Come avrete inteso dalla scorsa settimana, si ritorna alla regolarità (ci si prova almeno) dopo una lunga ed imperdonabile assenza. Per questo motivo ho scelto un ciclo dedicato alla musica italiana, per dimostrarvi che nell’ammanto di silenzio calato in questo spazio digitale, risiede uno studio volto a regalarvi piccole perle di rara bellezza.
Ho il piacere di introdurvi a un disco al quale sono molto legato, che ha poco di nostro all’apparenza. C’è una magia che non è propria del nostro territorio in Dialoghi del Presente, un misticismo che non consente di collocare facilmente questo disco in un arco temporale definito.
Nomen Omen, Cilio rende fluidi questi Dialoghi, come se appartenessero all’adesso, al prima e al dopo. Suoni troppo puliti ed elaborati per sembrare antichi, ma con un riverbero che li rende distanti in un gioco misurato sapientemente da Cilio, capace di sospendere il tempo.
Non è facile descrivere qualcosa del genere, sto facendo uno sforzo enorme, non è identificabile con musica progressiva, da camera, classica. Le composizioni di Cilio riunite in Dialoghi del Presente sono qualcosa di oltre. Per aiutarvi, se dovessi azzardare dei parallelismi direi che il Primo Quadro ha un sentore di Satie mentre nel Quarto Quadro (dove affiora anche un ritmo percussivo fortemente partenopeo) il rimando è alla Sagra della Primavera di Stravinskij.
Paragoni impegnativi. Ma Luciano Cilio regge il confronto, perché capace di mutuare la sospensione temporale da Satie e Stravinskij, con una freschezza e leggerezza invidiabile. Una capacità creativa meravigliosa, che lo stesso Cilio ha preferito negare a questo mondo all’alba dei 33 anni.
C’è qualche accenno di Cage in questo disco, ma Cilio era diverso dal maestro statunitense. Mente curiosa e sperimentatrice, polistrumentista autodidatta incapace di tradurre la musica su pentagramma ma in grado di plasmare le composizioni a orecchio. Viaggia in oriente, apprende i rudimenti del sitar e si immerge a pieno nell’esotismo di sonorità inusitate. Sì, inusitate, come le parole che Umberto Eco era solito usare (quel fetentonte).
Luciano [mi permetto di chiamarlo per nome in quanto quasi mio coetaneo quando se ne è andato ndr], ha battuto terreni musicali differenti rispetto a quanto richiesto dalle masse, invischiandosi con entrambi i piedi nelle sabbie mobili della sperimentazione che lo hanno lentamente risucchiato. Lui che con Alan Sorrenti ha condiviso un’idea musicale progressista – oltre all’anno di nascita e la provenienza – non è stato capito e accettato dai censori ortodossi del movimento e al contempo respinto dall’universo della musica popolare.
Luciano si è arreso a soli 33 anni, perché non era capace di vivere attraverso la sua passione, quella musica maneggiata con sapiente bravura e leggiadria poco comune.
Sarebbe bello onorare la sua memoria con l’ascolto dei Dialoghi, pertanto concedetevi poco meno di mezzora, non resterete delusi. Ad ogni ascolto riscatterete, un pelo di più, la memoria di un enorme artista nostrano.
Con News Of The World c’è un ritorno a sonorità dure, una virata necessaria dopo la morbidezza – definita noiosa dalla critica (sigh!) – che ha caratterizzato A Day At The Races.
Con questo album si compie il definitivo passaggio a band planetaria dei Queen.
“Le cose stanno così, A Day At The Races non ha venduto più di A Night At The Opera e questo è stato un peccato. Non ha venduto meno, semplicemente non ha venduto di più […] Gettando uno sguardo indietro posso capire il perché, anche se usciti dallo studio credevo fosse uno dei lavori più brillanti che avessimo mai creato” ricorda un intristito Roger. Effettivamente per essere il primo lavoro autoprodotto dai Queen, subire critiche del genere può risultare un pelo frustrante, ma la reazione è caparbia.
Il disco si apre con We Will Rock You (May) e a seguire We Are The Champions (Mercury) un “uno-due” degno del miglior Marvin Hagler. Serve aggiungere altro? Praticamente due inni da stadio interplanetari, uno dopo l’altro, assicurano lo status di leggenda ai Queen.
È vero, News Of The World comincia a tirare fuori l’anima un po’ pacchiana di quelli che saranno i Queen degli anni ‘80, con passaggi a vuoto come Fight From The Inside, Sleeping On The Sidewalk o Get Down Make Love, ma il tutto è controbilanciato con delle piccole delizie – come All Dead, All Dead, e Who Needs You – o classiche ballatone alla It’s Late [notate alcuna somiglianza con All God’s People? ndr]. È anche il disco che da più spazio a Deacon e Taylor (con 2 brani a testa), mentre vede leggermente ridotto l’apporto di Mercury.
“In questo album le nostre identità sono venute fuori in maniera differente rispetto i precedenti lavori. […] Roger e John sono stati coinvolti maggiormente, non solo nella composizione, ma anche nell’uso dei vari strumenti. Roger suona la chitarra ritmica nei suoi brani, che ha senso in quanto ha un’idea più concreta del suono che vuole ottenere. John ha suonato la chitarra acustica in Who Needs You, io invece ho suonato le maracas. Mentre non possiamo concederci queste libertà sul palco, in studio ha più senso”, May illustra così la dinamica di come gli equilibri si siano leggermente spostati rispetto al passato.
