La voglia di diventare artista e poetessa matura sempre di più vivendo a contatto con Robert, ma sino ai primi anni ‘70 l’idea di cantare non le sfiora nemmeno l’anticamera del cervello, è Lenny Kaye che le mette la pulce nell’orecchio.

Il trasferimento al Chelsea Hotel e la frequentazione di un centro nevralgico della sottocultura newyorkese la invogliano ad alzare l’asticella e credere nelle proprie capacità, perciò i reading si trasformano in performance con base musicale di chitarra elettrica.

Cresce così la convinzione in Patti di musicare le sue poesie trasformandole in canzoni. L’imprinting musicale è solido: oltre a scrivere recensioni per riviste specializzate come Creem (dove nascerà il rapporto di amicizia con Lester Bangs) e Rolling Stones; non ha mai nascosto una folle dedizione per Bob Dylan ed i Rolling Stones, perciò è semplice ritrovare la sensibilità del primo e la potenza dei secondi in Horses, mantenendo però una cifra stilistica riconoscibile e propria.

L’idea di Patti è di suonare un Rock ‘N’ Rimbaud (per essere precisi, si ispirerà molto anche a Blake e Baudelaire) “ciò che volevo fare nel rock’n’roll era di unire poesia e paesaggi sonori, le persone che hanno più contribuito a questa visione sono stati Jimi Hendrix e Jim Morrison“. Smith riversa profonda ammirazione nei confronti di questi artisti in due brani stupendi di HorsesElegie (dedicata alla memoria del chitarrista) e Break It Up (scritta dopo la visita alla tomba di Morrison a Père Lachaise).

Proprio da Jim Morrison eredita quella capacità magnetica di stabilire un contatto con ogni singolo ascoltatore, coinvolgendo le corde emotive e mentali di chi ascolta.

Horses sarà proprio quanto pensato da Patti, l’impressione che si ha ascoltandola è di avere a che fare con qualcosa di differente, non è la Nico sacerdotale e portatrice di funeste novelle o il Jim Morrison filosofo a tratti aggressivo. Patti ha una carica positiva e si fa portatrice di messaggi di speranza, tira fuori gli artigli sul palco e lo si sente nelle lunghe cavalcate convulse accompagnate da Kaye, Sohl, Kral e Daugherty. La band è un vero e proprio supporto che esalta con la semplicità di pochi accordi – ed in pieno stile da garage-band – i testi della Smith.

Nel 1973 a New York prende vita uno dei locali più iconici della storia della musica, il CBGB. Patti lo frequenta assiduamente e familiarizza con i principali artisti coinvolti nelle serate, tra i quali Tom Verlaine dei Television con il quale registrerà il suo primo 45 giri, (una nuova versione di Hey Joe e Factory Pissing, che ebbe più successo della cover di Hendrix). Da spettatrice a ospite il passo è enorme, ma Patti si troverà a calcare il palco del CBGB per una marea di volte, e di lì a poco il Patti Smith Group viene messo sotto contratto per registrare il primo album, che sarà prodotto da John Cale.

È il 1975 e per Patti Smith ci sarà una seconda nascita, da aspirante poetessa a vera e propria icona del proto-punk e della scena newyorkese. Per la copertina dell’album non ha nessun dubbio: Patricia vuole affidarsi a Robert Mapplethorpe. Lui la immortala in bianco e nero – un’immagine differente rispetto a quanto offerto dalle altre artiste in quegli anni- apparendo unisex “ero un incrocio tra Baudelaire e Sinatra“.

Patti Smith capisce di essere un punto di riferimento per la scena musicale quando ai suoi concerti nella grande mela la platea è affollata dai principali musicisti del periodo, tra i quali Lou Reed e l’idolo dell’adolescenza di Patti, Bob Dylan. Lo stesso Bob Dylan che 41 anni dopo le chiederà di presenziare alla cerimonia del Nobel al suo posto.

