Squallor – Troia

Squallor - Troia

“Nell’Iliade appaiono due modi di rappresentazione. Il primo si ha quando Omero descrive lo scudo di Achille: è una forma compiuta e conchiusa in cui Vulcano ha rappresentato tutto quello che egli sapeva e che noi si sa su una città, il suo contado, le sue guerre i suoi riti pacifici. L’altro modo si manifesta quando il poeta non riesce a dire quanti e chi fossero tutti i guerrieri Achei: chiede aiuto alle muse, ma deve limitarsi al cosiddetto, e enorme, catalogo delle navi, che si conclude idealmente in un eccetera. Questo secondo modo di rappresentazione è la lista o elenco.”

Così Umberto Eco introduceva Vertigine della Lista, uno delle sapienti guide redatte dal “fetentone” (come lo qualificava il compianto – forse più di EcoMichele Giordano), un gancio quasi scritto ad hoc dal buon Umberto-berto-erto-to ispirato probabilmente dall’ascolto del disco d’esordio degli Squallor.

Una doppia rappresentazione quindi, ma in che senso?

“Cantami, o Diva, del pelide Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei”

Ascoltando le prime note della title-track la sensazione è di avere a che fare con l’ennesima realtà cantautorale intellettuale, l’animo partenopeo di Cerruti viene in soccorso mantenendo il tutto in equilibrio su di un filo che vibra costantemente tra il serio e la presa in giro.

Una fitta trama di calembour volta a confondere l’ascoltatore sulla falsa riga del Pippo Franco di Cesso (uscita due anni prima), viene smantellata definitivamente al nitrito di Cerruti, interprete di tutte le ballate lente targate Squallor.

“Inventai Troia, così un ragazzino per andare a comprare, alla signorina… chiedigli Troia e ce l’ha anche se non sa cos’è”, Cerruti spiega l’idea dietro al primo titolo della discografia degli Squallor e il divertimento è proprio sito nelle soluzioni fantasiose dei ragazzini per nascondere il disco una volta arrivati a casa (testimoniato nel documentario sugli Squallor del 2012).

Eppure l’origine dei quattro è più che nobile, veri deus ex machina della musica leggera italiana appartenenti alla gloriosa CDG, talent scout ed autori di alcune delle canzoni italiane più celebri e belle incastonate nel Mille Note. Se cominciassi a elencarle avrei bisogno delle muse citate da Eco e potrei tediarvi non poco, vi consiglio pertanto di approfondire di persona se interessati.

Si continua sulla falsa riga di Troia, un continuo detto non detto che ondeggia placido su ritornelli pop, o su delle vere e proprie parodie come nei casi di The Mosquito dei The Doors (divenuta Non Mi Mordere il Dito), Sex Clubs di Serge Gainsbourg (Morire in Porsche), o con La Risata Triste copiata con carta carbone da Slush dei Bonzo Dog Band (che in parte può essere ascritta come antesignana de Il Circo Discutibile di Elio e Le Storie Tese).

Non sono esentate da questo trattamento anche composizioni in stile cinematografico (come Indiani a Warlock), insomma i brani sono permeati da un doppio senso reiterato che quando è assente viene rimpiazzato dalla narrazione delle scene quotidiane ad un apparente non-sense che avrebbe fatto impallidire anche Edward Lear nel proprio periodo di maggiore fertilità creativa.

Cerruti inquadra il manifesto degli Squallor con questa frase “Io e miei compagni d’avventura eravamo organici al mondo della musica. Avevamo a che fare con i cantanti e i cantanti, non so se lo sa, sono degli scassacazzi senza eguali. Egotici, arroganti, autoreferenziali. Volevano questo e pretendevano quell’altro. Gente micidiale. Usciti dai nostri incontri quotidiani con le stelle della musica, eravamo neri come la notte. Allora pensammo di donarci un po’ di luce. Parodiammo il nostro universo e in quel modo ci salvammo l’anima”.

Quindi il non-sense apparente, valorizzato dalla capacità di improvvisazione nei testi a tratti eroica, è la presa del culo degli Squallor al mondo dal quale provengono, una sorta di esorcismo per sopravvivere agli eccessi di un ambiente che oltre i lustrini sa essere più crudele dell’Isola della Regina Nera. Savio, Pace, Bigazzi e Cerruti son soliti svergognare i cantautori con i quali collaborano da una vita.

Il ruolo da loro ricoperto nel mercato musicale impone un iniziale riserbo sulle loro figure, gli Squallor celano la propria identità evitando anche promo, concerti o eventi pubblici, salvo poi gettare la maschera e cominciare con il turpiloquio ponderato che ha caratterizzato le successive sortite discografiche.

