My Bloody Valentine – Loveless

My Bloody Valentine - Loveless

Quando penso ai My Bloody Valentine, prima in testa risuona il feedback – così acuto da avere l’impressione di avere delle lame nel cervello – con le distorsioni di chitarra ed i suoni campionati, solo in seconda battuta riesco ad associarli ad una immagine. I suoni dei quali sto parlando provengono tutti da Loveless.

Potrei scrivere di quanto Loveless sia stato un disco epocale, potrei continuare magnificando l’impatto che i My Bloody Valentine hanno avuto sul panorama musicale, (di fatto sto scrivendo tutto questo @_@) ma non lo farò (falso), in quanto questo è ciò che fanno tutti quando di mezzo c’è Loveless (vero).

Quindi in questo articolo – che si sta trasformando ormai in un surrogato di una canzone di Paolo Meneguzzi – è necessario aggiungere un po’ di sostanza, che ne dite? (ve lo ricordate che spettacolo di video trash che aveva buttato su il buon Meneguzzi per l’occasione?)

Per molto tempo, si è pensato ai My Bloody Valentine come degni eredi di Fleetwood Mac e ABBA (falso). La realtà dei fatti però vede questo assunto vero a metà (falso è stato un gioco, falso io lì non c’ero [perdonatemi, interrompo subito la meneguzzite violenta che mi sta ammorbando ndr]), Bilinda Butcher – ragazza madre londinese, nonché chitarrista e meravigliosa voce dei MBV – e Kevin Shields – fondatore dei My Bloody Valentine – hanno una tresca, cosa che fisiologicamente non può esserci tra Colm O’Ciosoig e Debbie Googe, un po’ per colpa del di lui nome, un po’ perché ella convinta militante sgranocchiapassere.

Ma non soffermiamoci troppo sul gossip da due spicci, suvvia!

Dietro Loveless si celano svariate ispirazioni, Bilinda ad esempio spendeva gran parte dei suoi giorni felici ad assistere a concertini di gruppettini come Birthday Party, Joy Division e Talking Heads, ma anche Cramps. Ecco proprio da questi ultimi Kevin ha mutuato lo stile nel suonare la sua Jazzmaster, di ritorno da un loro concerto a Berlino nel 1984 – come un Winston Smith assalito da una sequela di dubbi – si pone la domanda “Ma se suonassi la chitarra tenendo costantemente la mano sul tremolo??? Devo provarci”. E alla fine ci ha provato e si vede che gli è pure piaciuto.

Non mi inoltro nei gusti degli altri per le fonti di ispirazione, perché fondamentalmente sono stati Kevin e Bil i fautori del disco, anzi… diciamo che l’aspetto musicale è stato curato in toto dal buon Kevin che a detta di Bilinda ha sempre avuto il quadro ben chiaro nella propria mente. Talmente chiaro da reputare una perdita di tempo lo spiegare agli altri membri della band le loro parti e come le aveva pensate. È così che Loveless prende forma, con Kevin che suona le parti di tutti durante le 19 sessioni… eh sì, suona le parti di Bil, di Colm e di Debbie; tant’è che quest’ultima durante le sessioni di chiusura riduce drasticamente la presenza negli studi.

A Bilinda questa storia poi non è che abbia fatto più di tanto né caldo né freddo, di fatto è sempre stata come appare, ai limiti del “lascia scorrere”, l’aneddoto sull’origine del suo nome vi darà una dimensione della sua persona “Proviene da mio nonno, se fossi stato un maschietto mi sarei chiamata Bill, ma nascendo femmina divenne Bilinda. John Peel una volta disse durante la propria trasmissione che era solo un tentativo presuntuoso di rendere speciale il mio nome [pensava si chiamasse Belinda ndr]. Mi ha infastidita. È il nome che mi hanno dato… ma non avevo energie per scrivergli un reclamo”.

Bilinda è questa, una ragazza che non consentiva agli ingegneri di presenziare alle registrazioni della propria voce durante le sessioni in studio con Kevin. Capite bene che l’essere guidata in tutto e per tutto da Shields non è stata sicuramente vissuta come un’imposizione.

