Tom Jobim & Elis Regina – Elis & Tom

Dopo un lungo peregrinare siamo giunti a uno dei capisaldi della musica popolare brasiliana. Un disco – reso celebre dal brano di apertura, l’inno della beleza e alegria brasiliana, Águas de Março – che ha stabilito lo standard sofisticato di riferimento per molte delle cantanti di jazz contemporanee [lo stesso che a molti fa esclamare: “Madonna che coglioni la musica brasiliana” ndr]. 

Eh già… non me la sento di darvi completamente torto, ma è anche giusto provare ad ampliare i propri orizzonti ed esplorare situazioni non propriamente ideali: in fondo se venisse a decadere questa condizione, si resterebbe ancorati nel proprio cantuccio a cantare ad libitum le canzoni del cuore per tutta la vita.
Per carità, legittima anche questa scelta, ma che due palle eh! 

Elis & Tom è stato registrato negli Stati Uniti, lo scenario di riferimento è il seguente: Tom Jobim è l’artista di punta del Brasile, musicista acclamato a livello internazionale che vanta notevoli collaborazioni con Frank Sinatra e Stan GetzElis Regina è in una condizione non invidiabile, cantante di punta e simbolo di un regime che esalta i propri diamanti, succube della situazione fuori dal confine nazionale non gode di grande fama.
In tal senso, per premiare i 10 anni di carriera, l’etichetta della Regina gioca la carta Jobim nel tentativo di farla sfondare nel mercato internazionale. Viene predisposta, pertanto, la registrazione del disco in Los Angeles, anche se l’album in questione non avrà una beneamata cippa di americano. 

Le due personalità cozzano di brutto e nessuno arretra dinanzi l’altro, questo clima di frizione non filtra più di tanto dalla registrazione. Il duetto brioso e giocoso in Águas de Março o la dolcezza in Soneto De Separação sono per nulla presaghi di malumore.  

Durante le registrazioni sono trapelate le seguenti parole – discretamente diplomatiche – esternate dalla Regina:  

“è una merda [in riferimento al disco ndr], non c’è niente di buono, Tom è uno stronzo, un noioso, se la prende sempre con l’attrezzatura elettronica, dice che sono stonati e sintonizzati non so cosa, fa così, e la registrazione è scadente, sembra bossa-nova.” 

Ai suoi occhi, Jobim, aveva compiuto la tediosa metamorfosi da idolo a essere umano. Passati gli scazzi iniziali – e vedendo il materiale venuto alla luce – la situazione tra i due è andata migliorando, ed è lo stesso Jobim che ricorda la professionalità di Elis Regina con le seguenti parole  

“Conosce il mio repertorio meglio di me. Elis ricordava arrangiamenti che avevo già dimenticato. Qualcosa di incredibile.” 

Aldilà di Águas de Março (che giustificherebbe da sola la presenza di un disco del genere in codesto spazio digitale) ci sono altri grandissimi brani in scaletta che valgono di brutto il prezzo del biglietto: come Chovendo Na Roseira deliziosa bossa disorientante per il tempo dispari (che ad esempio troviamo sovente nella discografia degli Elii [sì, lo so, li tiro sempre in mezzo ndr]); o la magnetica Fotografia, istantanea minimale scritta da Jobim nel 1959

Fotografia è intimità pura, delicatezza disarmante, moderna ancora oggi, probabilmente il momento più alto del disco; in grado di descrivere un amore in procinto di esplodere durante un tramonto al mare. 

Águas de Março invece è concepita appena due anni prima della pubblicazione di Elis & Tom ma il successo lo ottiene grazie all’interpretazione di Elis Regina, che la veste con la sua voce e personalità.
Ispirata dalle piogge che solitamente affliggono Rio de Janeiro nel mese di marzo, è nata in un momento in cui Jobim voleva riposare, ma disturbato dal tarlo della creatività la mette nero su bianco in appena un pomeriggio. La canzone si presenta con una progressione discendente, riuscendo nell’obiettivo di rappresentare la forza del torrente che travolge tutto. 

Il testo si adegua all’impeto della musica, alternando picchi di positività a depressione, iperboli ed antitesi, tra grande ispirazione dalla poesia di Olavo Bilac Il cacciatore di smeraldi  (“Foi em março, ao findar da chuva, quase à entrada / do outono, quando a terra em sede requeimada / bebera longamente as águas da estação […]“), e in parte da un ponto de macumba di J.B. de Carvalho che comincia proprio con la linea “É pau, é pedra, é seixo miúdo, roda a baiana por cima de tudo” e per il quale Jobim è stato accusato di plagio. 

