Chico Buarque – Chico Buarque (Samambaia)

Che Chico Buarque destinasse tutto il proprio sforzo creativo nello stendere evocativi versi elegiaci, e se ne fregasse beatamente del nome con cui battezzare i propri dischi, questo penso lo aveste già inteso durante il primo ciclo brasiliano.  

E allora, per il quieto vivere dei poveri cristi che ascoltano, come già accaduto con i Velvet Underground il cui disco d’esordio è stato diffusamente identificato come Banana Album, quest’ennesima opera targata Chico viene rinominata – da critica e pubblico – come Samambaia, il nome della felce che campeggia dietro al Chico ridente sulla copertina. 

Ma cosa ha fatto questo disco per meritarsi un nome alternativo?  

La risposta è semplice: a causa del contenuto giudicato controverso (naturalmente controverso per il regime). 

Oltre a contenere la tanto vituperata – e pluri-censurata – Càlice, la presenza dell’inno della protesta civile Apesar de Você rende Chico una delle figure di punta non solo tra i dissidenti carioca ma anche dell’intero Brasile. Va da sé che gli aspetti da raccontare a proposito di questo disco sono numerosi e il dono della sintesi talvolta non mi appartiene, mi sforzerò di essere conciso ma ficcante. 

Nonostante quel che ho scritto e la vocazione del disco possa sembrare ribelle, esso riesce a contenere tutte le anime di Chico, più di quanto fosse riuscito a fare con Construção perché l’apertura festante di Feijoada Completa è tutto fuorché un brano presago di negatività, non contiene la fiele che abbiamo assaggiato in Construção o il languore tenero di A Banda, e forse incarna meglio di tante altre canzoni fin qui presentate l’entusiasmo conviviale tipico dello stereotipo brasiliano per antonomasia.  

Trocando em Miúdos viene prestata a Sergio Endrigo per il suo Exclusivamente Brasil e la troviamo anche qui, rappresentando la classica canzone delicata di fine relazione con climax ascendente e con saluto a quel Pixinguinha massimo esponente del choro (mas fico com o disco do Pixinguinha, sim?però mi tengo il disco di Pixinguinha, va bene?), scritta a quattro mani con quel Francis Hime, trait d’union tra ChicoBituca per O Que Será?. 

Il disco si dimostra ben equilibrato nell’alternanza tra brani impegnati, ritmati, “leggeri”, il pathos non viene mai meno anche nella levità di Pedaço de Mim offerta dalla voce di Zizi Possi o nella sublime di Tanto Mar, scritta nel 1975 ed ispirata alla rivoluzione dei garofani in Portogallo (Revolução dos Cravos) del ‘74 col quale è stato deposto il regime post-salazarista dell’estado novo

Tanto Mar la eseguono Chico e Maria Bethânia per una serie di spettacoli al Canecão, nel quartiere Botafogo. Per poter ottenere la pubblicazione nel 1978 Chico ha dovuto rimettere mano al testo in quanto la versione primigenia conteneva versi che non andavano a genio al “Ministero della Verità”. 

Naturalmente non è un caso sporadico, Chico può vantare una lunga lista di composizioni poco gradite ai regimi brasiliani, non ci si può fermare solo ai brani presenti in Samambaia come Meu AmorApesar de Você e Càlice. Quest’ultima – dal testo evocativo – gioca sulla religiosità del tema – paragonando il calvario di Gesù sul Golgota con la situazione vissuta dai brasiliani con i governanti –  per attaccare il regime su una linea sottile e continue perifrasi e giochi di parole, su tutti: càlice

Esso funge da sostantivo quindi come un calice che, anziché contenere il sangue di Cristo, è colmo del sangue degli innocenti castigati dal regime, ma anche come un verbo declinato all’imperativo, un taci (in portoghese cale-se, omofono di càlice) abbaiato con rabbia dal regime per censurare il popolo governato. La canzone nasce dalla penna di Chico e Gilberto Gil nel 1973 per il festival musicale Phono73 a San Paolo, è stata sabotata ed ha visto la luce solo 1978 con la versione presente in Samambaia con Milton Nascimento.  

Poco dopo che Chico e Gilberto hanno cominciato a eseguire la melodia punteggiandola di tanto in tanto con la parola càlice, i microfoni sono stati spenti dagli stessi organizzatori che – presa coscienza del brano – hanno sconsigliato di interpretarlo. In particolar modo la cruenza del verso finale “E che la mia testa la smetta di pensare come te./Voglio annusare i vapori del gasolio/e ubriacarmi fino a esser dimenticato!” si riferisce all’omicidio di Stuart Angel. attivista del MR-8, soffocato con il tubo di scappamento di una jeep infilato in bocca. 

Ciliegina sulla torta di questo racconto fiume, è Apesar de Você che conclude l’album ed è stata composta ancor prima di Càlice nel 1970. Definito il “samba dedicato al dittatore di turno”, è stata pubblicata proprio nel 1970, quando Chico ha terminato il proprio esilio italiano (convinto a tornare dal discografico André Midani illudendolo che la situazione nel paese natale fosse migliorata), eludendo inizialmente il controllo della censura, vendendo 100.000 copie in pochi giorni, salvo poi subire lo stop da parte del governo di Emílio Garrastazu Médici che, ravvedendosi, inviò nella filiale della Philips la polizia a distruggere le copie del disco. 

