Sivuca – Sivuca

Citato a più riprese nel corso di questo ciclo di pillole brasiliane, finalmente il principe del forró approda in questo spazio digitale. È anche più sorprendente il fatto che riguardo lui si trovi poco o nulla in giro, e ogni singola riga di questo scritto è stata cavata fuori come sangue dalle rape, d’altronde secondo voi è un caso che mi stia tanto dilungando in questa introduzione senza aver detto nulla di strettamente memorabile? Vi rispondo io: no.  

Ora che ho terminato di disperdere battute a muzzo, vi butto là qualche primizia riguardo al buon Severino Dias de Oliveira, uno dei migliori fisarmonicisti della storia del Brasile. Anzitutto a giudicare dalla copertina di questo eponimo disco, ho sempre creduto che Sivuca fosse un vecchio in età pensionabile già ai tempi di questo album, mentre scopro che – oltre ad aver dato il proprio nome al disco, obbligando a specificare se il soggetto della frase è il disco o l’artista – Sivuca [album] ha visto la luce nel 1973, quando il buon Severino aveva appena 43 anni. 

Per me Sivuca è un personaggio mitologico: sarà perché si trovano pochissime informazioni a riguardo; o forse per quella sua figura mistica e ieratica alla Moondog [sinceramente credevo fosse anche cieco visto che nella maggior parte delle foto disponibili o nelle copertine in cui presenzia lo troviamo con gli occhi chiusi ndr]; o per l’albinismo che lo fa apparire ancora più eccezionale.
Con Moondog condivide anche la città nel quale vive; Severino decide di trasferirsi a New York ove vivrà dal 1964 al 1976, in questo periodo si spenderà come turnista in diversi tour, accompagnando – tra gli altri – Miriam Makeba e Harry Belafonte

Sarà proprio durante la parentesi americana che il disco Sivuca viene inciso, difatti c’è poco o niente di brasiliano negli accrediti del disco, anche le coriste – seppur bravissime e senza alcun accento o inflessione che tradisca la loro provenienza – sono a stelle e strisce.
Il buon Severino si trova a suonare un botto di strumenti e a cantare in alcuni brani, riuscendo ad imprimere comunque un’impronta riconoscibile al disco, che analogamente a Elis & Tom sarà anche stato registrato negli states (tutt’altra costa) ma suona dannatamente ed esclusivamente brasiliano. 

Fatto sta che per raccontarvi di lui ho scelto un album difficile da trovare: non presenzia su Spotify ed è sospeso su YouTube, nel quale fortunatamente è possibile pescare qua e là qualche brano in un collage fai-da-te che funziona sempre (anche se riduce l’esperienza d’ascolto drasticamente). 

Sivuca suona a tratti come un disco di library music, o di colonne sonore per film degli anni ‘50’60 (pescando dai nostri Piero UmilianiPiero PiccioniArmando Trovajoli e compagnia bella), non dimenticando di ammiccare al forró e a quel clima festaiolo come nella combinata Arrastapé Você Abusou – dal sapore di festa di paese – o nella delicatezza di Lament of Berimbau (in cui il suono del berimbau viene riprodotto in modo eccellente dalle corde di nylon della chitarra classica). 

Questo album , che è la vetta artistica raggiunta dal Sivuca solista, è debitore della propria notorietà alla presenza di Ain’t No Sunshine -successone internazionale di Bill Whiters -, una versione con arrangiamento da paura che differisce dall’originale prendendo vita propria. Anche il brano scelto ad apertura del disco non è inedito, Adeus Maria Fulô, composta con Humberto Texeira e registrata nel 1951 (da Miriam Makeba nel 1967 e magistralmente dagli Os Mutantes nel disco raccontato in questo non luogo).  

Ecco questo disco suona tipicamente nordestino, i fisarmonicisti provenienti dalla zona hanno nel sangue l’uso delle armonie con tonalità sottodominanti, per questo motivo sono capaci di costruire melodie desuete ed estranee alla scuola del sud del paese. E Sivuca in quest’arte era un Maestro riconosciuto e certificato. 

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AA.VV. – Tropicália: ou Panis et Circencis

Tupy or not Tupy: that is the question.” 

Il disco di cui raccontiamo oggi ha delle fondamenta antiche, gettate nel lontano 1924, quando Oswald de Andrade scrive il Manifesto da Poesia Pau-Brasil e anticipa di qualche mese la pubblicazione del Primo Manifesto del Surrealismo di André Breton,  nel quale – da brasiliano – esprime il pieno appoggio delle avanguardie europee. Questo pensiero è prodromo del ben più strutturato Manifesto Antropofago, pubblicato nel 1928 e cardine della poetica tropicalista, nel quale de Andrade ha modo di approfondire la consapevolezza del primo modernismo. 