Per queste ragioni risulta uno dei dischi più spontanei dei Queen, qualità che mancava nei precedenti lavori, molto strutturati.
Ma prima di addentrarci nei pezzi da 90 del disco credo sia necessario ricordare della scaramuccia avvenuta tra Freddie e Sid Vicious, ribattezzato dallo stesso Mercury come Stanley Ferocious.
I Queen registrano News Of The World negli studi Wessex in concomitanza con le registrazioni di Nevermind The Bollocks. Mentre, sovente è capitato che May e Taylor si intrattenessero a discutere di musica con John Lydon, gli incontri con il riottoso Sid sono di tutt’altro tenore.
Taylor lo ricorda come “un imbecille” e come tale si è comportato con i Queen quando entrato nella sala di controllo dello studio interrompe la loro sessione citando la frase di un’intervista rilasciata da Mercury poco tempo addietro “sei già riuscito a portare la danza classica alle masse?”.
Freddie ricorda così quanto accaduto “Lo chiamai Simon Ferocious o qualcosa del genere, e questa cosa non gli è piaciuta proprio. Gli dissi: ‘A te cosa importa?’. Aveva molti segni addosso, al che continuai: ‘Se oggi riuscirai anche a tagliarti con lo specchio, forse domani avrai qualcosa di diverso da guardare’. Lui odiava anche il solo fatto che avessi avuto da ridire. Credo che abbiamo superato bene quel test”.
A detta del roadie dell’epoca, Peter Hince, pare che Freddie abbia preso per il bavero Simon Ferocious e poi lo abbia sbattuto di forza fuori dallo studio.
Una delle risposte a questa diatriba è stata proprio Sheer Heart Attack, un brano scritto in origine per l’omonimo album e lasciato a metà, venato di punk in risposta al movimento crescente nel Regno Unito e alle critiche di coloro soliti accusare i Queen di essere libertini. Il verso “I feel so inarticulate” è una critica non troppo velata alla mancanza di talento delle punk band che hanno invaso il panorama musicale all’epoca.
Andando al succo di News Of The World, vi posso assicurare che We Will Rock You non è stata composta in quel modo grottesco e anacronistico presentatoci in Bohemian Rhapsody. L’idea di We Will Rock You e We Are The Champions vede la luce durante il tour di A Day At The Races, dopo un concerto alla Bingley Hall di Stafford quando dopo un bis – anziché continuare ad applaudire – il pubblico ha cominciato a cantare You’ll Never Walk Alone.
“Eravamo completamente scombussolati e presi alla sprovvista – è stata un’esperienza davvero emozionante, credo che queste cose siano in qualche modo collegate a questo. […] Volevamo far cantare la folla e vederla ondeggiare. È un qualcosa di unico, unificante e positivo” spiega May.
I videoclip di We Will Rock You e Spread Your Wings sono stati girati lo stesso giorno nel giardino della villa di Roger Taylor. Una giornata scorsa tra le riprese, la neve ed i fumi dell’alcool (utilizzato per scaldarsi). Brian per paura che il freddo e la neve potessero danneggiare la Red Special, ha usato una replica per l’occasione. Le clip restano negli annali più per gli occhiali a stella di Freddie che per altro.
L’ultima chicca riguarda la storiella celata dietro il video di We Are The Champions: i Queen hanno intenzione di simulare un live per le riprese della clip, perciò chiamano a raccolta i ragazzi dell’official fan club al New London Theatre Center. I Queen si esibiscono in una versione di We Are The Champions che viene registrata, poi per ringraziare il pubblico della “cortesia”, regalano loro un live intero e un 45 giri del singolo in anteprima nazionale.
La cover dell’album invece è stata illustrata da Frank Kelly Freas, artista sci-fi, ed ispirata ad una sua copertina della rivista Astounding Science del 1953 che ritrae il gigante intelligente con in mano un corpo di un uomo ferito a morte e la didascalia “Per favore papà… lo aggiusteresti?”. Freas ha sostituito il tizio morto con i quattro Queen, visibilmente morti, creando una delle copertine più suggestive tra quelle della discografia queeniana.
Il quinto album in studio è il gemello concettuale di A Night At The Opera. Non solo per i brani che vanno a comporre A Day At The Races, quanto per lo stile musicale e visivo (la copertina è una variante di A Night At The Opera, ed il titolo scelto anche in questo caso ricade su una pellicola dei fratelli Marx).
Freddie lo introduce con queste parole “È nuovo, è leggermente differente, ma suona ancora come un album dei Queen. A Day At The Races è il seguito di A Night At The Opera. Da qui il titolo. Abbiamo imparato molto da A Night At The Opera riguardo le tecniche di studio”.
A Day At The Races è il primo disco per il quale i Queen non si avvalgono dei servigi di Roy Thomas Baker, “questa volta ci è mancata la sua allegria, ha contribuito molto tecnicamente e noi siamo riusciti a capitalizzare”, spiega Taylor.