Naturalmente l’accusa di plagio è decaduta e passata in giudicato come citazione colta da parte di Jobim, resta però il fatto che mi sono dilungato eccessivamente e di questo disco ho scritto poco o nulla, anche se – per quante informazioni si trovano in giro – rispetto a tanti altri dischi di cui abbiamo discusso ci sia molto meno da scrivere. Va bè, il tempo a nostra disposizione si sta esaurendo, anche se il tempo lo decido io potrei plasmarlo in base alle mie esigenze, ma fottesega per dirla alla francese. 

Ascoltatevi il disco e perdetevi nei fraseggi di Elis & Tom, vi assicuro che lo ascolterete più e più volte senza esservene resi conto: vi entrerà sotto pelle. Non è una minaccia. 

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Vinícius de Moraes & Tom Jobim – Orfeu da Conceição

Che Vinícius fosse un dritto lo si sapeva, ma quanti di voi sono a conoscenza di come è avvenuto il suo ingresso nel mondo della musica e del suo primo 33 giri?  

Mi riferisco al disco che ha concretizzato l’incontro artistico con Tom Jobim, in una fusione tra mitologia (il mito di Orfeo e Euridice attualizzato nelle favelas), poesia e al sapore di Stravinskij

Troppi input. Cerchiamo di mettere un po’ d’ordine. 

L’Orfeo può essere definito il Manifesto che racchiude le pietre angolari della poetica di Vinícius: la fede cieca nell’Amore, l’ossessione per la Morte. L’Orfeo è figlio di una gestazione dilatata, oltre dieci anni di pensieri sviluppati durante periodi spesi tra il giornalismo e l’ambasciata brasiliana a Parigi, che vedono la luce con la pubblicazione dei testi nel 1954

Nel 1956 viene presentato a Vinícius il giovane pianista Antonio Carlos Jobim (detto Tom). Da questa unione nasce uno dei sodalizi più poetici della storia musicale. Jobim musica l’Orfeu da Conceição (con la compartecipazione del chitarrista Luiz Bonfá e l’intervento di Roberto Paiva alla voce per Um Nome de Mulher) agevolando con idee brillanti la realizzazione dell’omonima pièce teatrale e segnando l’ingresso di Vinícius nel mondo musicale. 

“Credo che la gente possa considerarlo un matrimonio ideale. Vinícius mi aveva insegnato tante cose. Era un uomo di grande cultura, poliglotta senza ostentazione, meraviglioso poeta, fine scrittore. Inoltre, anima generosissima. Passavamo giornate insieme, io al pianoforte, lui col suo pezzo di carta. […] Educato a Oxford, diplomatico a Parigi, triste a Strasburgo, vissuto a Los Angeles dove aveva scritto Pátria Minha. Intravedeva sempre il lato umano delle cose […]. Solo un individuo come Vinícius, che conosceva la musica della parola, lui che avrebbe potuto essere un professionista, poteva comporre i testi che ha composto.” 

Jobim descrive con queste parole la relazione artistica con de Moraes, espressioni che trasudano genuina amicizia e grande tenerezza. 

Ordunque, Orfeu da Conceição viene quindi trasposto cinematograficamente con il titolo di Orfeu Negro, vincendo Oscar e Palma d’Oro. Insomma un successone.  

La pellicola ha avuto il pregio di veicolare l’amalgama tra poesia e musica del duo Jobimde Moraes al grandissimo pubblico, facendo ottenere – a questo felice tentativo di commistione artistica – un tripudio discografico e altrettanta rilevanza internazionale. Ma, ancora di più, si impone con passo felpato nella storia della musica, visto che il sodalizio getta le basi della Bossa Nova.  

Non è un caso che nella meravigliosa Overture, si possano ascoltare dei marcati passaggi di A Felicidade, uno dei temi più celebri della Bossa, che troverà la sua versione definitiva nel film Orfeu Negro (poesia malinconica ripresa dai principali interpreti della scena brasiliana, tra i quali anche Tom Zé in Estudando o Samba).  