Storicamente le pedine di un regime, e talvolta anche le teste a capo dei reparti, brillano per solerzia ma non per ingegno, questo è uno dei casi che conferma la precedente enunciazione, perché se vai nella sede della Philips, distruggi le copie ma te ne freghi bellamente dei master, ti esibisci in tutta la tua corrusca cialtroneria. 

Or dunque, seppure Apesar de Você fosse stata ritirata dal mercato, si era diffusa a macchia d’olio diventando l’inno di un popolo soppresso. Chico ha dribblato abilmente le critiche del governo in merito al você spiegando come non fosse una critica al governo, bensì a “una donna molto prepotente, decisamente autoritaria”. 

Durante il regime l’arguzia e la capacità di piegarsi, e non spezzarsi, ha consentito a molti artisti di aggirare abilmente il giogo dittatoriale, riuscendo ad imporsi come fiaccola di speranza per chi non disponeva più strumenti per credere nella libertà. È un inno che trova sempre voce, nella ciclicità dei momenti bui (come nella recente elezione di Jair Bolsonaro), ogni brasiliano si ricorderà di cantare: 

Tu che hai inventato questo stato 
e ti sei inventato di inventare 
tutta questa oscurità. 
Tu che hai inventato il peccato 
ti sei scordato di inventare 
il perdono 

Tuo malgrado 
domani sarà 
un altro giorno
” 

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Chico Buarque de Hollanda – Per Un Pugno di Samba

Chico ha un sorriso stanco.

L’esilio prosegue e, quando si è forzati a vivere lontani dal proprio paese, si è pervasi da un malessere che accresce esponenzialmente di giorno in giorno. Anche perché – permettendomi una citazione spicciola da Euripide – “non c’è dolore più grande della perdita della terra natia”. 

Molte sono le dicerie legate a questo disco [non è vero, non sono molte, ma alcune ndr], tra le quali sembra che Chico fosse talmente tanto legato a questo album da non disporre nemmeno di una copia originale, o che comunque fosse saturo del soggiorno italiano da non fargli godere la lavorazione allo stesso (qualcuno vuole davvero biasimarlo?). Con i “se” e con i “ma”, la storia non si fa, cerco perciò di porre il focus sui fatti, non sulle pugnette. 

Chico Buarque na Italia non ha sbancato. Sì…un grande disco di culto, ma che non ha soddisfatto a pieno i discografici. La decisione quindi è di tirar giù l’artiglieria pesante per rendere più appetibile il brasiliano triste al pubblico. Bardotti, prosegue così nella sua opera di traduzione dei testi. C’è da dire che riguardo il suo lavoro in questo disco ho letto qualche parere – sicuramente più autorevole del mio – negativo (soprattutto per Roda VivaQuem Te Viu Quem Te Ve).  

Da questo punto di vista non mi esprimo, probabile che l’alleggerimento nelle tematiche dei testi – in questi casi – sia legato ad una mancanza di “empatia” da parte di chi – grazie a Dio – non è più sotto regime, o semplicemente da parte di chi vive in un contesto sociale differente. 

Al mestiere di Bardotti, si somma il contributo negli arrangiamenti di un rampante Ennio Morricone, che ha vissuto l’epopea della trilogia del dollaro e vanta già collaborazioni con Pasolini, Petri, Bertolucci, Corbucci, Bellocchio, Fulci, etc… insomma, robetta di un certo livello.  

Non si può far felici tutti quanti e sembra proprio che questo disco non sia nato col favore degli astri. Di fatto, anche gli esperti brasiliani del settore, abili cagacazzo, non hanno apprezzato la mano di Morricone, bollando in maniera dispregiativa il suo apporto musicale come samba da gringo (ovvero samba arrangiato da stranieri che non sono addentro la musica brasileira). Ora anche in questo caso non mi esprimo, però la mano di Morricone è decisamente strutturata e filmica, se gli arrangiamenti di Enrico Simonetti si sono rivelati complementari ai brani originali, quelli di Morricone sembrano stravolgere le idee iniziali di Buarque. In alcuni casi trasformando gli originali di Chico in brani nuovi, lontani parenti della prima versione.  

Questo non per forza è un difetto, perché dà modo di valutare sfaccettature nascoste di Chico, certo è che quest’album appare poco personale ed estremamente pilotato. Quasi una scelta subita.  

Non interpretate le mie parole come una bocciatura, perché comunque questo è un disco valido, che va ad incastrarsi in un disegno molto più grande. Una fotografia della scena musicale italiana in un periodo storico in cui aveva ancora peso nel panorama internazionale. A dare ulteriore prestigio ad un disco che sembra una pigna nel culo per chiunque, la presenza di Edda Dell’Orso (voce nella colonna sonora in Giù La Testa) e delle giovani Loredana Bertè e Mia Martini ai cori, sentitamente ringraziate nei credit da Chico con “Mimì e Lolò sorelle brave come belle”. 

Insomma, Per Un Pugno di Samba passa in sordina, forse perché gli interpreti principali sembrano quasi non ricordarsene, e sicuramente se non lo conoscete non andrete a cercarlo. È un lavoro che a mio avviso andrebbe ascoltato per avere chiaro in mente cosa eravamo in grado di produrre in quegli anni. Per avere consapevolezza di quale livello ricoprivamo 50 anni fa e di come un disco in quegli anni fosse qualitativamente alto, nonostante non se lo inculasse nessuno. 