Per quanto A Night At The Opera risulti più brillante e convulso, è innegabile il fascino esercitato da A Day At The Races, in primis per l’acclarata difficoltà nel differenziarsi dal suo fratello maggiore nonostante il mantra di tutta la band di non ripetere quanto fatto in passato; in seconda battuta per delle piccole perle che rappresentano a mio avviso l’essenza romantica queeniana: You Take My Breath Away, The Millionaire Waltz e Good Old-Fashioned Lover Boy.
“Questa volta avevamo a disposizione solo pochi singoli molto forti. È stata una scelta molto complicata ad essere onesti. Il primo singolo, in particolar modo, è una questione di gusti. Abbiamo optato per Somebody To Love per cominciare” spiega Freddie.
Somebody To Love è un brano a forti tinte gospel/motown influenzato da Aretha Franklin, e in quanto tale affronta tematiche care al gospel. Per quanto in apparenza possa apparire molto semplice ha – come consuetudine per i Queen – una struttura multistrato, composta da una serie numerosa di sovraincisioni, in questo Bohemian Rhapsody ha fatto storia ed è uno standard che troveremo in molti altri brani a venire dei Queen.
Non c’è tanto altro da dire su Somebody To Love oltre che è un brano meraviglioso e che rappresenta uno dei rari casi in cui ai cori partecipa anche il buon John Deacon. Attenzione! Non nella versione in studio o nel videoclip nel quale appare al microfono insieme agli altri tre (lì è solo tutta scena), la sua voce – seppur a volumi bassi – è perfettamente distinguibile in alcuni bootleg del ‘77 (Earls Court è uno di questi, per intenderci il concerto di Freddie in tutina a rombi verde/arancio/bianca), quindi se siete curiosi di associare una voce a quel visino simpatico, ascoltateveli sul tubo.
Ahhh, dimenticavo! Mia Martini ha interpretato la versione italiana di Somebody To Love, Un Uomo per Me con Ivano Fossati ai cori. Sapevatelo!
Come consuetudine il disco è in perfetto equilibrio con quattro tracce composte da May e quattro da Mercury, con la bellissima Drowse di Taylor e You And I di Deacon. A proposito di quest’ultimo, sento la necessità di aprire una parentesi in sua difesa. Non è – e non era – affatto un coglione come la coppia Taylor/May lo ha dipinto, non troppo velatamente, in quella misera rappresentazione cinematografica (tralasciando le motivazioni dietro questa scelta). John Deacon era un cazzuto – taciturno sì – ma cazzuto ingegnere elettronico, oltre ad essere un eccellente bassista e compositore.
In sua difesa interviene Freddie dall’aldilà “You And I è il contributo di John all’album. Le sue canzoni sono belle e migliorano ogni volta. Sono dispiaciuto del fatto che la gente lo identifichi come il tranquillone. Non sottovalutatelo, ha un animo impetuoso sotto quel velo di tranquillità”.
Freddie ha sempre difeso John, non è un mistero che apprezzasse molto la sua vena funk e black da bassista della motown, ne ha sempre riconosciuto il valore artistico e personale e le parole da lui spese qualche riga sopra chiudono ogni tipo di illazione successiva.
A Day At The Races ha regalato una delle canzoni che preferisco in assoluto dei Queen, quella Good Old-Fashioned Lover Boy che vede come seconda voce di Mercury l’ingegnere del suono Mike Stone, una canzone in pieno stile vaudeville a strizzar l’occhio alle atmosfere ricreate con Seaside Rendezvous e Lazing On A Sunday Afternoon, perfettamente pertinenti con lo stile dei fratelli Marx “Good Old-Fashioned Lover Boy è la mia canzone ragtime. Faccio sempre una canzone ragtime. Credo che Loverboy sia più diretta di Seaside Rendezvous. È semplicemente piano e voce con un beat orecchiabile, l’album necessita di un qualcosa di più rilassato”.
Rilassatezza che invece è stata abbandonata nella pomposità di The Millionaire Waltz, un manifesto del sound queeniano, brano sfarzoso dedicato a John Reid.
Una complessità che vive dell’intreccio piano/basso di Mercury e Deacon ed esplode nel coro in multitrack delle chitarre di May “voglio veramente dire che Brian ha fatto un ottimo lavoro alle chitarre in questo brano. Ha spinto l’orchestrazione del suo strumento al limite. Non ho idea di come ci sia riuscito. E John suona veramente un’ottima linea di basso qui. […] Penso davvero che funzioni tutto bene, specialmente dal punto di vista dell’orchestrazione, perché Bri ha veramente usato le chitarre in un modo differente”.
Non voglio tediarvi ulteriormente, mi sono già dilungato più di quanto avessi preventivato, ma aspettate e un altro ne avrete…
c’era una volta il cantapillole dirà, è un’altra pillola comincerà!
Tutto ha inizio da un sogno, o sarebbe più appropriato dire da un incubo a seguito di un’intossicazione alimentare.
È il 1972 e Simon Jeffes si contorce nel letto di un hotel in Francia in preda ai deliri da avvelenamento: “ho avuto un incubo, mi trovavo in un hotel moderno, c’era un occhio elettronico che fissava e scansionava qualsiasi cosa. In una stanza c’era una coppia che scopicchiava ma senza amarsi. In un’altra stanza c’era un musicista che indossa delle cuffie senza ascoltare musica. Nell’altra stanza c’erano persone che interagivano con degli schermi. È stato terribile, un posto squallido”.
Voi direte ma che minchia c’entra tutto questo con i Penguin?