Parole che fluttuano nell’aria con meravigliosa leggiadria 

Tristeza não tem fim 
Felicidade sim… 
A felicidade è como a pluma 
Que o vento vai levando pelo ar 
Voa tão leve 
Mas tem a vida breve 
Precisa que haja vento sem parar
 

Tristezza non ha fine 
Felicità, sì 
La felicità è come la piuma 
Che il vento porta per l’aria 
Vola lieve 
Ma ha una vita breve 
Bisogna che il vento non cada 

Warren Zevon – Warren Zevon

Warren Zevon - Warren Zevon.jpg

Cavolo, Warren Zevon… ma perché la gente non lo conosce quasi affatto? Cioè già il nome dovrebbe essere come miele per le mosche: uorrenzivon. È ‘na cosa grande, cazzo!

Il suo omonimo album è anche il secondo ed è considerato un secondo inizio, avvenuto all’incirca a 7 anni dal debutto nel mercato discografico dopo l’avventura al Greenwich Village. Per l’occasione Warren prepara l’artiglieria pesante, giusto per menzionare qualche nome pronto ad accompagnarlo: Jackson Browne, Phil Everly, Glenn Frey, David Lindley, Stevie Nicks, Bonnie Raitt, Carl Wilson.

SBAM!

È stato soprannominato l’artista degli artisti, non conosciuto abbastanza dal pubblico ma ammirato da grandi cantautori contemporanei quali Bob Dylan, Jackson Browne, Tom Petty, Bruce Springsteen, Ry Cooder e tanti altri. Deve il suo ritorno alle scene come solista proprio a Jackson Browne che nel 1975 lo presenta durante un proprio concerto come cantautore e migliore amico, interpretando tre brani di Zevon al pubblico: Mohammed’s Radio, Hasted Down The Wind (la preferita in assoluto di Jackson Browne) e la hit Werewolves of London. La risposta degli spettatori convince definitivamente Browne a produrre il secondo disco di Zevon per la Asylum. Fortunatamente questi non sono gli unici brani meritevoli di attenzione, infatti tutto il disco si attesta su livelli eccellenti, come non citare la ballata Frank and Jesse James o il rock alla CCR di Mama Couldn’t Be Persuaded o la scanzonata I’ll Sleep When I’m Dead.

Come già citato in precedenza i brani di Zevon sono stati sempre molto apprezzati dai suoi colleghi, in particolar modo Linda Ronstadt che ha avuto modo di reinterpretare Poor Poor Pitiful Me, Carmelita e Hasted Down The Wind.

La verità è che Zevon piace a tutti perché è il vero e proprio reporter dell’America, colui capace di inquadrare il circostante in una struttura musicale fortemente statunitense – quel rock tipico degli stati del sud (Lynyrd Skynyrd) – nella costruzione compositiva e negli arrangiamenti, pomposa e ritmata tanto da poter apparire anche poco interessante se non si prestasse attenzione ai testi.

Già, i testi sono magnifici, per questo si può affermare senza troppe remore che Warren Zevon è stato uno dei migliori cantautori capace di scrivere delle storie in miniatura per le proprie canzoni, una grande capacità quella di condensare un racconto in brani dalla durata accettabile. Lo dimostra Desperados Under The Eaves, un capolavoro che chiude il disco con la descrizione dell’alcoolismo che sboccia nel narratore – alcoolismo che comincia proprio in quel periodo a radicarsi in Zevon e per questo definita dallo stesso come una delle sue canzoni più personali – e della frustrazione nel vivere in una città come Los Angeles.

La canzone appare circolare, si apre con Zevon seduto nella stanza del suo hotel e si sviluppa sui pensieri dello stesso – dalla dipendenza all’alcool, passando per la solitudine sino alla sensazione di una vita fuori luogo in California – per tornare in maniera cinematografica sul letto nel quale versa Zevon catturato dal rumore del condizionatore; proprio in quel “mmm” prolungato – che va a simulare l’onomatopea del ronzio – esplode l’ “humming“* di Zevon in un trionfo solenne di archi che accompagna l’ascoltatore sino a fine canzone, al grido prolungato di “Look away down Gower Avenue, Look away“, lasciando intendere che Zevon stia guardando oltre, oltre a ogni tipo di problema. Se chiudiamo gli occhi, possiamo ritrovare in questa canzone i fantasmi di Young affrontati in Tonight’s The Night.

*canticchiare a bocca chiusa

Iggy Pop – Lust For Life

Iggy Pop - Lust For Life.jpgEcco, c’era da scommetterci che si sarebbe incazzato… tutti lì a puntare il dito e a farglielo notare…

“Come sta Bowie? Dov’è?” “Iggy, anche per il prossimo album ti farai aiutare?”