Oswald de Andrade è stato uno dei letterati e poeti di punta del Brasile della prima parte del novecento; ha raccolto nel corso degli anni molti ammiratori, tra i quali Fabrizio De André che ne ha ammirato lo spirito poetico libertario, l’anticonformismo formale e l’umorismo caustico, tanto da citarlo nella Domenica delle Salme come “illustre cugino Andrade”. 

Il Manifesto Antropofago presenta nelle prime battute proprio la domanda shakespeariana “Tupy or not Tupy: that is the question”, giocando sull’assonanza tra “To be” (essere) e “Tupi” una delle principali popolazioni indigene del Brasile pre-coloniale. Ora, i Tupi sono storicamente riconosciuto per il vizietto del cannibalismo rituale ed è la pratica che de Andrade mutua – a livello culturale – citando Shakespeare in inglese ad inizio opera. Il documento è scritto in prosa sullo stile del Rimbaud di Una Stagione all’Inferno, e sprona i brasiliani a ribellarsi al colonialismo culturale, quindi assimilare ciò che di buono viene offerto dalle culture straniere senza subirle, ma masticandole e assimilandole, per renderle proprie. In quest’ottica si pone quanto citato da Caetano Veloso

Il cannibalismo culturale si confà alle idee di Augusto de CamposHélio Oiticica Caetano Veloso, i quali trovano viva corrispondenza nelle parole spese quarant’anni prima da Oswald de Andrade e sono animati da una ferrea volontà di far convergere le culture e la musica di tante società in quella brasiliana. In ambito musicale c’è molta tolleranza verso tutto ciò che è diverso, dimostrando un’apertura mentale a ventaglio che preoccupa non solo la politica di destra ma soprattutto i nazionalisti di sinistra. Non è un caso che Beatles, fado, Pink Floydbossa novaJimi Hendrix, elettronica, sperimentali, confluiscano in un calderone che in apparenza ha poco di ragionevole. 

Caetano Veloso lo riassume così: “Una miscela genuina fra le aspirazioni ridicole degli americanofili, le buone intenzioni naif dei nazionalisti, la tradizionale arretratezza del Brasile e l’avanguardia locale – la nostra materia prima era costituita da qualsiasi cosa appartenesse all’autentica vita culturale del Paese” 

Tale sincretismo musicale fiorisce nell’album collettivo Tropicália: ou Panis et Circencis, al quale partecipano Gilberto Gil e Caetano Veloso (i veri fautori di questo progetto musicale e degli happening ad esso collegati), Os MutantesGal CostaNara LeãoTom Zé. Con questo disco la Leão si emancipa dal movimento della bossa nova col quale era andata in rottura da qualche tempo (definendola a ragione “alienante”) ed interpreta Lindoneia, un ritorno anche alle idee di uno dei primi teorici della bossa nova, quel Sergio Buarque de Hollanda, padre di Chico, solito frequentare casa Leão

Vista l’ingombrante presenza di Caetano Veloso e Gilberto Gil, in Tropicália passa in sordina la presenza del grandissimo Tom Zé con Parque Industrial, che di lì a poco si sarebbe allontanato dal movimento tropicalista, prendendo una strada musicalmente più intrigante e determinata rispetto alla corrida sonora ed eterogenea di ou Panis et Circensis. Certo Veloso Gil offrono un’impronta ben definita e le loro collaborazioni – passate e future – con Gal Costa e gli Os Mutantes, mostrano tutti i loro limiti (la ridondanza e la smaccata autoreferenzialità concettuale) e le virtù (una strepitosa versione di Baby targata CostaVeloso con Os Mutantes ad accompagnare, o la divertente Bat Macumba). 

Panis Et Circencis è forse il picco dell’album, quello che dona un senso compiuto a Tropicália, gli Os Mutantes – con il loro spirito Iê-Iê-Iê – sono il vero collante di questo lavoro e Rita Lee – coi suoi sodali – si lancia in un carosello sonoro schernitore verso una società che applica continue reprimende culturali, e sociali, nei confronti dei giovani brasiliani. Tropicalia: ou Panis et Circencis è una continua onda che alterna passato e futuro, come a evidenziare la volontà di guardare sia al futuro che alle proprie origini, come dimostra la cover di Coração materno (brano del 1951). 

Siccome anche in questo caso sono andato bello lungo, le ultime curiosità che vi sparo riguardano la copertina del disco (ideata da Rubens Gerchman) che appare come un Sgt. Pepper’s dei poveri ma comunque dignitoso. Gilberto Gil è seduto a terra in posa come Oswald de Andrade nella foto scattata per la Semana de Arte Moderna del 1922Tom Zé si è agghindato da colportore (o venditore ambulante), mentre Caetano Veloso regge in mano un ritratto di Nara Leão che non presenzia fisicamente allo scatto [forse si era già rotta le balle del teatrino ndr]. 