Questo – perlomeno – il pensiero che mi è saettato nel cervello. Considerando la pigrizia delle mie sinapsi, mi sono lanciato in voli pindarici immaginando che il sogno prevedesse la partecipazione di alcuni pinguini intenti a sorseggiare tè e mangiare biscottini in un giardino inglese. No! Mi sbagliavo!
La Penguin Cafè Orchestra è la soluzione sulla quale Jeffes ha puntato per debellare l’inedia ed il torpore delle persone che mano a mano ha incontrato nel sogno. È un baluardo a difesa della passione e degli interessi, è la panacea per il corpo e lo spirito di chi la ascolta. Ora cercate di applicare il sogno di Jeffes ai giorni nostri, è deprecabile dirlo ma forse è meglio che non abbia avuto modo di vedere personalmente come tutto quello che ha sognato – in un delirio – si sia poi rivelato tremendamente reale a distanza di quarant’anni.
La gente è monitorata 24 ore su 24, la pornografia massiva ha abbrutito le relazioni di coppia ed i mass media (così come i social network) hanno lobotomizzato le menti più deboli. Purtroppo i Penguin non possono essere considerati la cura di questi mali [so che è un discorso razzista ma la maggiorparte della ggente non li conosce, e comunque se li conoscesse non li apprezzerebbe ndr], nei quali veniamo intrappolati a giro tutti quanti. Ma di sicuro con la loro musica sono in grado di creare una zona franca che annulla ogni sortilegio moderno.
Un’oasi di benessere, una SPA depurativa contro il logorio della vita moderna… perché è inutile negarlo, una volta partiti il violoncello e la viola in Penguin Cafe Single non si può fare altro che ascoltare e concentrarsi sulla bellezza della musica.
Music From The Penguin Cafè oltre a rappresentare l’esordio dell’ensemble un po’ stramba, resta un’eccezione discografica, difatti in Zopf: In A Sydney Motel e Zopf: Coronation possiamo apprezzare prima le doti canore di Simon Jeffes e poi di Emily Young nelle uniche composizioni – nell’intera discografia dei Penguin – a prevedere la voce. Emily è l’autrice della copertina nonché compagna di Simon Jeffes e madre di Arthur Jeffes (per intenderci colui che sta portando avanti i Penguin dopo la prematura scomparsa di Simon). Inoltre voci del settore suppongono possa essere stata la musa ispiratrice di Syd Barrett per See Emily Play, ma prendetela molto con le pinze quest’informazione.
Se dovessi trovare l’aggettivo più appropriato per descrivere questo disco, direi: poetico e disorientante. Una miscela di musica contemporanea e barocca, ben espressa dal piano elettrico di Steve Nye a simulare il clavicembalo che gioca meravigliosamente con la chitarra di Jeffes, e gli archi di Liebmann e Wright a dare corpo alle composizioni. In un disco che trova il proprio compimento dopo 3 anni, sotto l’egida di un interessatissimo Brian Eno in veste di produttore esecutivo.
Cantava Antoine nel 1967, anticipando di 11 anni quanto sarebbe successo durante un tour europeo dei Suicide in apertura ai Clash.
Ma perché? Perché c’è questo accanimento verso i Suicide? Perché hanno cominciato al CBGB’s e sono finiti in Europa? Perché? Perché? Perché? (da ripetere in maniera disperata alla Antonio Socci durante la lite con Capezzone in una puntata di Excalibur).
Partiamo dal principio, i Suicide forse non li avete mai sentiti (non è che siano mai stati così celebri nello stivale) ci hanno provato gli Afterhours con Milano Circonvallazione Esterna a farceli apprezzare, ma l’effetto è stato tutt’altro che quello desiderato in principio. Il problema è che se non sei Alan Vega non li puoi fare i suoi urletti, soprattutto se ti prendi troppo sul serio (come gli Afterhours da Non è per Sempre in poi).
Vabè, chiudo la polemica tra me e il sottoscritto.
Alan Vega è famoso per il suo modo di cantare e per il suo trasporto nel canto, simula l’amplesso in ogni canzone del disco d’esordio, per questo si becca insulti da morire negli States. Insieme a Martin Rev – il tappeto sonoro vivente dei Suicide – se ne vanno in Europa ad aprire i concerti dei Clash, dove vengono insultati come accade con Richard Benson, culminando poi nel lancio dell’ascia che sfiora Vega a Glasgow. Un grido lancinante si alza in sala “I NANIIIIII!!!”.
Se fosse stato centrato, la band avrebbe dovuto cambiare nome in Homicide.
“Suppongo fossimo più punk dei punk nella folla. Ci odiavano. Allora li ho provocati: ‘Voi teste di cazzo, dovrete passare sopra di noi prima che suoni la vostra band!’ È stato quello il momento in cui l’ascia ha sfiorato la mia testa per un pelo. È stato surreale. Ho pensato di trovarmi in un film 3-D di John Wayne. Ma non c’era nulla di inusuale. In ogni concerto dei Suicide in quel periodo era come trovarsi nella terza guerra mondiale. Ogni sera credevo che sarei stato ucciso.” Alla fine Alan è campato tanto da potersi ritenere un sopravvissuto, purtroppo però ci è stato portato via da un 2016 che non ha lasciato prigionieri.