Meglio distaccarsi un po’, dopo aver condiviso tutto… anche David lo ha capito, il tour di The Idiot è stato vissuto da comprimario: alle tastiere ai margini del palco. E’ stato divertente sì, ma al contempo è probante, inoltre Iggy ha tendenze – diciamo – autodistruttive.

“Quanta droga… mi stava uccidendo” Bowie ci fa capire che non è intenzionato a replicare seguendo Pop per il tour del prossimo disco, anche perché Berlino è un posto sicuramente migliore di L.A., ma anche lì non si scherza mica con l’eroina e Iggy ha modo di continuare con le vecchie abitudini. Lust For Life è il primo album registrato in toto nella capitale tedesca dalla coppia Bowie/Pop che convivono in un appartamentino senza pretese assieme a Coco Schwab (l’assistente di Bowie). Berlino è la città perfetta per poter campare tranquillamente la propria vita, senza assilli e senza dovere di celebrità, concentrandosi sui night club e bevendo come le spugne. Tant’è che Bowie, si fa crescere il baffo alla John Holmes e lascia le pippate di coca per delle sbornie degne di nota che sfociano in un alcolismo preoccupante.

The Idiot è stato un gran successo di pubblico e critica, ma c’è un malumore serpeggiante che sibila sempre più forte… “Iggy questo disco non suona come tuo”, “Dove è finita la carica degli Stooges?”, “Ecco un altro che si è imborghesito”.

“Sì, l’ho capito, grazie per l’aiuto David ma devo cominciare a camminare con le mie gambe”, sicuramente Iggy ha pensato questo e così come un adolescente, comincia a rivoltare le proprie frustrazioni verso il proprio padre artistico (padre della sua seconda vita artistica).

Bowie era dannatamente veloce, rapido di testa” dice Iggy, “perciò dovevo essere più veloce di lui, altrimenti di chi sarebbe stato l’album?”. Così l’approccio di Iggy cambia radicalmente: le ore passate in studio, le levatacce e le nottate si fanno sempre più frequenti per approfittare dell’assenza di Bowie. Beh rispetto a The Idiot la differenza è sostanziale.

L’album ha un sound live che ben si discosta dal predecessore, anche in questo caso le sessioni di registrazione sono state molto rapide e con una amalgama diversa rispetto a The Idiot, dove non accadde mai di trovare più musicisti intenti a suonare allo stesso momento.

Ci sono sempre dei bei input di Bowie eh, ma qui Iggy calca la mano in maniera più decisa e in alcuni casi fa di testa propria ritornando alle proprie origini, più per tigna che per senso di ragione.

Si comincia con la title-track, con un testo improvvisato da Pop e riferimenti ai vizi che hanno contraddistinto la sua vita recente, come a dire “mi rendo conto che sto esagerando”, ma è Bowie che ha l’epifania ispirandosi ad una composizione musicale in codice Morse ascoltata alla televisione, della quale riproduce il ritmo all’ukulele. La canzone viene modellata su di un ritmo ipnotico e travolgente dai fratelli Sales e dalle chitarre di Gardiner e Alomar – che avevano già accompagnato il tour di The Idiot assieme a Bowie.

Ed è proprio nel lasso di tempo che separa la fine del tour al rientro negli studi il periodo nel quale Gardiner pensa il riff di The Passenger. Basta poco a Iggy per trovare le parole adatte da cucire a quel giro di chitarra, alcuni sostengono che la canzone descrivesse l’attitudine di Bowie di attraversare differenti generi musicali senza padroneggiarne alcuno con dovuta maestria, ma c’è anche chi crede che in The Passenger venga narrata la routine quotidiana di Pop nel prendere la metropolitana berlinese. Certo è che il coro di Bowie è tanto memorabile quanto il riff di Gardiner.

Lust for Life non è solo nella title-track o in The Passenger, certamente sono i brani che più spiccano, ma limitarsi a ciò significherebbe svilire un grande album, diverso da The Idiot ma non meno interessante. La venuta di Lust for Life nel mercato passò in sordina a seguito della morte di Elvis Presley – artista di punta della RCA – che avrebbe oscurato qualsiasi altra pubblicazione.

Sfortunamente, in quanto questo secondo album contiene brani simbolo di Pop, poi passati al successo internazionale per una riscoperta tardiva.