Detto ciò, da questo disco discende tanta della musica brasiliana moderna e non solo: è la chiave per comprendere come si sono evolute – e il perché – tante sonorità. Al suo interno troverete anche le origini della Tropicalia di Beck presente in Mutations, o capirete cosa ha indotto David Byrne a ricercare una varietà di suono nei suoi lavori votati alla world music. Insomma ascoltatelo e coglietene tutte le sfumature, perché la dimensione di ou Panis et Circencis è estremamente sfaccettata e ad ogni ascolto avrete qualche nuova considerazione da sviscerare.  

In fondo la musica, così come l’arte, nasce per proporre domande, non risposte. 

Björk – Post

 

Bjork - Post

Sembra discorso sciocco e sottostimato, ma mettersi in testa di fare una cover e realizzarla come Cristo comanda, non è un gioco da ragazzi. Badate bene, non intendo mettersi nei panni di una cover band e scopiazzare nota per nota un brano, la carta carbone non va più di moda. No, no, no, qui si parla di artisti che prendono una canzone e la modellano a propria immagine e somiglianza.

Ecco, tra i tanti meriti di Björk annovero proprio la capacità di rimettere mano al classico di Betty Hutton It’s Oh So Quiet – che per essere del 1951 risulta immensamente più ansiogeno della versione della nostra tappetta islandese preferita –rendendolo immensamente più armonioso ed empatico. E poi diciamocela tutta, quant’è maravilioso lo video de Spike Jonze?

Tanto! Mi rispondo da solo e mi stringo persino la mano.

Diciamo che lo regista ha una discreta bravuzia nell’imprimere su pellicola videoclippi musicali e longometraggi. Ma anche Björka è stata braverrima nello scegliere i registi, visto che il buon Gondry le dirige HyperballadArmy Of MeIsobel…  insomma, va sul sicuro.

Ok, possiamo tornare a scrivere in una lingua comprensibile, che ne dite? [Cristo! Cerco di rompere la quarta parete ma datemi una mano anche voi!]

Passiamo a Post, [buffo come questo post sia su Post… una sorta di Post al quadrato. Ok mi sopprimo] uno tsunami all’epoca, che piazza Björk nella lista delle musicanti più fighe del momento, voluta e bramata da tutti.

“Le persone con le quali ho collaborato sono le stesse che andavo a vedere nei club di Londra. Conoscevo ognuno di loro da molto prima che cominciassimo a lavorare insieme”.

Ordunque, sviscerassimo Post dal punto di vista musicale, diremmo che fotografa perfettamente le sonorità del tempo – ed in questo tributiamo il merito a Howie BTricky (fiamma della Björkina all’epoca dei fatti) e Nelee Hooper [questi ultimi due facenti parte di The Wild Bunch di Bristol] – in alcuni brani apparirebbe imbolsito, in altri tutt’ora snello, fluido e piacevole, ma non stiam qui a dare pareri personali.

Gran parte delle tracce vocali sono state registrate alle Bahamas, presso i Compass Studio, tanto che la barrettiana Cover Me ha avuto una sessione di registrazione all’aperto, sotto il cielo stellato dell’isola caraibica. L’audio trasuda un misticismo molto marcato che non risulta in altri brani di questo album.

Post è stato fortemente influenzato dalla distanza dalla mia casa, in un paese dove ognuno crede che tu sia matto”. Il titolo dell’album è un gioco di parole pensato dalla nostra Björkina, che per Post intende sia la posta (una missiva che manda ai propri cari in Islanda), ma anche un modo per evidenziare che tutti i brani sono stati scritti a Londra, dopo aver salutato la propria patria.

“Quello che ho sempre saputo è che avrei registrato due album e li avrei chiamati Debut e Post. Prima e dopo. […] Ho chiamato il disco Post anche perché nella mia testa volevo mandare indietro in Islanda le canzoni in una lettera. Perché è stato un salto nel vuoto trasferirmi lontana dai miei cari, i miei amici e tutto quello che mi circondava”.

Quel che Post ha lasciato a Björk è una enorme tensione emotiva, culminata nell’aggressione ad una reporter (di cui potete tranquillamente trovare i video sul tubo) ed un tentativo di omicidio con pacco bomba da parte di uno stalker. Situazioni che hanno spinto la nostra a fuggire dalla sua base a Londra.

Quel che Post ha lasciato a noi, è un qualcosa di meraviglioso, dalla copertina spettacolare (foto scattata dal fidanzato dell’epoca Stephane Sednaoui) e dalle tante canzoni da tenere nel cuore e nella mente. Forse Post è l’istantanea più brillante della carriera di Björk.