I Suicide non sono stati capiti – da quel che avrete capito – ospiti fissi del CBGB’s insieme aPatti Smith, Television, Talking Heads e Ramones, vennero ridicolizzati dalla critica salvo poi – come spesso capita – far dietrofront. La vera fortuna per il duo Vega e Rev è stato quello di incontrarsi a SoHo in un laboratorio artistico: “Abbiamo avuto la stessa fortuna che hanno avuto Jagger e Richards quando si incontrarono” ricorderà il cantante, in principio scultore; uno originario di Brooklyn l’altro del Bronx, avevano in comune una povertà che caratterizzava le loro giornate (un po’ come per Patti Smith e Robert Mapplethorpe quando all’inizio della loro carriera si trovarono a New York).
Rev era in possesso di un Wurlitzer da 10 dollari che sputava suoni strani, e Vega improvvisava sopra quelle emissioni sonore; la vera rivoluzione avvenne nel 1975 quando il duo rimediò una drum machine che ne completava la struttura musicale e ne rafforzava la consapevolezza dei propri mezzi. Sarebbero diventati – da lì in poi – i pionieri della no-wave e del sound anni ‘80 fatto di sintetizzatori e merda elettronica (della peggior specie in molti casi).
I primi concerti sono ricordati per le performance dei due con un Alan Vega più body artist che cantante, capace di procurarsi ferite sul volto con la catena ed il coltello che si portava sempre sul palco. Fortemente forgiato dal rock ‘n’ roll di Gene Vincent, Roy Orbison ed Elvis, Vega riesce ad emulare ed evolvere il loro linguaggio musicale.
Suicide è un album meraviglioso, fonte d’ispirazioni per tanti musicisti, tra i quali Bruce Springsteen – che in Frankie Teardrop vede le origini per la sua State Tropperin Nebraska– o gli R.E.M. veri fanatici di Vega e Rev – celebri sono negli anni le loro interpretazioni di Ghost Rider.
Ah dimenticavo… il nome Suicide è un tributo al soprannome del protagonista nell’omonimo fumetto Ghost Rider – Satan Suicide – del quale Rev è un grande ammiratore.
Il terzo disco è la prova del 9 atta a confermare al mondo intero che i Ramones non sono un fuoco di paglia e che fanno sul serio.
Scritto prevalentemente in bus – tra una tappa e l’altra del tour – Rocket to Russia è il disco figlio dell’entusiasmo dell’intera band che odora il successo e la fama come uno squalo percepisce una goccia di sangue nel mare. Questa volta – rispetto ai passati due lavori in studio – il budget è discreto e i Ramones hanno sempre più seguaci, riscuotono consensi tra colleghi e pubblico ma è difficile trovare qualche loro brano nella top charts o in rotazione continua nelle radio. Tommy trova le ragioni di questa poca considerazione radiofonica in una paura insita nell’industria discografica figlia dell’incapacità di trattare con i gruppi punk, oltre alla dote dei Ramones di scrivere brani “schizofrenici e psicotici”. Nonostante tutto, il disco sarà uno dei più venduti della band.
Come già evidente nell’album d’esordio, i Ramoni sono fortemente figli del rock’n’roll anni ‘50, di Elvis e Chuck Berry, ma anche del surf rock anni ‘60 – come dimostrano la strafamosa Surfin’ Bird (cover del brano dei Trashmen, non è un originale dei Ramones come molti pensano) e Rockaway Beach (canzone scritta dal vero e unico viveur delle sabbie e della salsedine Dee Dee e dedicato alla spiaggia di New York) – subiscono anche l’influenza del Bowie trasformista di Ziggy Stardust, di Lou Reed, degli Stoogese degli MC5 (forse il legame con gli ultimi due gruppi risulta più evidente).
Su tutto – per quanto impensabile possa sembrare – aleggia la figura di Andy Warhol, forse colui che anche indirettamente – tramite il suo concetto di minimalismo – ha più influenzato i Ramones e la scena musicale di New York, per non parlare di quello che sarebbe diventato il CBGB.
Come per gli altri album, la scelta dei temi trattati è in parte autobiografica ed in parte pescata nelle malattie mentali – o nelle problematiche giovanili di tutti i giorni – estremizzate e mescolate a del black humor, come in Teenage Lobotomy dove si canta di un ragazzo che dopo una esposizione massiccia al DDT deve essere sottoposto a un intervento di lobotomia (denunciando la pericolosità di questa tecnica ancora utilizzata in quegli anni) o con Sheena Is a Punk Rocker – probabilmente il brano più celebre di Rocket To Russia.
Joey ci racconta la nascita di Sheenacon queste parole “Per me Sheena è stata la prima canzone surf/punk rock/teenage ribelle. Ho combinato Sheena, Regina della giungla [fumetto Britannico del 1937 ndr], con il punk primitivo. Così Sheena è stata portata ai giorni nostri”, Sheena è l’eroina anticonformista, colei che si allontana dallo status di ragazza per bene che frequenta solamente i posti raccomandati, lei va nei club a scatenarsi con il punk.