David Bowie – Station to Station

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Come già scritto qui, lo stato mentale di Bowie in questi anni è discutibile ed esasperato dalla residenza a Los Angeles, una vera e propria Disneyland per tossicodipendenti. Un buco nero che sempre più assorbe energie vitali dello stesso cantante che si rende conto della necessità di staccarsi da un ambiente malato come quello losangelino.

Il 1975 prevede numerose apparizioni televisive volte alla promozione di Young Americans, nelle quali – il più delle volte – vengono rilasciate interviste senza capo né coda, con risposte criptiche o addirittura fuori da ogni logica.

Bowie si sente perseguitato e questo non fa che aggravare le sue dipendenze e problematiche; celebre in tal senso è l’aneddoto raccontato da un giovane Cameron Crowe che interrompe una delle rare interviste a tu per tu con l’artista per consentire a Bowie di accendere momentaneamente un cero come protezione dagli spiriti malvagi nella casa. L’instabilità mentale viene corroborata da Angela Bowie – moglie dell’epoca – che ricevette una telefonata nella quale un David impaurito temeva che un mago e due streghe volessero rubargli dello sperma per un rito di magia nera.

Questa condizione era influenzata dalla dieta ferrea di peperoni, latte, Gitanes e cocaina intrapresa da Bowie. Una dipendenza sviluppatasi per motivi “artistici” a detta dello stesso Duca Bianco, in quanto la cocaina – così come le anfetamine – gli consentiva di rimanere sveglio sino a 6 giorni consecutivi, per documentarsi e assecondare il suo spirito creativo oltre i propri limiti, rendendo possibile la fusione tra realtà e fantasia.

Bowie si presenta con due mezze tracce malconce negli studi di LA, ma la locomotiva è disposta su dei binari solidi, il trio Alomar/Davis/Murray (la sezione ritmica che farà la fortuna di Bowie sino agli anni ’80). A loro venivano affidate idee musicali, brevi indizi sui quali costruire dei modelli armonici insistenti, dissonanti e atipici (come per la title-track), o più funky e ammiccanti come per Stay e Golden Years. Successivamente, lo stesso Bowie tornava con un testo e con un cantato.

Dopo due mesi e mezzo di sessioni, vengono registrati 5 inediti e la cover di Wild is The Wind.

La locomotiva è in partenza ad inizio disco per un viaggio a tutto tondo, in una intro all’apparenza infinita che agisce come un loop sino a che la voce di Bowie al terzo minuto irrompe citando Aleister Crowley “The return of the Thin White Duke, throwing darts in lover’s eyes” “The return of the Thin White Duke making sure white stains”. Un’ introduzione che lascia trasparire quanto detto da Alomar (“Bowie è ciò che legge”), tant’è che questo non è l’unico riferimento presente, Station to Station è un pot-pourrì di citazioni mistiche, culturali e religiose: dal metodo di meditazione del Golden Dawn Tattva (“flashing no colours”) all’effetto Kirlian, la tecnica fotografica con la quale Bowie teneva a immortalare le proprie impronte digitali prima e dopo l’uso della cocaina (“does my face show some kind of glow”); le stazioni intese nella title-track sono quelle delle via crucis e al contempo quelle del viaggio in treno intrapreso tra Europa dell’Est ed Unione Sovietica – nel 1973 – dal cantante; per non parlare del riferimento alla Cabala e all’albero della vita, dove la prima stazione è kether – il tutto ed il nulla – e l’ultima è malkuth – il mondo materiale. Infine “The European Canon” è un richiamo ai canoni presenti nelle antiche scritture buddiste ma anche una previsione e un desiderio, quello di tornare – dopo due anni di esilio forzato – in una scena musicale effervescente e ricca di novità come quella europea, continente ammaliato dalla kosmische musik tedesca.

Cazzo, ho esagerato questa volta e ho tralasciato una miriade di situazioni, ho sforato di brutto, ma prima o poi tornerò sull’argomento. Station to Station è il preludio di quanto è accaduto con Low e Heroes e sulla virata che Bowie compie tornando in Europa per elaborare un nuovo linguaggio musicale.

Termino parlandovi della copertina di Station to Station, proveniente da un fotogramma di L’Uomo Che Cadde Sulla Terra, film del 1975 girato in New Mexico nel quale David recita il ruolo di Thomas Jerome Newton: un alieno che viene corrotto dai vizi umani (una sinossi che fa cagare, ma sto esaurendo lo spazio). Celebre l’interpretazione di Bowie che non si dovette nemmeno sforzare di recitare per apparire allampanato e alieno.