Affetti dalla sindrome di Bruce Wayne, si può tranquillamente affermare che son bischeri al pari del Mascetti, del Perozzi, del Sassaroli, del Necchi e del Melandri… insomma chi li ha vissuti ed amati li nomina come la formazione della nazionale italiana dell’82, sono gli Amici Miei della musica: irriverenti, cinici, fastidiosi, sboccati e senza freni, seri durante il giorno, cazzoni la notte. Capaci di lanciare strali verso le lobby senza nascondersi dietro un dito.

Gli Squallor sono nati così, un cazzeggio continuo al lavoro con una cascata di battute alle quali è seguita una domanda più che lecita: perché lasciarle disperdere nel vento?

E se magari i dubbi su quanto vi ho detto persistessero, credo che dobbiate fugarli con la meravigliosa 38 Luglio (primo singolo, registrato all’insaputa di Cerruti e Pace, alla base della nascita del progetto Squallor e con il quale hanno venduto 100mila copie senza nemmeno pubblicità) o con Ti Ho Conosciuta In Un Clubs, capolavori in climax ascendente di intensità tragicomica.

Signori, amo gli Squallor ed i loro tempi comici. Spero per voi sia lo stesso

 

Per questo articolo si ringraziano i siti:

https://spazio70.net/tag/troia-squallor/

http://www.lindiependente.it/gli-squallor-il-documentario-sulla-darkroom-della-musica-italiana/

dai quali sono state reperite informazioni per la redazione dello stesso.

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Nick Cave & The Bad Seeds – From Her To Eternity

Nick Cave & The Bad Seeds - From Her To Eternity

Entriamo nel vivo di questo ciclo di pubblicazione, incentrato su Nick Cave. Dopo aver trattato No More Shall We Part e Murder Ballads, facciamo qualche passo indietro per ripescare il primo lavoro con i Bad Seeds successivo alla parentesi iniziale con i The Birthday Party.

Inutile spiegare quale sia l’importanza di un disco come From Her To Eternity, sono veramente intenzionato ad evitare il pippone su quanto sia importante un disco blablabla… partiamo dal presupposto che ogni disco trattato in questa pagina ha una determinata rilevanza oggettiva e/o soggettiva, per le carriere degli artisti per le emozioni che hanno trasmesso al pubblico e altri parametri che non sto qui a ripetere.

Su un aspetto in particolare però mi soffermerei, su quanto fondamentale sia stato l’ingresso di Blixa il crucco nelle dinamiche cantautoriali del tossico capellone Cave; di fatto con Blixa, Nick Cave rivolta il suo approccio musicale come un calzino: “Bè, credo che non stavamo più calciando la gente sui denti [fa riferimento all’aggressività dei The Birthday Party ndr]. Voglio dire, è semplicemente cambiato il resto. Volevo essere più orientato ai testi e acquisire Blixa Bargeld dagli Einsturzende Neubauten nel gruppo ha fatto un’incredibile differenza. È un chitarrista estremamente capace di creare atmosfera e ciò ha dato modo di avere il mio spazio.”

Bad Seeds nascono dal rigurgito dei The Birthday Party, Cave e Mick Harvey iniziano il nuovo progetto e vengono raggiunti dal già citato Bargeld, Barry Adamson al basso e Hugo Race alla chitarra. Questa è la prima formazione de facto dei Bad Seeds, che come sapete tutti ha una formazione talmente tanto liquida da sembrare più un bordello che una band… il nome viene preso dall’ultimo EP dei Birthday Party, dopo aver utilizzato per qualche tempo il nomignolo The Caveman.

Le atmosfere in From Her To Eternity sono cupe, sporche, quasi tribali e grevi, figlie del circuito underground anni ‘80, quello che si contrappone in maniera netta e decisa ai sintetizzatori e alle pallette, alle estremizzazioni del glam anni ‘70. Non c’è la violenza dei The Birthday Party, Nick Cave compie un passo in avanti non indifferente in un percorso che lo porta ai giorni nostri, permeato da storie che definire sintetiche e allegre sarebbe tutt’altro che corretto. Ascoltare Nick Cave in questo periodo è come ascoltare il monologo dell’ubriaco al pub su quanto sia fottuto il mondo e le sue barbare declinazioni morali, tu lo ascolti e sai che in fondo un po’ di verità c’è, fin quando non ti chiede se gli paghi il conto e li scarichi il rosario di peccati che mannaggialama*$#@!”.