L’album della consacrazione definitiva dei Ramones coincide con l’addio alla band di Tommy che tornerà a svolgere il ruolo di produttore, garantendo prosperità e lunga vita (insomma… sigh) ai Ramones “Pensavo, ‘cos’è meglio per i Ramones? C’era tanta tensione tra me e Johnny, quindi dovevo cercare di rilasciare tutta questa pressione per consentire alla band di andare avanti. Lo dissi prima a Dee Dee e Joey. Mi dissero ‘Oh no! Non andare! No! Dai! No! Dai! Blablablablabla’, dissi loro che dovevamo assolutamente fare qualcosa perché stavo perdendo la brocca”
Ahhhh, il blocco dello scrittore, il male giunto a noi da epoche lontane, così vile da colpire alle spalle senza preavviso alcuno. Ok superata l’impasse della prima riga, posso continuare diritto come un fuso, barra a babordo fino alla terza riga e così sfruttando i venti dei mari del sud possiamo raggiungere serenamente la quarta riga di questo articolo.
Ora mi sento a posto con la coscienza e ho le mani abbastanza calde per poter scrivere dei Talking Heads, per la seconda volta su Pillole. Facciamo un bel passo indietro rispetto a Remain In Light, cercando di raccontare gli esordi e la nascita della leggenda di Byrne. Una disco emblematico che racchiude l’essenza del CBGB’s e di quanto raccontato negli articoli di questo ciclo, un album che porta sulla bocca di tutti i Talking Heads e la loro strampalata hit Psycho Killer, con quella strofa in un goffo francese (che detto tra noi non ho mai capito il motivo per il quale gli ammerigani e i musicisti d’oltremanica vogliano ogni tanto cimentarsi con l’idioma dei mangiaranocchie quando proprio non ce la possono fare, ma vabbé).
In principio, i Talking Heads – appena trasferiti a New York – vanno senza pensarci due volte da Hilly Krystal – proprietario del CBGB’s – che li provina e propone loro il ruolo di gruppo spalla dei Ramones. Gioia e gaudio!
Da questo punto in poi nasce la forza delle teste parlanti che si fanno le ossa trovando l’alchimia giusta tra funky tarantolato e new-wave, un’idea di musica differente dalla rapidità dei Ramones, dalle guerre tra chitarre soliste di Verlaine e Lloyd dei Television, o dalla solennità di Patti Smith. Byrne trova la formula per una proposta musicale ballabile, estremamente pop e sofisticata nelle sonorità, non scontata nelle liriche.
La gavetta nel CBGB’s da i suoi frutti, non tutti i gruppi in quel periodo nascono con la necessità di salire sul palco – bensì con l’esigenza di entrare in uno studio con canzoni fatte e finite – mentre i Talking Heads hanno affinato negli anni di CBGB’s e dei locali di lowerManatthan il loro timbro riconoscibile. Come ricorda Byrne nello splendido Come Funziona la Musica “All’epoca era inaccettabile che fare un gran disco fosse il massimo che si potesse chiedere ad un artista. Come disse una volta Lou Reed, ‘la gente vuole vedere il corpo’”.
Torniamo però brevemente a Psycho Killer, brano che racconta i pensieri di un killer e capace di penetrare nelle sinapsi con quel martellante giro di basso pronto a scatenare pensieri schizofrenici. Piccola nota di folklore: la canzone – suonata per la prima volta nel Dicembre del 1975 – si credeva fosse ispirata dai crimini commessi da David Berkowitz conosciuto come Son Of Sam, serial killer che ha terrorizzato New York a cavallo tra 1975 e 1977. Anche se, naturalmente è una coincidenza e non c’entra proprio un bel niente.
In ogni caso, Psycho Killer affonda le proprie radici nelle origini della band – in quello zoccolo duro composto da Weymouth, Byrne e Frantz, che all’inizio della loro avventura prendevano il nome di Artistic – dal 1974 al 1977.
Sarà l’unico brano composto dal trio a prendere parte al disco d’esordio. Byrne – come già narrato mesi or sono – assumerà un controllo sull’aspetto produttivo che allenterà poi in Remain In Light per garantire la sopravvivenza del progetto.
Talking Heads ’77 è a mio avviso un disco perfetto per durata e varietà dei brani, rimane un prodotto estremamente fresco confrontato ad un Remain In Light che figura leggermente prolisso e ripetitivo. Ecco, l’impressione che ho è che non sia un disco uscito dagli anni ‘70.
Last pillola riguardo questo disco: è stato prodotto da Tony Bongiovanni, produttore di Rocket to Russia dei Ramones e cugino di Jon Bon Jovi.
I Television hanno lasciato pochissimo materiale ai posteri, ma quel poco che è arrivato è di importanza cruciale; il sound di Marquee Moon donatoci da Tom Verlaine è unico e ha germinato fino ai giorni nostri. Tanti sono cresciuti con la sua chitarra tagliente – per quanto il chitarrista Richard Lloyd dichiari la paternità dello stile -, quei riff isterici e ossessivi, e la sua voce in tutto simile a quella di David Byrne (ma più sognante).
La strada verso il successo è stata veramente lunga e tortuosa: tante attenzioni da parte delle etichette discografiche che non si sono concretizzate, poi Brian Eno giunge – alla fine del 1974 – e produce una demo del disco che però non viene apprezzata da Verlaine “Ci ha registrato in un modo veramente freddo e fragile, senza risonanza. Eravamo orientati verso un suono di chitarra deciso… una specie di espressionismo”.