Se dovessi scegliere una canzone che descriva Horses, sicuramente opterei per la sua versione di Gloria – stravolge il testo di Van Morrison mantenendone solo il ritornello – diventerà l’inno anarchico di quella generazione, un perfetto esempio di come lavorare sulle proprie fonti di ispirazione senza maltrattarle… con una frase d’apertura che da a tutti l’idea di chi sia Mrs. Patti Smith:

“Jesus died for somebody’s sins but not mine.”

The Stooges – The Stooges

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Prima di avventurarmi nel progetto di Pillole Musicali 8 Bit non avrei mai e poi mai pensato di scrivere qualcosa a proposito di Iggy Pop… con questo fanno 3 articoli su di lui, ma è talmente con le mani in pasta dappertutto che non si può fare a meno di citarlo.

C’è questo gruppo che viene messo sotto contratto con la Elektra (stessa etichetta dei The Doors) e che per una serie di motivi si ritrova catapultato a New York, più precisamente all’interno della Factory. Verrà prodotto da John Cale, produttore già di The Marble Index.

Succede poi che questo gruppo cominci a registrare, e accanto alla figura già austera di John Cale si aggiunge quella di una tedesca dai lunghi capelli corvini che sferruzza e lavora a maglia “a me sembrare che cuesto kruppo è più meglio di Velvet Underground“.

All’epoca Iggy Pop aveva appena 21 anni, non era ancora quell’attrezzo devastato che avremmo imparato a conoscere negli anni a venire, c’era un barlume di umanità in lui che venne di fatto cancellato da Nico. La crucca ne fece il suo toy boy, lo portava ovunque, divenne il suo feticcio; si stabilirà in parte quella connessione speciale che c’è stata tra Iggy e Bowie, dove Iggy si acculturava per osmosi. Di fatto Nico lo prese a ben volere, a dire il vero se ne innamorò, e Iggy in un certo senso pure, tanto da portarsela nella Fun House (un luogo tra derelikt e una comune nella quale gli Stooges vivevano): “era come uscire con un uomo con le fattezze di donna […] era come scoparsi il proprio fratello maggiore”… mhh che bella immagine…

Quindi Nico agisce come una nave scuola, i due trombano come se non ci fosse un domani, Iggy si becca lo scolo e nel giro di poco le cose tra i due non vanno più. Iggy si porterà sempre dietro quell’alone di oscurità che Nico gli ha attaccato (oltre allo scolo).

In tutto ciò, gli Stooges tirano fuori dal cilindro un grande album, dove il rock ‘n’ roll non è ancora animalesco come lo sarà in futuro, risultando più classico, fatta eccezione per We Will Fall dove la mano e la viola di John Cale catapultano l’ascoltatore direttamente all’interno del Banana Album, come avviene anche per Ann, canzone nel quale l’assolo sembra partorito dai Velvet Underground.

Resta comunque il fatto che il disco è veramente figo e trovo I Wanna Be Your Dog spettacolare, con Cale che suona insistentemente la stessa nota al piano (un po’ come farà Bowie per Raw Power) e con Ron Asheton alla chitarra acida distorta capace di sbatterci sul muso un giro di accordi bello cazzuto. La chitarra generalmente traccia una serie di sonorità da emicrania sulle quali si getta la voce di Iggy Pop che ripete in maniera autistica le parole (Not Right), ma l’effetto è piacevole e meno estremo di quanto risulta nei lavori successivi come Fun House e Raw Power.

Ahhh come ti ho rivalutato Iggy!

Nico – Desertshore

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Ci eravamo lasciati nel bel mezzo di una officiazione ed è così che ritroviamo Nico, solo che questa volta mi sono tutelato scrivendo l’articolo in piena giornata.

Nico partorisce quel che sarà Desertshore in quel di Positano (una relazione quella tra Nico e l’Italia che prende forma alla fine degli anni ‘50 quando Fellini la scelse per La Dolce Vita) un disco nel quale esplora ulteriormente le intuizioni di The Marble Index, per questo la struttura rimane la medesima: Nico, armonium, John Cale.