Certo che essere svegliata all’alba – dopo aver appena abbracciato Morfeo – per ottenere una voce sognante e sonnacchiosa nelle registrazioni, non deve esser stato piacevole “Kevin ha sempre difeso il mito di noi come una band. Nelle interviste non ha mai affermato di essere l’unico a fare musica. Probabilmente si arrabbierebbe se leggesse ciò che sto dicendo ora. Colm aveva buone idee ma considerato che eravamo sempre di fretta durante le registrazioni, Kevin ci chiedeva di non suonare nulla [mhhh, che divertimento ndr]. Andavamo tutti insieme in studio e Kevin ci voleva lì per conoscere le nostre opinioni, non era un dittatore. Le canzoni prendevano forma di volta in volta”.

Riguardo lo scarso contributo di Colm, Kevin mostra una versione dei fatti più dettagliata “Colm aveva raggiunto il limite, era diventato un senzatetto. Veniva ospitato sui divani ma poi si è buscato un virus brutto brutto brutto. La sua salute andava di male in peggio. È stato un periodaccio per tutti noi, troppa pressione”.

I testi invece hanno visto l’intervento decisivo di Bilinda, in confronti serrati e rigorosi a tavolino con Kevin per buttar giù qualcosa che fosse originale, nel tentativo di evitare ogni sorta di potenziale banalità. La sensibilità femminile e la timidezza vocale (soprattutto dal vivo) sono ampiamente percepibili, in una combinazione che rappresenta quello che Bilinda chiama “terapia ipnotica”, così come la piena dedizione e l’ammirazione nei confronti di Kim Gordon dei Sonic Youth, vera stella polare di Bil.

Difficile trovare una descrizione più corretta di “terapia ipnotica” per Loveless [solo per l’aspetto musicale, i video fanno venire il mal di mare e sbattono in faccia una serie di cliché da videomaker anni ‘90 niente male], un disco a cavallo fra la depressione e la redenzione, tra chitarre dissonanti e sensazioni zen, non c’è nulla fuori posto. Unica raccomandazione: lasciarsi trasportare secondo per secondo, senza farsi domande.

Perché gli anni ‘90 – in fondo – sono stati veramente belli.

Mazzy Star – Among My Swan

Mazzy Star - Among My Swan

Ok, ok, non sta diventando un tributo a Rick & Morty ok?  Meglio mettere le cose in chiaro altrimenti sono cazzy e mazzy. 

Invece di schifarvi, dovreste accogliere questi espedienti narrativi di serie C con somma maraviglia!  

Che poi, cioè… la battuta si chiamava da sola, non è tanto colpa mia, non credete? 

Va be torniamo a noi su e parliamo di Among My Swan, un disco che per molti anni ha rappresentato l’ultimo dei Mazzy, una band che ha sempre dimostrato verve (ma senza Richard Ashcroft) e joie de vivre a palate. La perseveranza con la quale Hope Sandoval ha seguito il proprio credo è oltre l’encomiabile, rifiutare centilioni di soldi – quando lo showbiz e le etichettone vengono tutte da te ad elemosinare i tuoi servigi – non è una cosa da poco e sfido voi a fare la sua stessa scelta.  

“Ho dovuto implorare affinché potessi recedere dal mio contratto con la Capitol. Loro mi volevano far lavorare con dei produttori importanti. Io volevo produrre la mia musica, loro non volevano questo. Sono sicura che siano stati felici di avermi lasciato andare”. 

E quindi i Mazzy sono scomparsi (vi piacciono i fuoristrada che sto facendo per non parlare troppo del disco?), salvo poi tornare nel 2013, dopo un lungo digiuno e qualche ruga in più a solcare il volto di Hope e David. 

Ma torniamo ad Among My Swan, intriso della malinconia ed epurato dai fastidiosi eco che permeavano i precedenti lavori, si dimostra un disco maturo, introspettivo, molto legato ai cliché delle band psych anni ‘60, oltre che ad un cantautorato visionario. 

David ne sa molto più di me su musica e strumentazioni. Conosce a menadito i Velvet Underground, mentre io non più di tanto. […] Quando ho cominciato a lavorare con David, ha acceso il mio interesse su alcuni musicisti o gruppi. Mi piacciono cose recenti come Soul II Soul, ma anche altre più datate tipo Syd Barrett ed i Rolling Stones“. 