Dimenticavo di dire che il tour promozionale – con cocaina in ogni dove – di Station to Station si avvale del supporto – sia allo sfascio che ai cori – di Iggy Pop, soggetto ad una operazione di recupero dello stesso Bowie… e se in quelle condizioni ti metti a salvare un altro, immaginate quanto a fondo si trovasse il tendineo Iggy. Ma di questo ne riparliamo fra qualche giorno.

La nascita del Duca Bianco e la Trilogia Berlinese

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Eurospin di Los Angeles1975

Scena abituale alla cassa:

“Ehilà, mi scusi?! Ehi! Prego, è il suo turno”

Immaginate il nastro che fa scorrere un sacchetto di peperoni verdi, un altro di peperoni rossi, qualche bottiglia di latte intero ed una stecca di Gitanes.

BIP BIP BIP BIP

“Fanno 29 dollari e 70 cent”.

Un tizio di poco più di 40 kg sulla soglia dei 30 anni, con dei fulgidi capelli rossi tirati all’indietro, estrae il portafoglio, paga e se ne torna a casa. Appoggia la busta della spesa sul tavolo, prepara una striscia e tira su con precisione tutt’altro che chirurgica.

C’è del romanzo in questo breve incipit – nel senso che il protagonista della nostra storia vive da recluso nella sua villa di Bel Air e non la lascia così facilmente per far spesa all’Eurospin – ma che comunque lascia intendere su quali basi (non) fosse stato ragionato Station to Station, all’apparenza uno dei dischi più incomprensibili di Bowie che è pronto ad abbandonare il – “così-definito da lui” – plastic-soul di Young Americans, dirottando ancora una volta il proprio stile musicale verso lidi a lui non proprio familiari.

Ah bhé, ne da di grattacapi David in quel periodo, ci sono alcune voci torbide – che cominciano a girare con una certa insistenza – si dice che sia rimasto ammaliato dalla dottrina nazista e che subisca una forte ascendenza verso la magia nera. Voci che assumono una consistenza in questi anni quando comincia uno dei periodi più gagliardi della storia della musica contemporanea. Station to Station, è prodromo della Trilogia Berlinese Bowiana. Come per la Trilogia Oscura di Young, alla base vi è un forte disagio ed un abuso di sostanze psicotrope, alle quali vanno aggiunte l’esuberanza e lo stato di insanità mentale nella quale versa Bowie dopo la morte di Ziggy Stardust (celebrata nel concerto all’Hammersmith Odeon del 1973).

L’immedesimazione nell’alter-ego alieno ha grandi ripercussioni su Bowie, che si trova in una condizione psicofisica più che discutibile; l’assenza di una forte personalità alla fonte – dietro la creazione di Ziggy – ha condotto Bowie ad una follia alimentata dalla propria sete di conoscenza (da fagogitatore di letture quale era).

Come anni dopo Carlos Alomar – il chitarrista che lo stesso Bowie assunse da Station to Station fino al 1984 – ha tenuto a sottolineare: “David era ciò che leggeva in quel preciso momento”, e in quel momento i suoi testi preferiti spaziavano dal signor Crowley al signor Goebbels, libri che attecchiscono fertilmente su una mente debole e dai quali è difficile cogliere sfumature se letti in condizioni alterate.

Prende vita così il Thin White Duke: un individuo algido e distinto, un gerarca nazista privo di sentimenti, all’apparenza superiore e considerato ariano nella sua perfezione.

Il sottile Duca Bianco è diametralmente opposto al glam di Ziggy: si veste in camicia bianca e gilet nero. E’ il mezzo che consente a Bowie di scrivere ed interpretare Station to Station – la sua corazza contro i malefici e le fatture – uno degli album più confusi, dicotomici e simbolici non solo della carriera di Bowie ma del mondo della musica in generale. Le voci sulle simpatie naziste di Bowie – già presenti dai tempi di Oh! You Pretty Things – scorreranno con maggiore insistenza fino a quando lo stesso si troverà costretto a smentire con forza questi rumors.

Dal prossimo articolo ci addentreremo in un labirinto di connessioni tra chi è stato influenzato e chi ha influenzato la Trilogia Berlinese, mi auguro di raccontarvelo nel migliore dei modi.