L’idea c’è, così come l’onestà intellettuale di rifiutare la collaborazione con Eno pur di perseguire il proprio credo musicale; col passare degli anni questo comportamento si avvicinerà più ad una sorta di khomeinismo da parte di Verlaine, di fatto restio a registrare qualcosa di nuovo o muoversi in degli studi di registrazione che magari non era solito frequentare. Questa “inedia” lo porterà ad un rapporto viscerale con Marquee Moon, un cordone ombelicale tuttora difficile da recidere.
Con l’uscita nel 1975 di Richard Hell abbandona – di lì a poco pubblicherà Blank Generation con i The Voidoids – sostituito al basso da Fred Smith (non Fred “Sonic” Smith degli MC5 marito defunto di Patti Smith) la formazione della band può considerarsi definitiva: Billy Ficca alla batteria – con marcata influenza jazz -, Tom Verlaine alla voce e chitarra, Richard Lloyd all’altra chitarra e ai cori. Questi ultimi, sono legati l’un l’altro dall’amore per New York, Baudelaire e Rimbaud (vi ricorda qualcuna per caso?).
Il legame tra Patti Lee e Tom Verlaine è forte, oltre alla condivisione degli interessi e dell’idea musicale, adottano lo stesso fotografo per le immagini di copertina, quel Robert Mapplethorpe miglior amico di Patti Smith.
Si entra in studio nel settembre del 1976, in preparazione alla registrazione dell’album le prove si intensificano (con una media di 5 ore al giorno per sei giorni a settimana), un lavoro certosino – che va oltre i 200 live sostenuti al CBGB durante gli anni – volto ad utilizzare il meno possibile la sala di registrazione.
Tom Verlaine viene considerato un poeta urbano, capace di prendere il testimone della lirica di Lou Reed e di rinfrescarla, a chi però cerca significati e vede sfumature nei suoi testi lo stesso Verlaine risponde che per tanti casi nemmeno lui sa di cosa tratti precisamente una canzone, scritta in un flusso di coscienza assecondando pensieri e sensazioni. Viva la sincerità!
Ritroviamo tutto questo nella splendida e interminabile title-track, un brano che nasce durante le prime esibizioni della band (difatti incluso anche nella demo di Eno) e che – da improvvisazione e cavalcata musicale – si trasforma in canzone vera e propria nel corso degli anni e dei concerti. Gira voce che Richard Hell abbia mollato il basso dei Television perché non in grado di suonare il brano in questione.
I Television sono portatori di una freschezza che nel panorama musicale mancava, freschezza figlia del periodo e del locale nel quale sono nati; meno cervellotici dei Talking Heads ma più colti dei Ramones.Marque Moon risulta uno dei dischi d’esordio più importanti mai concepito, ha tirato su musicisti di due generazioni e per dirla con le parole di Stipe “è un album stupendo, è secondo solo a Horsesdi Patti Smith“.
The Idiot che risuona nel giradischi e La Ballata di Stroszek come ultimo film prima che il destino si compia. Gli ultimi momenti di Ian Curtis sono segnati da Herzog e Iggy Pop, quest ultimo è proprio il ponte che ci ritrascina all’interno della Trilogia Berlinese.
Facciamo un passo indietro al 1979 – ad un anno prima del suicidio di Curtis – l’anno della pubblicazione del grande disco di esordio Unknown Pleasures, a posteriori il più rinomato dei Joy Division per via dell’artwork così minimale.
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L’immagine di Unknown Pleasures è stata fin troppo strumentalizzata da ragazzetti e profani che l’hanno piazzata un po’ ovunque – come la faccia del Che -, pertanto ritengo di dover spiegare brevemente cosa rappresenti la cover del disco. L’immagine deriva da una pubblicazione del 1977L’Enciclopedia Astronomica di Cambridge, all’interno del quale è possibile trovare questa prima rappresentazione grafica delle radiofrequenze ricevute da una pulsar (effettuata nel 1967). L’immagine è stata presa da Peter Saville e riversata in negativo nella forma che tutti noi conosciamo.
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Torniamo al contenuto del disco: il fatto che per Curtis, The Idiot, rappresentasse il disco preferito può lasciar intendere quanto è stata forte l’influenza di Pop e del Bowie di Low, con quelle sonorità claustrofobiche e fortemente cadenzate.
Forse non tutti sanno che durante la prima ondata punk, il nome scelto dai ragazzi mancuniani è stato Warsawa, probabilmente in onore della canzone simbolo di Low, a questo periodo risale la scrittura di alcuni brani come Shadowplay ed Interzone. Cambiando il nome – per evitare confusioni con un’altra band di Londra – cambia anche l’approccio musicale che da punk aggressivo matura dirigendosi verso lidi meno scontati.
Chi conosce la figura di Ian Curtis non può non aver notato i suoi movimenti concitati, le sue danze epilettiche (non mi riferisco alle crisi epilettiche alle quali era soggetto Curtis e oggetto della canzone She’s Lost Control, ma ad una sorta di trance prestazionale nella quale Curtis cadeva facendola sfociare in una danza del derviscio), l’aura di malinconia che avvolgeva la sua persona, un’inquietitudine che ha influito sulle sonorità dei Joy Division e gli ha conferito l’immortalità artistica: “non scrivo di niente in particolare, ciò che scrivo proviene dal subconscio. Lascio l’interpretazione della canzone aperta a seconda di chi sia l’ascoltatore”. Un subconscio fortemente influenzato anche dai Bauhaus e dal loro stile gotico, un ascendente molto forte nonostante il gruppo di Murphy avesse all’attivo solo due singoli (tra i quali Bela Lugosi’s Dead) ed un album in cantiere.