Hope cita alcune delle ispirazioni dietro i brani, ovvio che l’allegria non è mai appartenuta all’universo di Sandoval Roback, certo anche che la chitarra di quest’ultimo ha la capacità di costruire spazi là dove non esistono, a dire il vero si ha quasi l’idea di galleggiare sopra una nuvola soffice, sospesi ed alleggeriti dai pensieri.   

“Non ci siamo mai preoccupati del mondo esterno, è un processo interno quello che sviluppiamo. Il mondo esterno non è nei nostri pensieri […] stiamo facendo tutto ciò nel nostro mondo per noi stessi. Siamo legati alle storie dietro ad ogni canzone.” ci spiega Roback e non so il perché, ma ho come l’impressione che nell’idea dei due una canzone come Look On Down From The Bridge (nella quale il narratore in un gioco di prospettive – che si consuma con lo scorrere della canzone – ha lo sguardo diretto verso il basso durante la sua caduta libera piuttosto che guardare verso l’alto, verso il suo passato) –  a chiusura di Among My Swan sia stata pensata come canto del cigno, in un finale che sarebbe suonato perfetto qualora nel 2013 non ci fosse stato alcun ritorno. 

Rachel’s – Music For Egon Schiele

Rachel's - Music For Egon Schiele

Rachel’s hanno in parte raccolto la sfida lanciata dai Penguin Cafe Orchestra, offrendo al pubblico una musica da camera in un periodo storico nel quale il rumore, la rabbia ed i suoni artificiali dominano incontrastati, la scelta della band di Louisville appare in forte controtendenza con quanto proposto dalla scena musicale di quel periodo.

Da Louisville provengono gli Slint, e forse sarebbe stato più lecito aspettarsi un’idea affine a quella di McMahan Pajo, invece i Rachel’s sorprendono per un approccio distante, ma per questo forse più rispettabile se confrontato a quanto fatto da tanti altri gruppi coevi. Per chi non li conoscesse, vi basti sapere che prendono il nome dalla pianista Rachel Grimes, che dimostra così di essere la capoccia della situazione.

Music For Egon Schiele nasce come colonna sonora per un balletto sulla vita del pittore austriaco, giudicato buon disco ma definito – talvolta – prolisso e pigro da parte degli esperti del settore, sento il dovere – a distanza di vent’anni – di spezzare una lancia a favore, un po’ per gusto personale un po’ perché funzionale al ciclo di articoli in fase di pubblicazione.

Rachel’s preferiscono l’improvvisazione in fase compositiva per poi attenersi allo spartito nelle esecuzioni live, dimostrando un’attitudine a doppia corrente. Si privilegia la musica alle parole, come se fosse lo specchio dell’anima, il focus è nelle note che evidenziano la cifra stilistica e la necessità di esprimere sentimenti senza il bisogno di applicare un messaggio verbale a quello musicale, in una libertà interpretativa che lascia molto spazio all’immaginazione (veicolandola tramite i titoli delle canzoni e dell’album).

Scelta lodevole e riuscita, nei “passaggi a vuoto” sono percepibili le sfumature travagliate della vita di Schiele – portato via troppo presto dalla febbre spagnola – e del suo espressionismo, in un disco godibilissimo e a tratti romantico che catapulta chi l’ascolta nella mitteleuropa del secolo scorso.

Il pensiero è rivolto alla fonte di ispirazione, ma la relazione non è così stabile come si pensa, come disse Rachel(‘s) Grimes la ricerca è nel tentare di ricreare delle sensazioni che un’artista come Schiele ha trasmesso tramite le oltre trecento opere prodotte nella sua breve seppure intensa carriera, in un percorso diametralmente opposto a quello di Stravinskij con i propri quadri astratti.

Nel complesso non ci troviamo di fronte a nulla di memorabile o dall’impatto storico determinante, ma resta un tentativo anacronistico capace di mantenere vivo l’interesse verso un approccio alla musica che si è perso nel tempo, oltre che rappresentare un risultato qualitativamente valido nel combinare arte figurativa, performance e musica.