P.S. non posso chiudere senza menzionare Agora Falando Sério (Ed Ora Dico Sul Serio), nella quale Chico vomita le sue frustrazioni, la stanchezza nell’essere considerato un cantante leggero, la stanchezza di essere ricordato per A Banda. Un grido di dolore che emerge chiaro nel non essere compreso come Uomo, portavoce di messaggi alti, depotenziati dal circo mediatico italiano. 

Nara Leão – Vento de Maio

Tempi straordinari richiedono pillole straordinarie. Quindi preparatevi ad una super ciclo di rotture di balle e a pipponi senza sosta.

Credo nel destino e nel rapporto causa effetto.  

Negli anni mi sono imposto di pensare che, celate nelle avversità di alcune situazioni, ci fossero delle opportunità di miglioramento intimo e personale. Un ragionamento che fa scopa con la situazione storica che stiamo vivendo.  

La necessità di osservare il circostante da quest’ottica ha ammorbidito sempre di molto i bassi a cui sono andato incontro. Sicché è accaduto un paio di anni fa che in uno di questi momenti di fitta nebbia, abbia avuto la fortuna di imbattermi nella mia guida.  

Nara Leão è colei che ha afferrato fortissimo la mia mano, fissandomi con quei due profondi occhi madididi malinconia e cantandomi intensamente “Vem comigo“. 

Grazie all’ascolto compulsivo dei suoi album sono entrato in contatto con il complesso ed articolato universo della musica brasiliana, approcciando con la Bossa Nova Tropicalia. Ho sempre respinto questo mondo, ma ho affrontato i preconcetti avvicinandomi a capolavori sconosciuti e che mai avrei pensato di ascoltare. Quindi se doveste avere delle resistenze, vi chiedo di provare a metterle da parte, altrimenti ci ritroveremo a ciclo terminato. 

Ho avuto il piacere di addentrarmi nella cultura brasiliana e trovare così una lingua tanto musicale quanto poetica, capace di trasformarsi in strumento per quanto dolce, morbida e zuccherosa appaia [ricordate gli studi sulla voce di Stratos, Sumac e Buckley di cui vi avevo accennato? Potete confrontare quanto scritto in passato con questo nuovo ciclo di ascolti ndr]. Per non citare le soluzioni musicali così raffinate, esotiche, che impreziosiscono melodie in apparenza semplici.  

Insomma, la semi-sconosciuta Nara Leão è stata la mia Beatrice, insegnandomi tanto con una grazia innata, guidandomi giorno per giorno. Dal momento in cui l’ho conosciuta me ne sono innamorato, e non è accaduto solo a me, ma anche a una generazione di musicisti per cui lei è stata una rampa di lancio. 

Non sono solito affrontare dei nuovi cicli di Pillole in maniera anacronistica, ma Nara ve la andrò a descrivere ulteriormente con Opinião de Nara, nel più classico dei passi del gambero.  

Che dire su Vento De Maio?

Beh [nonna mi diceva sempre che la pecora fa beh, e non sopportava sentirmi cominciare una frase così, forse per contrasto ora vado ad usarlo spesso all’inizio di un discorso… ma a voi frega sicuramente un cazzo di ció ndr] è un disco che ho consumato di brutto e che ha schiuso il portone della mia ignoranza, per questo avrà la mia gratitudine imperitura. Raccoglie una scelta di brani omogenea, logica degli incontri e delle relazioni intessute in quegli anni. Vinícius de Moraes, Sidney Miller, Gilberto Gil (Noite Dos Mascarados è poesia) e Chico Buarque sono alcuni dei pesi massimi co-protagonisti di Vento De Maio.  

Sarà proprio con Chico che Nara scriverà le pagine più romantiche della MPB (musica popolare brasiliana), alcune delle quali trovate anche in questo lavoro. Per darvi una dimensione dello spessore interpretativo di cui vi ho accennato nelle righe superiori, vi assegno il classico compito a casa: ascoltate ad esempio Com Açucar, Com Afeto di Chico (scritta appositamente per lei), o A Praça, nelle interpretazioni della Leão e successivamente in quelle di Mina (Mina Canta o Brasil del 1970), troverete una spigliatezza e una sensibilità che la tigre di Cremona non è riuscita a trasmettere (senza nulla togliere alla tigrona nazionale). 

Sono certo che la bellezza interiore di Nara vi sospenderà a mezz’aria e vi accompagnerà in questi giorni, come sta facendo con me quando ne ho avuto bisogno. 

Dopo questo super-pippone, vi auguro una buona scoperta!

Lucio Dalla – Terra di Gaibola

“Ter-ra di Ga-i-bo-la” lesse pensieroso il giovane ragazzo di nome Pillole, scandendo ogni singola sillaba con lo stesso sguardo di una Melania Trump qualsiasi…  di primo acchito la sua mente ha cominciato ad associare il titolo di questo disco a qualcosa di biblico, sapete tipo quelle robe da Matusa che provengono dall’antico testamento. Poi quel motivo floreale sulla copertina, che rimanda alle carte da parati anni ‘60 e a quell’odore di naftalina e muffa ha contribuito all’idea formatasi nella sua mente. 

L’abito non fa il monaco ma l’occhio attento non ha mai tradito Pillole, e una copertina del genere ispira tanta roba, quindi decide di andare a fondo alla questione. Perché non ha mai sentito parlare di questo disco? Ma soprattuto chi cazzo è Gaibola?  

