David Bowie – Low

David Bowie - Low.jpgPrima di addentrarci nell’inizio della Trilogia si devono smentire dei falsi storici su Low ed in generale sul trittico Berlinese:

1) Definiamo l’appellativo Berlinese perché l’influenza della Berlino divisa è stata decisiva e di grande importanza, ma effettivamente solo Heroes è stato scritto, pensato e registrato a Berlino. Low è stato quasi totalmente registrato allo Château d’Hérouville (come The Idiot);

2) “Ahhh! Se non era per Eno col cazzo che Baui faceva ‘sti dischi, innovatore de sta minchia”. Falso! Bowie si avvicina alle sonorità di Low tramite Station to Station e le consolida in The Idiot, dimostrando una discreta capacità compositiva con Weeping Wall e Subterraneans – paragonabili ai brani nei quali è intervenuto attivamente Eno (Warszawa e Art Decade). L’album a 4 mani di Bowie ed Eno è Heroes, non Low.

3) Il sound tipico della Trilogia Berlinese è merito Eno… Falso! E’ merito di Tony Visconti, che torna a collaborare al 100% in un album di Bowie, capace di contribuire apportando sonorità estreme, desuete e catturando in toto l’essenza dell’idea di Bowie.

Ora, terminato l’angolo Trivia, si può affermare che Low sia il vero azzardo della carriera di Bowie – un album in cui i testi delle canzoni potrebbero essere scritti in un solo A4 per quanto concisi – viene consegnato alla RCA e rischia di essere rigettato perché non contiene hit come per Young Americans e Station to Station. Bowie si impunta e ottiene comunque un successo inaspettato, senza alcuna promozione a supporto – lo stesso Bowie che ancora versava in condizioni psicofisiche pessime non sarebbe stato in grado di difendere un così forte cambio di rotta in pubblico giustificandosi nelle interviste o gironzolando in tour.

Sound and Vision ottiene un grande riscontro come singolo, ma come accaduto con Golden Years, viene interpretata di rado dal vivo (si contano sulle dita di una mano le esecuzioni di entrambi i pezzi) per la difficoltà di Bowie di beccare le tonalità di entrambi i brani che svariano da un greve baritonale ad acuti in poche battute.

Low ricorda Before And After Science in alcune sue parti: nelle variazioni di stile dei brani, così come l’idea che effettivamente trasmette di essere all’ascolto di una radio che cambia frequenza assiduamente. What In The World è un continuo sorpasso vocale tra Bowie e Pop (brano che avrebbe dovuto appartenere a The Idiot), la cupa Always Crashing In The Same Car è l’unico brano del primo lato a non finire sfumato mentre Be My Wife è l’ultima canzone di Low ad avere un testo di senso compiuto. La sensazione che si ha ascoltando il Lato A di Low è quella di essere catapultati in una session già in corso.

Low può essere considerata una colonna sonora magnifica, tanto che Bowie fa recapitare a Nicolas Roeg – regista di L’uomo che cadde sulla Terra – una copia del disco con un biglietto sopra “questa è la colonna sonora che avevo pensato per il nostro film”. A dire il vero solo Subterraneans nasce da quell’intento di proto-soundtrack, il resto è stato scritto ed affinato successivamente, ma l’idea di avere una colonna sonora così evocativa, ambient, meccanica – e a tratti acida – avrebbe sicuramente reso il film ancora più intrigante.

Come per Station to Station la cover presenta un fotogramma da L’uomo che cadde sulla Terra, di Thomas Jerome Newton con uno sfondo saturato in arancione; dal precedente album c’è una transizione musicale evidente che mantiene un lato pop e ne consente la fruibilità, ma i testi vengono disidratati ed asciugati – a tratti annientati – nessuna interpretazione accessoria, solo la necessità di comunicare in musica piuttosto che in parole. Uno scalino intermedio che conduce ad un disco come Heroes nel quale il sound è più affilato, meno pop e più maturo.

Durante il periodo di registrazioni, Bowie per beghe legali deve recarsi a Parigi, questa assenza rappresenta l’occasione adatta per apporre l’impronta creativa Eniana al disco, in un giorno completa Warszawa e la dissonante Art Decade. Seguendo le istruzioni di Bowie: “deve essere un pezzo molto lento contraddistinto da un sentimento di grande emozione, quasi religioso”. Eno sente suonare – ossessivamente – al pianoforte tre note al figlio di Visconti (La Si Do), su questa base compone Warszawa sulla quale Bowie canta delle sillabe – e parole – no-sense ed estremamente evocative, andando a simulare quanto fatto da Wyatt.

Mentre Warszawa si avvicina ad un richiamo dall’Est proveniente dall’altra parte della cortina, Subterraneans è una nenia che a tratti ricorda una preghiera, nello specifico può essere accomunato al kirye eleison di Judee Sill in The Donor.

Ora si parte per Berlino a mixare il tutto e a confezionare Low, questo il titolo deciso da David Bowie per l’undicesimo album della propria carriera, ad indicare la scelta precisa di mantenere il basso profilo, visibile sia nell’immagine di copertina che a livello musicale.