Perciò addentriamoci nel disco, per farlo in questo caso, il modo migliore è partire proprio dall’inizio, da Avalanche presa in prestito da Leonard Cohen e caricata di una intensità drammatica – rafforzata dalle imperfezioni vocali di Cave – ogni verso viene scandito con una attenzione maniacale (a differenza dell’originale nel quale Cohen sembra quasi far scivolare il testo su un letto di arpeggi) e accompagnato da una progressione ai tamburi da matti. Il legame – in termini di songwriting – tra Cohen e Cave è estremamente saldo, ed iniziare il nuovo corso della propria carriera con una canzone di Lenny è senza dubbio di buon auspicio.

Che dire poi dei singhiozzi sguagliati e del piano che aprono Cabin Fever? Poesia pura che Cave ci lancia con una violenza inaudita, come fosse in astinenza, senza il tempo di riflettere sulle parole, quasi in trans si è trascinati barcollando vorticosamente in un limbo di follia tra il chiasso stordito da pub. Nel caos possiamo cogliere il tocco di Bargeld, che si trascina dietro l’esperienza di Zeichnungen des Patienten O. T. ed introduce uno dei temi musicali più applicati dai Bad Seeds nella prima parte di carriera, quei canti marinareschi (nel gergo specifico chanty) – della tradizione marinara americana e britannica – che troviamo esplicitamente in Well Of Misery e più tardi anche in The Weeping Song, per esempio.

Un altro dei canoni della discografia di Cave coi Bad Seeds prende vita in questo disco: la murder ballad di Saint Huck (oltre che manifestare la fissa per i serpenti), racconta le ultime ore di vita del povero Huck, giunto nella tentacolare e tetra città colma di vizi e meschinità (non vi ricorda un minimo le atmosfere cantate da Tom Waits?). Un modo di interpretare la canzone differente rispetto a chi lo ha preceduto.

La bellezza di From Her To Eternity è il fascino senza tempo di un disco che sembra raccontare storie del 1800 nonostante ci siano riferimenti – seppur sparuti – alla società moderna, Cave diventa un narratore di storie, un Omero del XX secolo, più di un Dylan che rasenta la cronaca .

Nick è un racconta storie, un romanziere che pur di non tralasciare un dettaglio allunga la canzone finché non riesce a trasmettere l’idea che ha in mente, con un’emotività ed intensità rara. Ed è quello che succede anche nello stupendo brano di chiusura A Box For Black Paul, una malinconica ballata che – considerato come termina – possiamo annoverare tra le murder, nel quale l’ascoltatore viene rapito dal modo di cantare imperfetto e personale di Cave, trascinato per tutta la durata del brano, senza troppo dar conto alla durata del delirio del tossico.

Lou Reed – Transformer

Lou Reed - Transformer

Ci sono tre tipologie di reazioni che si possono avere pensando a Lou Reed: un profano esclamerebbe “Perfect Day!”; un meno-profano “Transformer!”; una persona più o meno preparata direbbe “il co-fondatore dei Velvet Underground!”; un ignorante direbbe “ghi è Lù Rìd nghééé?!”.

Bene ignorante, è il tuo giorno fortunato! Visto che oggi la pillola scelta dallo staff del sito (cioè me) è Transformer – ovvero l’album decisamente più commerciale e celebre di Lou Reed.

In questo caso è coadiuvato dal suo prezioso amico David Bowie – vero e proprio tuttofare in quegli anni – che fa da produttore e presta la propria voce come corista. Il Duca Bianco attuerà in questo caso una vera e propria opera di beneficenza nei confronti di un suo grande mito, quel Lou Reed che lo aveva fortemente ispirato con i Velvet Underground; qualche anno dopo ripeterà un’operazione simile con Iggy Pop, producendogli The Idiot. Bowie ha avuto la capacità di semplificare le sonorità di entrambi, consentendo di recuperare terreno commerciale dopo dei periodi poco fortunati.

Bando alle ciance e partiamo dall’origine di Transformer, che è un album estremamente orecchiabile e veloce da ascoltare, rivestito di glam e pieno di storie che lo rendono un narratore di favole perverse – Reed appare come l’Omero della New York grottesca di fine anni ‘60 e ‘70 – ma soprattutto segna il distacco netto dai Velvet Underground, creatura wharoliana di successo e influenza imponente.

Come già scritto per Hunky Dory, Transformer appare come un greatest hits, ricco di canzoni importanti, tra le quali spiccano: Perfect Day, Walk on the Wild Side, Satellite of Love e Vicious.