È una di quelle parole vetuste che senti solamente alla messa della domenica da bambino ed impari meccanicamente, senza vestirle di un senso… chessò, tipo “manna”, “osanna”, “annunziamo”, “deuteronomio”.  

Ok, Pillole è cresciuto e ha deciso di indagare!  

Anche chi non conosce approfonditamente Lucio Dalla, sa bene quanto fosse saldo il legame con la propria Bologna, Gaibola è proprio una frazione sita fra i colli del capoluogo, nella quale Dalla era solito giocare a calcio e passare il tempo nella spensieratezza giovanile.  

Questo secondo disco trasmette tanta nostalgia di quegli anni, epoche e situazioni non vissute ma che appaiono così tangibili, tra ricordi e profumi che possono solo essere immaginati, ma come Lucione riesce a trasmettere tutto questo guazzabuglio di situazioni, nessuno mai. 

Siamo di fronte ad un disco disprezzato all’epoca, pregno di cliché musicali da Carosello o cinematografici sapientemente ammansiti dal maestro Dalla insieme all’aiuto dei fratelli Maurizio e Guido De Angelis (gli amati Oliver Onions “Come with me for fun in my buggy” [che non hanno naturalmente niente a che fare con i Green Onions ndr]). Terra di Gaibola è una rarità discografica che se poco poco lo doveste trovare nella cantina dei vostri genitori o nonni, dovreste prendervelo senza fiatare e tenere da parte con una cura feticista. 

Cerco di dipanare la matassa di Terra di Gaibola in maniera chiara, per non indurvi a confusione e lasciarvi intendere di cosa si sta scrivendo oggi.  

12 brani per 39 minuti all’incirca: Non Sono Matto (o La Capra Elisabetta) è il primo testo della discografia di Dalla scritto per intero da Lucione e musicato dal fu Gran Visir della SIAE Gino Paoli; Il Mio Fiore Nero, viene incisa nello stesso anno anche dalla ragazzina del Piper (Patty); Occhi di Ragazza è un brano fresco, veloce che viene preso in prestito e portato al successo dall’eterno ragazzone di Monghidoro (Gianni <3); Dolce Susanna invece è stata composta dal trio Dalla (musica)/Baldazzi/Bardotti (testo) per il buon Rosalino Cellamare e la troviamo come b-side del suo secondo 45 giri. 

È presente anche una meravigliosa cover di Stars Fell On Alabama, nella quale Dalla dimostra – e di che tinta – come il clarinetto sia il suo strumento prediletto, mentre tra Orfeo Bianco, Dolce Susanna, ABCDEFG e K.O. troviamo svariati esempi del suo meraviglioso gramelot, marchio di fabbrica della produzione musicale capace di alleggerire i brani quando necessario.  

In precedenza ho menzionato sia Gianfranco Baldazzi, che non ha alcuna parentela con il Truce [oddio la mano sul fuoco non la metterei mica ndr], che l’immenso Sergione Bardotti (al quale bisognerebbe costruire un monumento solo per il lavoro svolto con Chico Buarque, poco prima di Terra di Gaibola [ma di questo parleremo un po’ più là, ohhh sì che ne parleremo ndr]), ma ho omesso la terza gamba di questo spettacolare trio di scrittori, ovvero Paola Pallottino.  

Una squadra che, con l’aiuto di un musicalmente illuminato Dalla, stabilisce la rotta di quella che sarà la carriera del cantautore, l’inizio di un universo che comincerà ad espandersi e avere una dimensione artistica ed emotiva definita con il successivo Storie di Casa Mia, nel quale la punta di diamante è quella 4/3/1943 che ha come b-side proprio la già edita Il Fiume e La Città

Che altro aggiungere? Una semplice chiosetta: Terra di Gaibola è un disco da imparare a memoria in ogni suo passaggio, oggi avete il piacere di scoprirlo e apprezzarlo, o l’occasione ghiotta di ricordarvelo e riascoltarlo.  

Baciotti dal vostro Pillole

Lol Coxhill – Ear Of Beholder

Lol Coxhill - Ear Of The Beholder

Lo ammetto, con questo disco metto a prova la vostra pazienza.

Se doveste approcciarvi a Ear Of The Beholder ascoltando Hungerford (ovvero la prima traccia che segue l’introduzione) è probabile che io possa ricevere dei vaffanculo tonanti da parte vostra; non esagero. Potreste avere la sensazione di ascoltare un John Zorn pesantemente sotto eroina e buttereste via il disco non appena possibile (mi piace immaginare che qualcuno di voi ancora compri la musica in supporti fisici).

Ok, ok, ok, proseguendo con Deviation Dance la situazione potrebbe non cambiare, andiamo sicuramente su qualcosa di più orecchiabile ma sento la necessità di chiedervi di assettarvi 5 minuti per leggere queste due righe, in modo tale che voi siate preparati ad affrontare questo capolavoro con il quale Lol Coxhill ha esordito come solista.

La domanda che sorge spontanea ai più è “ma chi è Lol Coxhill“?