The Band – Music From Big Pink

The Band - Music from Big Pink

C’erano una volta i The Hawks, una band composta da quattro ragazzi canadesi ed uno statunitense alla batteria. Questi 5 cominciano a suonare forte, talmente tanto che Bob Dylan li vuole nel 1966 come accompagnamento per il tour di Highway 61 Revisited, quello della svolta elettrica dylaniana tanto per intenderci.

Bobby li apprezza talmente tanto che decide di reclutarli anche per il lavoro in studio che prenderà poi la forma di Blonde on Blonde. I The Hawks sono proprio bravi, perciò suonano anche in quello che diventerà successivamente The Basement Tapes (le registrazioni della cantina ndr).

La cantina è quella di una grande villetta dal colore rosa nei pressi di Woodstock nella quale vive in affitto Ricky Danko, la Big Pink, i The Hawks prendono consapevolezza definitivamente dei propri mezzi abbandonano il ruolo del gruppo spalla, cambiano il nome in The Crackers e successivamente in The Band, buttando su quello che secondo me è uno dei must have musicali da avere nel proprio scaffale per capire come si deve mescolare il folk al rock come Cristo comanda.

Il bello è che si ritrovano nella Big Pink per puro piacere personale, per loro stessi e per nessun altro, in una sorta di eremo che li pone nella condizione di registrare un disco ispirato. Un disco frutto del viaggio nell’America tra le monetine ed i mozziconi di sigaretta tirati sul palco durante le esibizioni, un disco frutto della crescita musicale accanto a Dylan. Un disco che è impolverato, un disco che ha creato uno standard.

Il legame con Dylan è molto forte, tanto che originariamente avrebbe dovuto partecipare alle registrazioni (di sua sponte)… i ragazzi declinano gentilmente la proposta nell’ottica di svincolarsi dall’aura di Dylan e cercando di costruire una propria identità ben definita. Nonostante ciò, The Band userà come copertina per il proprio disco di debutto un dipinto di Zimmy (non dimentichiamo che dalla sua penna sono uscite fuori Tears Of Rage, This Wheel’s On Fire e I Shall Be Released).

Uno degli aspetti che mi fa apprezzare The Band è la versatilità dei membri della band [gioco di parole scontato quanto un over in una partita con San Marino ndr], “Siamo in cinque, ma pensiamo come uno solo” ricorda Manuel a tal proposito. Già, ascoltando The Band si ha l’impressione di ascoltare una famiglia che canta in allegria con Danko, Manuel ed il meraviglioso Levon Helm che si alternano al microfono, e Robertson che interviene ogni tanto preferendo però scrivere i testi piuttosto che cantarli.

Il brano più rappresentativo è The Weight, scritto da Robertson e cantato da Helm, forse una delle canzoni che più incarna lo spirito musicale statunitense di quegli anni. Robertson la compone dopo esser passato per gli stati del Tennessee e dell’Arkansas – in quell’area che viene definita bible belt (corrispondente quasi al 100% alla cotton belt) – traendo piena ispirazione da quelle aree rurali, dalle persone, dalla musica del delta del Mississippi, con la voglia di scrivere qualcosa che potesse rientrare a pieno nella sfera musicale di Levon Helm per consentirgli di cantare il brano.

I riferimenti alle persone presenti nella canzone sono perciò veritieri, come ad esempio Crazy Chester che soleva andare in giro con una pistola finta, o young Anna Lee, una delle migliori amiche di Helm, entrambi provenienti dall’Arkansas.

L’anima musicale è quindi ispirata agli stati del sud americani, mentre il testo coglie a piene mani l’idea di surrealismo perpetrata nelle opere di Buñuel, pellicole nelle quali accosta elementi con forte connotazione religiosa senza mantenerne il significato originario: si creano perciò delle situazioni estremamente confuse e difficili da decifrare, ad esempio la Nazareth che viene citata ad inizio canzone non è il luogo dove crebbe Gesù, bensì la città dove vengono fabbricate le chitarre Martin in Pennsylvania. Tutto ciò perché Robertson ha scritto le parti di chitarra con una Martin del 1951.

Leggere la seguente dichiarazione di Robertson può dare la giusta dimensione dell’approccio alla musica e alla vita da parte della Band per antonomasia: “suppongo che tanta gente ci chiamasse la band di Bob Dylan, ma a dir la verità nemmeno lui ci chiamava così. […] l’unico nome che abbiamo, è il nome che i nostri vicini, amici e le persone attorno a noi ci hanno dato. Semplicemente The Band. Quando decidemmo di registrare il primo disco, l’etichetta discografica ci chiese come ci saremmo chiamati, noi rispondemmo che i nostri nomi erano nomi cristiani, nomi che i nostri genitori reputavano adatti per noi. Gli dicemmo che i nostri amici si riferivano a noi come The Band”.