Perfect Day è l’inno alla semplicità per antonomasia. Brano arrangiato da Mick Ronson – chitarrista di Bowie, cardine dei The Spiders From Mars e co-produttore dell’album – è il resoconto di una giornata perfetta trascorsa da una coppia, le interpretazioni a riguardo sono essenzialmente due: la prima vuole che la canzone sia stata scritta da Lou Reed in preda alla nostalgia per i momenti trascorsi assieme ad una sua vecchia squinzia di nome Shelley Albin; l’altro punto di vista vuole che la canzone sia rivolta a Bettye Kronstadt, sua moglie dell’epoca sposata per cercare di stabilizzare la propria vita, matrimonio poi naufragato in un battito di ciglia – probabilmente per il cognome impronunciabile della dolce Bettye – che ha poi ispirato le storie narrateci in Berlin.

Walk on the Wild Side è la cronaca cruda e schietta della NY del periodo, quella Grande Mela della trasgressione più totale che aveva il proprio fulcro nella Factory di cui Reed faceva parte fino ad una manciata di anni prima. Ritroviamo perciò i protagonisti di quel momento come Joe Dallesandro, muso ispiratore di molti film di Andy Wharol (Little Joe, tra lui e Reed non scorreva buon sangue), l’attore Joe Campbell (Sugar Plum Fairy), Holly Woodlawn, Candy Darling e Jackie Curtis (rispettivamente Holly, Candy e Jackie, tre trans che bazzicavano gli ambienti wharoliani). Lou Reed riesce a trasportare con dovizia di particolari l’ascoltatore nella wild side, grazie anche ad un accompagnamento musicale ridotto al minimo con un suono del basso rotondo che carica di maggior significato il testo. Testo censurato dalle radio non tanto per via delle tematiche raccontate (come transessualità, sessualità e tossicodipendenza) bensì per il “doo doo-doo” associato alla frase “And the colored girl say” inteso dai perbenisti dell’epoca come un insulto razzista.

La parte di sassofono è stata eseguita da Ronnie Ross, musicista jazz ed insegnante di sax di Bowie durante la giovinezza (sassofonista anche nel brano di chiusura di Transformer ovvero Goodnight Ladies e nel White Album dei Beatles in Savoy Truffle).

Il leit motiv dell’album resta Andy Warhol, che come per Bowie è figura centrale ed essenziale per la carriera di Lou Reed. Facciamo perciò un salto indietro di 4 anni dalla pubblicazione di Transformer, siamo nel 1968, Valerie Solanas – frequentatrice abituale della Factory e femminista radicale, membro della S.C.U.M. – spara un colpo di pistola a Warhol attentando alla sua vita. Nonostante si pensi il peggio, Warhol sopravvive e da quel giorno ha una cicatrice sulla spalla a ricordargli quanto accaduto. Quella cicatrice viene omaggiata da Lou Reed in Andy’s Chest.

Anche per il brano di apertura – Vicious – c’è un simpatico aneddoto da riportare, nel quale Warhol mette il suo zampino rivolgendosi a Reed in questi termini “Hey, sacco di merda, perché non scrivi la canzone su di un violento?”, Luigi Giunco (vero nome di Lou Reed) gli risponde “ma che tipo di violento intendi di grazia?”, ed Andreino gli risponde “Oh, sciocchino, tipo io che ti colpisco con un fiore!”.

Dopo un momentino di imbarazzo, Reed si preoccupa unicamente di riportare fedelmente questa espressione rendendo celebre l’eccentricità di Warhol.

Proseguiamo rapidamente con Satellite of Love che è un brano magnifico, composto durante il periodo dei Velvet Underground anche se in versione più grossolana. Gran parte del merito per la scelta armonica si deve nuovamente al duo Ronson e Bowie che non sono sprovveduti e di musica ne capiscono veramente tanto.

New York Telephone Conversation è una perla di un minuto e mezzo che a mio avviso vale tutto l’album, forse è la canzone che più si avvicina alla musicalità del Bowie di Hunky Dory. Stesso discorso per Goodnight Ladies, una perfetta chiusura retrò che ben si sposa con la varietà sonora espressa in tutto l’album.

Per concludere, la copertina è frutto della capacità fotografica di Mick Rock che ritrae Lou Reed con colori contrastanti che lo fanno somigliare ad un Frankestein panda. In Italia il retro della copertina fu censurata per via di una foto con un tipo che aveva un erezione malcelata dai pantaloni.