Il brano ad apertura del disco, Janitor Of Lunacy, è dedicato all’amante di un tempo Brian Jones, scarno nel testo e nell’arrangiamento, ma magnetico e dal forte impatto emotivo. Si prosegue in crescendo con The Falconer, l’armonium domina ancora il brano – con il tappeto musicale a ricordare una marcia funebre – e la voce di Nico interviene funesta e monocorde, fino all’avvento del pianoforte che da aria all’intero brano con una melodia quasi di speranza.

My Only Child si depriva di ogni strumento, basandosi sul canto a cappella di Nico – con sovraincisioni – che ricorda tanto Where Have All The Flowers Gone di Pete Seeger, così vicino ad un canto di chiesa da apparire sacro.

Le Petit Chevalier è interpretato dal figlio di Nico, Ari, nato dopo una relazione con Alain Delon e non riconosciuto dall’attore francese; al proprio figliolo Nico aveva già dedicato una canzone nel precedente The Marble Index, al contrario di quanto possa sembrare, Nico non può essere considerata una buona madre, difatti Ari col passare degli anni diventerà compagno di spade della madre condividendone la passione per le droghe. In Le Petit Chevalier, il canto del piccolo Ari è incerto come fosse guidato dalla madre, è possibile sentire dei profondi respironi decisamente inquietanti alzando il volume. Desertshore presenta delle sinusoidi, è fluttuante, ci sono perciò dei brani scuri molto simili tra di loro intervallati da dolci armonie, come per Afraid che anticipa la sacralità dei Popol Vuh nella semplicità di un piano e della viola.

Con Abschied si torna alle tonalità apocalittiche che trovano nella sezione d’archi un rafforzativo non indifferente e che come per Mutterlein – dove vengono aggiunte le trombe – il cantato in tedesco aiuta ad angosciarci ancora di più e prepara al caos metodico della stupenda All That Is My Own di memoria newyorkese, molto vicina ai Velvet Underground e al Tim Buckley di Goodbye And Hello.

Il brano finale assume una dimensione profetica, così come il ruolo che si ritaglia Nico – con ancora più forza rispetto al precedente disco – quello dell’interprete delle oscurità del mondo, che sacrifica la bellezza del mondo di plastica dal quale proviene per vestire le brutture del mondo. Al contrario della deriva gotica che prenderà piede a cavallo tra i ‘70 e gli ‘80, Nico ci canta le oscurità che si celano dietro ogni angolo del mondo più che quelle interiori.

Nico – The Marble Index

Nico - The Marble Index.jpgNico è un angelo decaduto, troppo bella per essere paragonata ad una creatura terrena, altrettanto austera da apparire indecifrabile. Rifuggiva la propria bellezza, tanto da danneggiarla in ogni modo possibile (soprattutto con tinte nere corvino ed eroina); reputava la bellezza un ostacolo alla propria arte, forse per i suoi trascorsi da modella ed attrice che ne offuscavano l’effettivo potenziale creativo.

Nico è la mia costante – per le relazioni ed i luoghi che ha vissuto – colei che mi consentirà di parlare di New York e dei vari: Bob Dylan (con lui ha avuto una mezza tresca); Rolling Stones (si è trombata Brian Jones ed ha abortito un loro figlio); Jim Morrison (si son trombati per bene, storia di cazzi e cazzotti); Jackson Browne (si è trombato pure lui perché ha scritto qualche brano per Chelsea Girl); Velvet Underground (si è trombata John Cale? Forse); Lou Reed (Lou se l’è trombato e di che tinta); Iggy Pop (per Iggy è stata una nave scuola tanto da attaccargli lo scolo); Leonard Cohen (s’è trombata anche Lenny) e Alain Delon (non parleremo di lui ma se l’è trombato e ci ha fatto un figlio).