Lisa Germano – Geek The Girl

Lisa Germano - Geek The Girl

Eh già, una bella dose di angoscia in arrivo, contenti?  

Sono particolarmente contento per la pubblicazione di questo articolo, in primis perché ho modo di dare un po’ di spazio ad una grande artista come Lisa Germano (oltre che ad un grande disco); in secondo luogo perché l’area quote rosa sta crescendo in maniera interessante con un album fortemente femminile e con ulteriori innesti di valore che si andranno ad aggiungere a fine mese. 

Geek The Girl è un culto, terzo disco della Germano, incensato dalla critica e… praticamente introvabile! Come spesso capita, se un disco ha ottime recensioni, non significa che questo valore positivo si tramuti in un numero consistente di copie vendute. Ma in questo caso il problema è legato alla distribuzione del disco avvenuta troppo più tardi rispetto alla pubblicazione delle recensioni, lasciando l’amaro in bocca per un’occasione persa. Nel corso degli anni questo aspetto ha purtroppo influito sul prosieguo della carriera di Lisa, che viene liquidata dalla casa discografica per gli scarsi risultati di vendita. 

Se vi trovate per la prima volta ad ascoltare Geek The Girl, sarete immersi in un’opera sussurrata dal sapore fortemente ’90s – con arrangiamenti minimali e ben costruiti – che ben racconta parte dei problemi vissuti dai ragazzi di quell’epoca, in un modo differente dalla rabbia travolgente del grunge. La sorpresa risiede più nella capacità cantautoriale della Germano, una folksinger intima d’altri tempi – capace di registrare l’album in casa da sé – comparsa quando oramai il movimento sembrava imbolsito, senza più nulla da dire. I temi trattati sono forti ed estremamente complessi, da pelo sullo stomaco, ma il modo di affrontarli è privo di rancore o rassegnazione. 

Propone un disco personale, nel quale riversa gran parte della propria esistenza, ponendoci di fronte ad una protagonista con turbe psichiche. Un lavoro connotato da contrasti sorprendenti e quasi disturbanti come ad esempio in …A Psycopath, il brano più rappresentativo di Geek The Girl, nel quale la voce della Germano si intreccia con la registrazione di una chiamata al 911 di una donna che ha subito uno stupro in casa propria da parte di un intruso. Inizialmente la Germano si dimostra reticente nell’usare la registrazione, ma l’impatto di una testimonianza diretta vale più di mille parole. 

Un’angosciante documento che si dimostra – purtroppo – quanto mai attuale, nel quale la Germano interviene con una nenia di fanciullesca memoria, a ricordare quando da bambina girando in bicicletta un losco individuo l’ha molestata. …A Psycopath vuole mettere a conoscenza tutti quanti delle paure e dell’impotenza che le donne possono provare dinanzi ad un aggressore, o a situazioni di stalkeraggio. Argomento trattato anche nella seguente Sexy Little Girl Princess. 

L’infanzia della Germano ha influenzato anche il resto del disco, la cantautrice – di chiare origine italiane – presenta a più riprese una friscalittata siciliana sulla base della canzone tradizionale A Vinnigna (uno di quei motivetti suonati col flauto siciliano per intenderci) la trovate al termine di …A Psycopath, ad inizio disco come intro di My Secret Reason e al termine della penultima canzone …Of Love And Colors, ad indicare all’ascoltare le varie fasi del disco, come se ci trovasse in teatro e ogni atto fosse scandito dallo stacco musicale – che con il tenore del disco stona pesantemente andando in aperto contrasto con il contenuto (ricorda molto Rabbits di David Lynch in questo). 

Come spesso è capitato di raccontare in album dalla struttura simile, il brano finale segna un cambio di registro, il sound varia, compaiono le chitarre e la melodia sembra dare uno spiraglio di speranza. Ad oggi, Geek The Girl mantiene tutta la propria forza ed espressività valendo come manifesto musicale e sociale, non sono andato a fondo quanto avrei dovuto o quanto il disco avrebbe meritato, ma trovo che ognuno dovrebbe ascoltarlo con attenzione ed interpretare i testi per poter un minimo comprendere il dramma che le donne – ancora oggi nel ventunesimo secolo – si trovano ad affrontare. 