Ne ho già parlato tempo addietro, ricordate i The Whole World? La band in accompagnamento a Kevin Ayers? In poche parole, è stata una figura di spicco della scena di Canterbury, una sorta di chioccia – data la differenza di età – per i tanti gruppi che sono fioriti in quella città. Il background free jazz è marcato nelle sue composizioni, l’improvvisazione è un obbligo morale che segue senza tregua e segna le sue esibizioni dal vivo, così come il fascino subito da figure come XenakisVarese Stockhausen [offtopic: avete notato come tornano regolarmente a trovarci questi signori? Rispondono presente a quasi tutti i cicli di pubblicazione di Pillole. Diciamo che tutti questi ascolti sono propedeutici per arrivare da loro e John Cage. Vedremo quanto è tortuosa la strada per arrivarci. /offtopic ndr], o da altre band all’epoca contemporanee, come potrete desumere dalla strepitosa cover di I Am The Walrus.

Tutto ciò in favore di una contaminazione di stili e di generi volta ad abbattere il concetto di “genere musicale”, la musica è liquida, attraversa varie fasi e sfaccettature, ingabbiarla all’interno di un genere è “ingeneroso” [perdonate il gioco di parole]. Famoso purtroppo solo nella terra d’Albione e nei Paesi Bassi, non è riuscito ad avere il giusto riconoscimento nel resto del vecchio continente, lasciando comunque ai posteri tante cosette da apprezzare, tra le quali Ear Of Beholder.

Un disco caratterizzato da registrazioni fatte qua e là, in alcuni casi per strada durante le attività da busker di Coxhill per le quali si scuserà con l’ascoltatore per la qualità (un aspetto in comune con Moondog; Lol divenne artista di strada quando lasciò il lavoro di rilegatore di libri), alle registrazioni di alcuni brani prendono parte anche il caro Mike OldfieldKirwin Dear e Robert of Dulwich, altri non sono che gli pseudonimi di Kevin Ayers e Robert Wyatt. Ma in particolare spiccano le collaborazioni con David Bedford – anch’egli ex Whole World – con le quali registra delle versioni di Two Little Pidgeons e Don Alfonso (ri-edita da Oldfield qualche anno dopo).

Tutto questo pippone per dirvi di non lasciarvi spaventare dalle composizioni all’apparenza inaccessibili, date una chance di ascolto a quest’album, magari partendo da qualche brano più semplice, giusto per prendere confidenza con Lol e capire che straccia di musicista era.

Creedence Clearwater Revival – Cosmo’s Factory

CCR - Cosmo's Factory

Oggi è con immenso piacere che scrivo dei CCR, meglio conosciuti come il Credito Cooperativo Romagnolo (o Romano, o di Recanati… va be, a seconda di dove vi troviate scegliete la città che inizia con la R più vicina a voi). Il CCR è riuscito negli anni ad offrire dei tassi vantaggiosi per investimenti a breve termine. Ok dopo aver scritto ste cazzate, cominciamo a parlare dei Credenzoni, che vedono in John Fogerty il leader incontrastato della band (il leader è grande, il leader è bello) e in Cosmo’s Factory lo zenith della loro fulgida carriera.

Cosmo’s Factory (il magazzino di Cosmo… non il Fantagenitore) deve il suo nome al magazzino nel quale i Creedence erano soliti provare durante l’inizio della propria carriera. Questo titolo ha creato anche dei siparietti curiosi considerato che il soprannome di Doug Clifford (il batterista dei CCR per chi non lo sapesse) è proprio Cosmo.

Di Cosmo’s Factory mi torna in mente sempre quella copertina sgangherata, scattata da Bob Fogerty – fratello di John e Tom – dove i 4 CCR si trastullano durante un attimo di pausa, mentre vengono immortalati in un’immagine leggendaria dove sembrano tutto fuorché delle star al quinto album. Già… il quinto, forse il più grande, sicuramente il più memorabile tra i fan e non.

La sapiente struttura del disco presenta sia brani che saranno ricordati come classici, che grandi classici sistemati su misura. La scelta delle cover non è inusuale per i Creedence, da Suzie Q e Put A Spell On You – presenti nel primo omonimo disco – c’è sempre stato almeno un brano di altri artisti nelle successive uscite discografiche, fino a Before You Accuse Me (Bo Diddley), Ooby Dooby (scritta per Roy Orbison), My Baby Left Me (di Cudrup e resa famosa successivamente da Elvis) ed I Heard It Through The Grapevine (resa celebre da Marvin Gaye).

Ora 4 brani su 11, sono di altri artisti. Perché allora Cosmo’s Factory riceve tutti questi complimentoni? Voglio dire, posso capire una cover, massimo due. Ma quattro…  il problema è che gli altri sette brani, quelli scritti dal pugno di John, sono esplosivi e giustificano una presenza così massiccia di canzoni extra CCR.

Prendiamo un brano simbolo delle Credenzone, Who’ll Stop The Rain che nasce a Woodstock, quando John Fogerty intento a suonare con i CCR vede il pubblico – parliamo di mezzo milione di persone – completamente zuppo di pioggia e fango cominciare a denudarsi completamente. Ispirato da cotanta nudità, torna a casa e scrive Who’ll Stop The Rain, quindi al contrario di quanto si pensasse in passato non è una canzone con riferimenti al Vietnam o a qualsiasi tipo di guerra, come invece è Run Through The Jungle.