Ora non voglio parlare delle varie trombate – anche perché stento a credere che la lista si fermerebbe qui – quanto piuttosto del fatto che Nico era una vera e propria icona (parafrasando il documentario dal titolo NICO – ICON) e punto di riferimento per tanti artisti. Musa e non solo, artista totale, sacerdotessa delle tenebre pronta a sacrificare quanto madre natura le ha dato per farsi carico di un bene superiore: l’arte.

The Marble Index è il secondo disco di Nico – prodotto da John Cale – assume una dimensione differente rispetto all’esordio da folk classico Chelsea Girl – album marchetta, studiato a tavolino da Warhol nel quale Nico interpreta discretamente brani inediti di altri autori. Jim Morrison dopo una breve -seppur intensa – relazione autodistruttiva con la bionda teutonica, la spinge a scrivere dei testi propri e ad assecondare la propria essenza.

Jim Morrison è la scintilla che accende Nico, si narra che il loro primo incontro – dopo del gelo iniziale – cominciò con delle tirate di capelli, schiaffi e classici comportamenti da innamorati. Questo può essere definito come il rito di iniziazione della sacerdotessa e dello sciamano, il resto lo hanno fatto i viaggi nel deserto sfondandosi di allucinogeni.

Quei trip si riversano su The Marble Index, un disco teatrale, cacofonico e gotico, dove la voce di Nico – fortemente caratterizzata dal suo accento – si incrocia continuamente con l’armonium completamente fuori tonalità “L’armonium era talmente fuori tonalità con tutto. Anche con sé stesso. Lei ha insistito nel suonarlo dappertutto così abbiamo dovuto trovare il modo di separare la sua voce il più possibile e trovare un modo per amalgamare il tutto con la pista dell’armonium…. come arrangiatore solitamente si cerca di registrare una canzone e fare una struttura su di essa, ma non era possibile lavorare in questo modo nella forma libera che aveva registrato, rendendo il tutto astratto” ricorda John Cale.

Come scritto è un disco gotico nel pieno significato del termine, ci sono degli eco che ricordano i canti gregoriani, parvenze di musica medioevale e un’idea tetra che serpeggia per tutto il disco dando un’aria di tregenda, dove Nico officia la sua messa personale e solitaria, una solitudine ricercata con decisione. Un disco complesso ed articolato più di quanto appaia.

P.S. Ho scritto questo articolo di notte ascoltando The Marble Index, cagandomi leggermente sotto… quindi se siete suscettibili non ascoltatelo, perché è come sentirsi addosso gli occhi spiritati di Nico per tutta la durata dell’ascolto.

The Velvet Underground & Nico – The Velvet Underground & Nico

The Velvet Underground - Banana Album.jpg

1965 – Dopo la produzione di opere d’arte in serie e svariati tentativi nell’ambito cinematografico, arriva il turno per Warhol e la sua Factory di affacciarsi al mondo della musica. L’attenzione cade sul gruppo capitanato da Lou Reed e John Cale, i Velvet Underground.

Si viene a configurare perciò questo sodalizio artistico che vede Warhol come primo artista produttore di musica. La sua intenzione principale è quella di creare un evento molto simile agli happenings di Cage e dei Fluxus ma in chiave Pop; l’idea conseguente è quella di gestire una nuova tipologia di discoteca in cui una band possa suonare in un ambiente multimediale con delle luci stroboscopiche, dove ci si avvalga delle coreografie e dove possano essere trasmessi spezzoni dei suoi film, su degli schermi multipli a fare da corollario.

In origine la scelta di Warhol cadde su Frank Zappa e i suoi Mothers, ma ce lo vedete Frengo in quell’ambiente patinato fatto di lustrini? Frank quindi declina l’offerta e Warhol punta tutte le sue fiches sui Velvet Underground, i cui componenti frequentano da qualche tempo la Factory. Uno dei padri del marketing moderno capisce subito che tira più un pelo di fica che un carro di buoi, perciò alla presenza funerea di Reed, Cale e compagnia, affianca una delle sue superstar che fa da contraltare con la sua bellezza: Nico.