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David Bowie – Station to Station

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Come già scritto qui, lo stato mentale di Bowie in questi anni è discutibile ed esasperato dalla residenza a Los Angeles, una vera e propria Disneyland per tossicodipendenti. Un buco nero che sempre più assorbe energie vitali dello stesso cantante che si rende conto della necessità di staccarsi da un ambiente malato come quello losangelino.

Il 1975 prevede numerose apparizioni televisive volte alla promozione di Young Americans, nelle quali – il più delle volte – vengono rilasciate interviste senza capo né coda, con risposte criptiche o addirittura fuori da ogni logica.

Bowie si sente perseguitato e questo non fa che aggravare le sue dipendenze e problematiche; celebre in tal senso è l’aneddoto raccontato da un giovane Cameron Crowe che interrompe una delle rare interviste a tu per tu con l’artista per consentire a Bowie di accendere momentaneamente un cero come protezione dagli spiriti malvagi nella casa. L’instabilità mentale viene corroborata da Angela Bowie – moglie dell’epoca – che ricevette una telefonata nella quale un David impaurito temeva che un mago e due streghe volessero rubargli dello sperma per un rito di magia nera.

Questa condizione era influenzata dalla dieta ferrea di peperoni, latte, Gitanes e cocaina intrapresa da Bowie. Una dipendenza sviluppatasi per motivi “artistici” a detta dello stesso Duca Bianco, in quanto la cocaina – così come le anfetamine – gli consentiva di rimanere sveglio sino a 6 giorni consecutivi, per documentarsi e assecondare il suo spirito creativo oltre i propri limiti, rendendo possibile la fusione tra realtà e fantasia.

Bowie si presenta con due mezze tracce malconce negli studi di LA, ma la locomotiva è disposta su dei binari solidi, il trio Alomar/Davis/Murray (la sezione ritmica che farà la fortuna di Bowie sino agli anni ’80). A loro venivano affidate idee musicali, brevi indizi sui quali costruire dei modelli armonici insistenti, dissonanti e atipici (come per la title-track), o più funky e ammiccanti come per Stay e Golden Years. Successivamente, lo stesso Bowie tornava con un testo e con un cantato.

Dopo due mesi e mezzo di sessioni, vengono registrati 5 inediti e la cover di Wild is The Wind.

La locomotiva è in partenza ad inizio disco per un viaggio a tutto tondo, in una intro all’apparenza infinita che agisce come un loop sino a che la voce di Bowie al terzo minuto irrompe citando Aleister Crowley “The return of the Thin White Duke, throwing darts in lover’s eyes” “The return of the Thin White Duke making sure white stains”. Un’ introduzione che lascia trasparire quanto detto da Alomar (“Bowie è ciò che legge”), tant’è che questo non è l’unico riferimento presente, Station to Station è un pot-pourrì di citazioni mistiche, culturali e religiose: dal metodo di meditazione del Golden Dawn Tattva (“flashing no colours”) all’effetto Kirlian, la tecnica fotografica con la quale Bowie teneva a immortalare le proprie impronte digitali prima e dopo l’uso della cocaina (“does my face show some kind of glow”); le stazioni intese nella title-track sono quelle delle via crucis e al contempo quelle del viaggio in treno intrapreso tra Europa dell’Est ed Unione Sovietica – nel 1973 – dal cantante; per non parlare del riferimento alla Cabala e all’albero della vita, dove la prima stazione è kether – il tutto ed il nulla – e l’ultima è malkuth – il mondo materiale. Infine “The European Canon” è un richiamo ai canoni presenti nelle antiche scritture buddiste ma anche una previsione e un desiderio, quello di tornare – dopo due anni di esilio forzato – in una scena musicale effervescente e ricca di novità come quella europea, continente ammaliato dalla kosmische musik tedesca.

Cazzo, ho esagerato questa volta e ho tralasciato una miriade di situazioni, ho sforato di brutto, ma prima o poi tornerò sull’argomento. Station to Station è il preludio di quanto è accaduto con Low e Heroes e sulla virata che Bowie compie tornando in Europa per elaborare un nuovo linguaggio musicale.

Termino parlandovi della copertina di Station to Station, proveniente da un fotogramma di L’Uomo Che Cadde Sulla Terra, film del 1975 girato in New Mexico nel quale David recita il ruolo di Thomas Jerome Newton: un alieno che viene corrotto dai vizi umani (una sinossi che fa cagare, ma sto esaurendo lo spazio). Celebre l’interpretazione di Bowie che non si dovette nemmeno sforzare di recitare per apparire allampanato e alieno.

Dimenticavo di dire che il tour promozionale – con cocaina in ogni dove – di Station to Station si avvale del supporto – sia allo sfascio che ai cori – di Iggy Pop, soggetto ad una operazione di recupero dello stesso Bowie… e se in quelle condizioni ti metti a salvare un altro, immaginate quanto a fondo si trovasse il tendineo Iggy. Ma di questo ne riparliamo fra qualche giorno.