Peter Hook e Bernard Sumner hanno lamentato un sound troppo etereo – in origine – prediligendo una scelta più dura e sferzante, ma con il passare degli anni hanno cambiato opinione dando ragione al lavoro del produttore Martin Hannett – che esalta la pregevolezza dei brani – tributandogli il ruolo di creatore del sound dei Joy Division. Ian Curtis, probabilmente ammaliato dall’idea di Hannett, ha trovato nella versione definitiva di Unknown Pleasures la sua dimensione.
Ecco, c’era da scommetterci che si sarebbe incazzato… tutti lì a puntare il dito e a farglielo notare…
“Come sta Bowie? Dov’è?” “Iggy, anche per il prossimo album ti farai aiutare?”
Meglio distaccarsi un po’, dopo aver condiviso tutto… anche David lo ha capito, il tour di The Idiotè stato vissuto da comprimario: alle tastiere ai margini del palco. E’ stato divertente sì, ma al contempo è probante, inoltre Iggy ha tendenze – diciamo – autodistruttive.
“Quanta droga… mi stava uccidendo” Bowie ci fa capire che non è intenzionato a replicare seguendo Pop per il tour del prossimo disco, anche perché Berlino è un posto sicuramente migliore di L.A., ma anche lì non si scherza mica con l’eroina e Iggy ha modo di continuare con le vecchie abitudini. Lust For Life è il primo album registrato in toto nella capitale tedesca dalla coppia Bowie/Pop che convivono in un appartamentino senza pretese assieme a Coco Schwab (l’assistente di Bowie). Berlino è la città perfetta per poter campare tranquillamente la propria vita, senza assilli e senza dovere di celebrità, concentrandosi sui night club e bevendo come le spugne. Tant’è che Bowie, si fa crescere il baffo alla John Holmes e lascia le pippate di coca per delle sbornie degne di nota che sfociano in un alcolismo preoccupante.
The Idiot è stato un gran successo di pubblico e critica, ma c’è un malumore serpeggiante che sibila sempre più forte… “Iggy questo disco non suona come tuo”, “Dove è finita la carica degli Stooges?”, “Ecco un altro che si è imborghesito”.
“Sì, l’ho capito, grazie per l’aiuto David ma devo cominciare a camminare con le mie gambe”, sicuramente Iggy ha pensato questo e così come un adolescente, comincia a rivoltare le proprie frustrazioni verso il proprio padre artistico (padre della sua seconda vita artistica).
“Bowie era dannatamente veloce, rapido di testa” dice Iggy, “perciò dovevo essere più veloce di lui, altrimenti di chi sarebbe stato l’album?”. Così l’approccio di Iggy cambia radicalmente: le ore passate in studio, le levatacce e le nottate si fanno sempre più frequenti per approfittare dell’assenza di Bowie. Beh rispetto a The Idiot la differenza è sostanziale.
L’album ha un sound live che ben si discosta dal predecessore, anche in questo caso le sessioni di registrazione sono state molto rapide e con una amalgama diversa rispetto a The Idiot, dove non accadde mai di trovare più musicisti intenti a suonare allo stesso momento.
Ci sono sempre dei bei input di Bowie eh, ma qui Iggy calca la mano in maniera più decisa e in alcuni casi fa di testa propria ritornando alle proprie origini, più per tigna che per senso di ragione.
Si comincia con la title-track, con un testo improvvisato da Pop e riferimenti ai vizi che hanno contraddistinto la sua vita recente, come a dire “mi rendo conto che sto esagerando”, ma è Bowie che ha l’epifania ispirandosi ad una composizione musicale in codice Morse ascoltata alla televisione, della quale riproduce il ritmo all’ukulele. La canzone viene modellata su di un ritmo ipnotico e travolgente dai fratelli Sales e dalle chitarre di Gardiner e Alomar – che avevano già accompagnato il tour di The Idiot assieme a Bowie.
Ed è proprio nel lasso di tempo che separa la fine del tour al rientro negli studi il periodo nel quale Gardiner pensa il riff di The Passenger. Basta poco a Iggy per trovare le parole adatte da cucire a quel giro di chitarra, alcuni sostengono che la canzone descrivesse l’attitudine di Bowie di attraversare differenti generi musicali senza padroneggiarne alcuno con dovuta maestria, ma c’è anche chi crede che in The Passenger venga narrata la routine quotidiana di Pop nel prendere la metropolitana berlinese. Certo è che il coro di Bowie è tanto memorabile quanto il riff di Gardiner.
Lust for Life non è solo nella title-track o in The Passenger, certamente sono i brani che più spiccano, ma limitarsi a ciò significherebbe svilire un grande album, diverso da The Idiot ma non meno interessante. La venuta di Lust for Lifenel mercato passò in sordina a seguito della morte di Elvis Presley – artista di punta della RCA – che avrebbe oscurato qualsiasi altra pubblicazione.
Sfortunamente, in quanto questo secondo album contiene brani simbolo di Pop, poi passati al successo internazionale per una riscoperta tardiva.