Neutral Milk Hotel – In The Aeroplane Over The Sea

Neutral Milk Hotel - In The Aeroplane Over The Sea

Sono veramente curioso di sapere, se vi dicessi Neutral Milk Hotel, qual è il primo pensiero che vi viene in mente? 

Personalmente mi risuona un verso nella testa: 

“Nostalgia, nostalgia canaglia
Che ti prende proprio quando non vuoi
Ti ritrovi con un cuore di paglia
E un incendio che non spegni mai” 

Al Bano e Romina, che avevano l’esperienza dalla loro – oltre che l’occhio lungo – sapevano bene che la nostalgia è una brutta bestia da fronteggiare. Già perché questo ciclo sta diventando un piccolo angolino nel quale crogiolarsi e riversare le proprie lacrime tra dischi malinconici e un pensiero alla bellezza degli anni ‘90, che ci ha regalato tante perle da custodire gelosamente, come li secondo disco dei Neutral Milk Hotel. 

Troviamo delle similitudini nel sound del primo disco On Avery Island e questo secondo lavoro dei Neutral, c’è un’evoluzione organica frutto di un compromesso tra Robert Schneider e Jeff Mangum, soprattutto Robert ha giocato un ruolo fondamentale nella definizione delle sonorità a tratti creepy e a tratti da fanfara (trombe, fisarmoniche, tamburelli). 

C’è fermento nella scena americana, lo dimostra il tenore dei dischi usciti negli ultimi anni dei ‘90, livello eccellente raggiunto da numerose band 

In The Aeroplane Over The Sea è uno story album [Mangum preferisce il termine storyconcept ndr] ispirato quasi totalmente dal diario di Anna Frank e da un sogno ricorrente nel quale Jeff Mangum vive in prima persona la seconda guerra mondiale all’interno di una famiglia ebrea. Questo elemento si fonde continuamente tra il personale e lo storico, come ad esempio in Holland, 1945 (anno nel quale Anna Frank e sua sorella Margot morirono di tifo, pochi mesi prima della liberazione) dove Mangum probabilmente fa riferimento ad un suicidio di un familiare di uno dei suoi amici più cari. 

Now how I remember you/How I would push my fingers through/Your mouth to make those muscles move/That made your voice so smooth and sweet“, questo estratto dalla title track lascia intendere che l’amore è il tema portante del disco, una fusione di corpi – metaforica – in un’unica entità, la necessità di esercitare la proprietà sulla propria amata in equilibrio sul sottile filo tra possessione e amore, cercando di trasmettere un messaggio positivo. Un simbolismo che si ripete in Two Headed Boy, la storia di un bambino preservato in un vaso di formaldeide, un tentativo fallito di unificazione in un’autonoma entità, quasi a voler mettere in guardia gli ascoltatori dal rischio di dover dipendere da un’altra persona. 

“Le canzoni escono fuori spontaneamente e mi prendo del tempo per immaginarmi cosa stia accadendo, che tipo di storia sto raccontando. Comincio costruendo una sorta di piccoli ponti di parole che conducano da un punto all’altro della canzone, fino al termine. Un flusso continuo di parole che fuoriesce senza forma, solitamente in maniera casuale e che riordino. […] Come in Two Headed Boy, ogni sezione è venuta fuori in diversi momenti, talmente tanti che ne ho dimenticati un bel po’”. 

Questa testimonianza di Mangum è molto interessante perché rivela una certa dimestichezza nel songwriting e nella composizione musicale, si percepisce, nello stile del cantante il forte ascendente che ha avuto un gruppo come i Minutemen e un disco come Double Nickels On The Dime, consumato da Mangum durante la propria adolescenza. 

Si va a spiegare – inoltre – la suite iniziale The King Of Carrot Flowers – suddivisa in tre parti differenti – armonicamente omogenea, che vuole anticipare i temi del resto del disco, quella necessità di trovare della positività nella situazione disgraziata nel quale versa solitamente una famiglia ebrea nel bel mezzo del secondo conflitto mondiale (un approccio che ricorda il film Train de Vie coevo di In The Aeroplane Over The Sea).  