Ecco sì… quel capolavoro di Run Through The Jungle – tra l’altro – è la canzone preferita da fratellone Tom Fogerty “è come un piccolo film, con tutti quegli effetti sonori. Non cambia mai di chiave musicale, ma resta sempre incollato per tutto il tempo. È il sogno di tutti i musicisti. Non cambia mai la chiave ma hai l’illusione che lo faccia.”

Per non parlare dell’apertura con la jam di Ramble Tamble, Travelin’ Band (che si ispira al miglior Little Richards), di Up Around The Band o Lookin’ Out My Back Door. A proposito di quest’ultima, gli scienziati dell’analisi del testo credevano parlasse di droga, mentre il buon John l’ha scritta per il figlio di 3 anni. Evabbè.

Senza che ve la meno ulteriormente, Cosmo’s va veloce, è potente e si spinge oltre: è una fabbrica da hit. Le forti tensioni interne esasperate da un John Fogerty vessatorio contro tutti – e soprattutto verso il fratello maggiore – vengono mascherate da un disco coeso e sapientemente costruito.

Simon & Garfunkel – Bridge Over Troubled Water

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Tutte le più belle storie d’amore giungono al termine purtroppo, lo stesso accade per Simon & Garfunkel che però prima di separarsi consensualmente danno alla luce il loro quinto ed ultimo album Bridge Over Troubled Water.

L’intento di Art e Paul è quello di far sapere a tutti quanto fossero bravi i due nel fare altro oltre il folk alla Greenwich, Bridge Over Troubled Water dimostra la capacità di affacciarsi su altri stili mantenendo la naturalità che appartiene loro. Si vira verso sonorità diverse per due principali motivi: il primo è legato ad Art e alla sua partecipazione al film Comma 22, per il quale inizialmente era stato scritturato anche Paul (segato successivamente), i due di comune accordo decidono di aspettare il termine delle riprese per tornare in studio e fare un album rapidamente; l’altro motivo è Roy Halee (già al lavoro con Byrds, Loovin’ Spoonful, Bob Dylan e successivamente con Laura Nyro) che svolta come un calzino i due ragazzi.

Ne esce fuori un disco epico, con la title-track in stile gospel – ispirata ai Righteous Brothers prodotti da Spector – e scritta in un battito di ciglia da Paul Simon, “Ma da dove viene? Non sembra da me” quasi sorpreso dalla rapidità di scrittura, Simon dedica la canzone alla sua moglie d’allora. Si genera scompiglio per la scelta del cantato, Simon vuole che la canti Garfunkel, Garfunkel ritiene ingiusto togliere la gloria a Simon, interviene Halee che si esprime a favore di Garfunkel. Gioco! Match! Partita!

Originariamente la canzone era composta di due versi, Art si intromette pensando che fosse giusto dover allungare un po’ il brodo e per far sì che succeda, i due ritornano in studio e aggiungono la parte mancante, lavorando di taglio e cucito per integrarla alla versione iniziale.

La rapidità nella scrittura si riflette anche negli altri brani, molti dei quali risultano immediati e meno impegnativi al confronto delle precedenti produzioni del duo; l’essere arrivati agli sgoccioli rende l’approccio musicale di Art e Paul più accattivante, meno serioso. Bridge Over The Troubled Water è sicuramente un disco figlio del proprio periodo: tanti fiati ed impasti vocali, possono essere colte le sfumature di un certo tipo di musica leggera anni ‘60 come in So Long, Frank Lloyd Wright brano che sembra partorito da Burt Bacharach.

Invece no!Lo concepisce proprio Paul Simon, ed è il suo modo di salutare Arty, compagno di tante battaglie, il Napoleone del folk – così lo ha etichettato Garfunkel in una recente intervista – si prodiga nello scrivere una canzone su Frank Lloyd Wright senza sapere a momenti chi fosse e quali fossero le sue opere, lo fa più che altro per tributare Art che oltre ad una discreta carriera da musico e attore, può vantarsi del titolo architetto. In quel periodo valutò anche di cambiare nome in Arct. ………………. lasciamo scorrere questa balla di fieno e facciamo finta di niente.

Non si può non menzionare The Boxer – una delle canzoni più celebri dell’accoppiata – o la magnifica The Only Living Boy In New York con i suoi cambi d’accordi repentini, per non dimenticare le scanzonate Cecilia e Why Don’t You Write Me. Insomma Bridge Over Troubled Water è un disco delizioso e divertente con alti e bassi, forse un po’ sopravvalutato ma che può rivelarsi come un ottimo primo approccio al resto della discografia di Paul e Art.

Rolling Stones – Sticky Fingers

Rolling Stones - Sticky Fingers.jpg

“Caro Andy,

Sarei veramente felice se tu potessi occuparti della grafica per il nostro nuovo LP. Qui c’è il disco in anteprima. Puoi fare qualsiasi cosa tu voglia… ah non dimenticarti di scriverci quanti soldi vuoi per il lavoro.

Tuo,

Mick Jagger

Sticky Fingers è un gran album ed il controverso artwork firmato Andy Wharol rende sicuramente giustizia al contenuto del disco. Sì, comincio parlando dell’artwork perché Wharol insieme a Nico formano la costante di questo mini-ciclo di pubblicazioni che ci introdurrà successivamente all’exploit musicale della NY anni ‘70.