Si svilupperà subito un rapporto odi et amo tra Nico e Lou Reed, oltre alla relazione sentimentale che si instaurò trai due, Lurìd sentiva in parte usurpata la propria leadership, difatti Nico non doveva fungere da ragazza immagine solo per i live, bensì avrebbe dovuto cantare gran parte delle canzoni all’interno del disco d’esordio dei Velvet.

Prendete ad esempio Sunday Morning, registrata come ultima canzone per volere di Tom Wilson (produttore del disco), è stata scritta su suggerimento di Warhol parlando della paranoia, e Nico avrebbe dovuto cantarla. Solo che quando si trovarono in studio, Lou ci mise la propria voce, cercando di renderla leggera e femminile pur di non farla cantare alla crucca.

Prese vita quindi Up Tight, rinominato successivamente Exploding Plastic Inevitable, spettacolo replicato per quattro settimane con un successo enorme. “Ha inventato il multimedia a New York, cambiando completamente il volto della città. Da allora nulla è rimasto come prima” dirà Lou Reed.

Il clima della Factory ben si addice ai Velvet Underground e viceversa, un ambiente estremamente tollerante dove sono presenti gli emarginati della società di allora come i travestiti, i tossici, gli omosessuali e la gente di strada. Questi soggetti esercitano una forte influenza in Lou Reed che scrive gran parte delle canzoni – dei Velvet Underground prima e della carriera solista poi – ispirato dalla variegata tipologia che orbita presso la Factory.

Nel marzo del 1967 la collaborazione con Warhol da vita al primo disco dei Velvet Underground, nel quale egli partecipa come produttore nominale, limitandosi a produrre in termini finanziari la band e farne da promotore, dando loro carta bianca e pregandoli di cercare di ricreare quell’alchimia e quel sound che tanto lo avevano colpito durante le esibizioni dal vivo del gruppo.

Grande scalpore suscita la copertina ideata da Warhol, una banana su sfondo bianco con una scritta minuscola Peel slowly and See, che invita a tirar via la buccia adesiva della banana, sotto la quale vi è una banana di colore rosa che allude – neanche troppo velatamente – ad un superpisellone pop-art. L’album chiamato The Velvet Underground & Nico è conosciuto oggi col nome Banana Album per l’incredibile forza comunicativa che la copertina possiede.

“stavo lavorando in una casa di registrazione come autore di testi, fin quando non mi hanno chiuso in una stanza chiedendomi di scrivere 10 canzoni surf, così ho scritto per loro Heroin e quando gliel’ho data la loro risposta è stata ‘assolutamente no!'”, questo è il ricordo di Lurìd a proposito di Heroin, uno dei brani più controversi dei Velvet Underground, associato all’uso delle droghe pesanti, così come I’m Waiting For The Man – una delle prime canzoni del disco ad essere registrata – che parla dell’acquisto di una dose di eroina ad Harlem. Altre canzoni provenivano direttamente da alcuni input di Warhol, come la già citata Sunday Morning o Femme Fatale ispirata a Edie Sedgwick e cantata da Nico, o la decadente All Tomorrow’s Parties il brano preferito di Warhol, sempre interpretata dalla sua superstar.

Come non citare in ultimo Venus In Furs, con la viola di Cale che fende l’aria e Lou Reed che canta di sadomaso, sottomissione e bondage, come fosse lo spettatore di un gioco a tre. È la perdizione e la trasgressione che i Velvet vivono nella Factory e che Reed sarà sempre bravo a raccontarci con quel tocco di decadenza che ne ha caratterizzato l’intera carriera.

P.S. sono riuscito a parlare dei Velvet Underground senza citare Brian Eno e la celebre frase sul loro disco d’esordio 8)