Torniamo a noi, siamo ad un punto di svolta per gli Stones che hanno chiuso con la Decca e per la prima volta possono permettersi di curare anche la comunicazione, perciò la parola d’ordine è: sconvolgere. La Decca a dire il vero non si arrende… manca un singolo per poter risolvere definitivamente il contratto, quindi le pietre rotolanti preparano ad hoc l’oscena Cocksucker Blues che naturalmente non verrà pubblicata, costringendo la Decca a ripescare Street Fighting Man da Beggars Banquet.

La copertina di Sticky Fingers viene censurata in un botto di paesi, rimpiazzata perlopiù da immagini con dita femminili che escono dal barattolo e che rappresentano in qualche modo il titolo del disco (dita appiccicose). Viene censurata perché, se il doppio senso della banana rosa con Peel it Slowly aveva scandalizzato, vedersi un jeans con patta abbassabile e con un pistellone rigonfio dentro le mutande rende il tutto nu poco più esplicito.

Ma Andy era questo, un uomo di marketing molto perspicace che ha sfruttato un’altra occasione per far parlare di sé. Joe D’Alessandro si presta a venir fotografato senza troppi problemi ed ecco pronta la cover per Mick.

Il disco è stato registrato nei primi mesi del 1970 – fatta eccezione per Sister Morphine incisa nel 1969 (tagliata da Let It Bleed) con Jack Nitzsche al piano e Ry Cooder alla chitarra – e presenta delle sonorità strettamente legate al blues come ad esempio You Gotta Move (brano tradizionale afro-americano, un delta blues del Mississippi), I Got Blues (una canzone che gli Aerosmith assimileranno totalmente riproponendola in tutte le salse tra ’80 e ’90) e Dead Flowers che ricorda un po’ quel country rock languido di Jackson Browne (da non perdere la cover di Townes Van Zandt)

Succede che per alcuni brani, come per il conclusivo Moonlight Miles, Keith Richards non partecipasse alla parte creativa “non ho avuto niente a che fare con quel pezzo, semplicemente perché non ero lì quando è stato scritto”, o come per Bitch quando Jagger e Taylor la stavano suonando con risultati abbastanza scarsi ed intervenne Richards a metter una toppa e trasformando una nenia in un groove coi controcazzi.

Impossibile, inoltre, non citare due storici cavalli di battaglia come Brown Sugar e Wild Horses.

Il primo è estremamente controverso, difatti il titolo originale sarebbe dovuto essere Black Pussy, ma persino Mick arrivò a pensare che fosse troppo esplicita, perciò optò per un più parco Brown Sugar che – tra i vari potenziali significati – indica anche una qualità di eroina. Questa scelta è un po’ ipocrita vista la pesantezza dei temi trattati nella canzone (santommaso, cunniliculis, troche, strupri, sesso multipersonale).

Lo stesso Jagger affermò che la canzone era il punto d’incontro perfetto e l’apice nella relazione tra sesso e droga, definendola istantanea. Un testo promiscuo che viene sicuramente esaltato dalla struttura musicale, che di fatto va a sovrastare il testo.

Per Wild Horses invece, brano sicuramente molto più emozionale ed intimo, si è sempre scritto e detto che fosse ispirato dalla rottura tra Jagger e Marianne Faithfull, in particolare il passaggio “Wild Horses couldn’t drag me away” che sarebbe la frase detta dalla Faithfull a Jagger al risveglio dal coma. Michelino ha però smentito in seguito, dicendo che la storia era ormai terminata da un bel po’.

Keith Richard a proposito dice la sua “se ci fosse da descrivere il classico metodo di lavoro tra me e Mick, farei l’esempio di Wild Horses. Io avevo i riff e la linea del ritornello, lui ci ha buttato dentro le parole. Come per Satisfaction, Wild Horses è sull’essere a milioni di miglia da dove vorresti essere”

Nico – Desertshore

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Ci eravamo lasciati nel bel mezzo di una officiazione ed è così che ritroviamo Nico, solo che questa volta mi sono tutelato scrivendo l’articolo in piena giornata.

Nico partorisce quel che sarà Desertshore in quel di Positano (una relazione quella tra Nico e l’Italia che prende forma alla fine degli anni ‘50 quando Fellini la scelse per La Dolce Vita) un disco nel quale esplora ulteriormente le intuizioni di The Marble Index, per questo la struttura rimane la medesima: Nico, armonium, John Cale.

Il brano ad apertura del disco, Janitor Of Lunacy, è dedicato all’amante di un tempo Brian Jones, scarno nel testo e nell’arrangiamento, ma magnetico e dal forte impatto emotivo. Si prosegue in crescendo con The Falconer, l’armonium domina ancora il brano – con il tappeto musicale a ricordare una marcia funebre – e la voce di Nico interviene funesta e monocorde, fino all’avvento del pianoforte che da aria all’intero brano con una melodia quasi di speranza.

My Only Child si depriva di ogni strumento, basandosi sul canto a cappella di Nico – con sovraincisioni – che ricorda tanto Where Have All The Flowers Gone di Pete Seeger, così vicino ad un canto di chiesa da apparire sacro.

Le Petit Chevalier è interpretato dal figlio di Nico, Ari, nato dopo una relazione con Alain Delon e non riconosciuto dall’attore francese; al proprio figliolo Nico aveva già dedicato una canzone nel precedente The Marble Index, al contrario di quanto possa sembrare, Nico non può essere considerata una buona madre, difatti Ari col passare degli anni diventerà compagno di spade della madre condividendone la passione per le droghe. In Le Petit Chevalier, il canto del piccolo Ari è incerto come fosse guidato dalla madre, è possibile sentire dei profondi respironi decisamente inquietanti alzando il volume. Desertshore presenta delle sinusoidi, è fluttuante, ci sono perciò dei brani scuri molto simili tra di loro intervallati da dolci armonie, come per Afraid che anticipa la sacralità dei Popol Vuh nella semplicità di un piano e della viola.

Con Abschied si torna alle tonalità apocalittiche che trovano nella sezione d’archi un rafforzativo non indifferente e che come per Mutterlein – dove vengono aggiunte le trombe – il cantato in tedesco aiuta ad angosciarci ancora di più e prepara al caos metodico della stupenda All That Is My Own di memoria newyorkese, molto vicina ai Velvet Underground e al Tim Buckley di Goodbye And Hello.

Il brano finale assume una dimensione profetica, così come il ruolo che si ritaglia Nico – con ancora più forza rispetto al precedente disco – quello dell’interprete delle oscurità del mondo, che sacrifica la bellezza del mondo di plastica dal quale proviene per vestire le brutture del mondo. Al contrario della deriva gotica che prenderà piede a cavallo tra i ‘70 e gli ‘80, Nico ci canta le oscurità che si celano dietro ogni angolo del mondo più che quelle interiori.

Tim Buckley – Starsailor

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Il marinaio delle stelle, colui che salpa verso l’ignoto… o forse no? Starsailor è il disco che non ti puoi aspettare a distanza di pochi mesi da Lorca. Non può essere reale. Tim Buckley invece sfida tutti, a partire dai critici; il folk viene abbandonato definitivamente per viaggiare verso un’astrazione totale, più concitata e frenetica rispetto al precedente lavoro, la durata dei brani si riduce e la dilatazione interiore di Lorca viene di fatto abbandonata per una forma più asciutta.

Dopo l’omonimo disco d’esordio e Goodbye And Hello, Buckley torna a collaborare con il poeta Larry Beckett – autore di gran parte dei testi presenti nel disco – per la band invece può contare sui soliti Underwood, Balkin e Baker con l’aggiunta dei fratelli Buzz e Bunk Gardner ai fiati, direttamente dai Mothers Of Invention.

Il ritmo fa la differenza e Starsailor ne ha da vendere rispetto a Lorca, nonostante i due lavori abbiano dei punti in comune, è possibile capire dove è andato a parare lo studio intrapreso con Lorca, non solo nelle composizioni, ma soprattutto nella voce. Buckley a questo punto può fare quello che vuole con le sue corde vocali, ha stabilito i confini con Lorca e si è dimostrato in grado di padroneggiare il proprio strumento con una maestria impressionante, un saliscendi emotivo reiterato in tutto il disco.

Ci sono esperimenti di ogni sorta, dal folk-jazz d’avanguardia di Monterey al brano macchietta Moulin Rouge, talmente tanto evocativo e sognante da farti sentire proprio tra Pigalle e MontMartre.

Song To The Siren è una rimanenza di vecchie sessioni, quasi un saluto all’origine di Buckley; scritta nel 1967 sempre a 4 mani con Beckett, che ne esalta la bellezza “È  il perfetto incontro tra testo e melodia. C’era un’inspiegabile connessione tra loro”, viene ripescata per l’occasione e vestita di quel riverbero che ne contraddistingue l’atmosfera fosca.

Song To The Siren è ispirata al canto delle sirene, che seduce i marinai e che denota l’influenza alla scrittura più letteraria di Beckett rispetto a quella introspettiva di Buckley. La title-track spinge a credere che il ruolo delle sirene sia centrale, assecondando molto l’idea del marinaio sotto trip allucinogeno rimasto intrappolato dal canto delle sirene e vittima di un incantesimo. Una follia che si spinge fino alle molteplici sovraincisioni di Healing Festival… tralascio alcuni brani – non perché meno validi – ma il fulcro dell’articolo è uno solo, questo disco è amalgamato in una maniera impressionante ed è un viaggio, il viaggio intrapreso dallo Star Sailor nei vari universi.

“Con Starsailor, abbiamo deciso che […] avremmo presentato un nuovo modo di scrivere le canzoni. Nel primo lato dell’album, facciamo canzoni nel senso tradizionale del termine. Sono libere con alcuni momenti in cui si segue il ritmo ed altri in cui si va più alla deriva. Tutte hanno il proprio testo e la propria melodia. I Woke Up è il brano che ricordo maggiormente di quest’album. Song To The Siren è una canzone magnifica, una delle più convenzionali. Ma poi abbiamo dovuto ridurre sia Star Sailor che Healing Festival. La Intro di Healing Festival riguarda Harlem, ho sovrainciso tutte le voci. Ho sovrainciso 16 voci su Starsailor. È il primo album nel quale ho effettuato sovraincisioni.”

Questa intervista dell’Aprile del 1975 – due mesi prima della morte di Buckley – offre una panoramica metabolizzata di quello che è stato il periodo artistico d’oro del cantautore, senza nostalgia ma con orgoglio, quasi come a dire “è tutto lì, sono capace di farne ancora di roba di questo genere, ma tanto non viene apprezzata”, un pensiero supportato dalla Warner Bros che si è limitata ad avvertire Timoteo – dopo l’insuccesso di Starsailor – con un “Per favore! Mai più”.