Dopo due dischi, ci troviamo a salutare i Neutral Milk Hotel, Jeff Mangum lascia e si ritira dalla scena (salvo poi tornare con la formazione dei Neutral nel 2013), Laura Carter – turnista che ha contribuito alle registrazioni di In The Aeroplane Over The Sea, descrive questa scelta con le seguenti parole “ha voluto lasciare e diventare tipo Robert Wyatt – un recluso che esce fuori con un album ogni 10 anni shockando tutti quanti”. 

La chiusa, come tante volte capita è per la copertina del disco, frutto di una collaborazione tra Mangum e Chris Bilheimer, staff designer degli R.E.M.  che prendono una vecchia cartolina europea – raffigurante delle persone che si fanno il bagno – ritagliandola e modificandola, rendendola quasi metafisica nonostante lo stile grafico sia molto in linea con le grafiche degli anni ‘30 e ‘40, periodi trattati nel disco. 

EELS – Electro-Shock Blues

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“Quest’album è stato completamente terapeutico […] sono una persona migliore per questo. Ma non mi aspetto che il mondo lo percepisca”.

Facciamo un paio di passi indietro?

Se non conoscete gli EELS e la storia del suo leader E (all’anagrafe Mark Everett), vi consiglio di ritagliarvi 5 minuti, mettervi seduti e preparare i fazzoletti. Con Electro-Shock Blues probabilmente tocchiamo il punto di tristezza e depressione più basso mai raggiunto da Pillole Musicali 8 Bit (ma prometto che quest’ondata di tristezza terminerà con questo articolo… scherzo naturalmente).

È la notte tra il 18 e il 19 Luglio del 1982Hugh Everett III –  notabile professore di fisica quantistica a Princeton, dedito al fumo, all’alcool e alla lievitazione della ciccia, che credeva nell’immortalità quantistica – muore d’infarto nel proprio letto. Mark ha 19 anni ed è il primo ad accorgersi della situazione. Purtroppo, è tardi per intervenire. Scommetto che questo sia un bel cazzotto al quale è veramente difficile reagire.

Mark lo fa, si rimbocca le maniche e riesce ad avviare una carriera eccellente “Ero veramente arrabbiato con mio padre perché non aveva avuto cura di sé stesso. Non è mai andato a farsi visitare, si è lasciato andare prendendo kg, fumando 3 pacchetti al giorno e bevendo come un pesce, senza fare attività fisica. Ma poi ho pensato a ciò che dicevano di lui i suoi colleghi pochi giorni prima che morisse, che mio padre viveva una bella vita che lo soddisfaceva. Ho realizzato che lo stile di vita di mio padre si basava comunque su dei valori. Ha mangiato, bevuto e fumato quanto voleva e un giorno è morto in uno schiocco di dita. Morire rapidamente non è un brutto modo di andarsene.”

Arriva il successo con Beautiful Freak, disco d’esordio e la stupenda Novocaine For Soul che passa continuamente su MTV ed in radio, questo un po’ penalizza le dinamiche in fase creativa per il secondo lavoro, in quanto la casa discografica ora s’aspetta Beautiful Freak II (un po’ come avVienne per il seguito di Vienna degli Ultravox), per tale motivo Mr. E licenzia il management in tronco.

Purtroppo il successo non è accompagnato dalla buona sorte, nel 1996, anno di uscita di Beautiful Freak, la sorella di Mr. E si suicida e poco tempo dopo, la madre si ammala di cancro terminale ai polmoni. La vita talvolta sembra accanirsi, è spietata, ma Everett trova la chiave di trasformare in qualche modo il dolore “Le mie canzoni sono io che canto me stesso. Volevo riflettere su tutti gli aspetti della vita”, da questa sofferenza Electro-Shock Blues si forma: nel racconto che Everett fa della morte della sorella, dei trattamenti di elettro shock ai quali veniva sottoposta durante il TSO (come accennato nel brano d’apertura Elizabeth On The Bathroom Floor composto sulla base di un estratto del diario di Elizabeth, sorella di E), tantissime canzoni raccontano la sofferenza patita dalla sorella, e tante altre raccontano o fanno riferimento alle terapie che la madre ha dovuto affrontare (come nella straziante Dead Of Winter o in Cancer For The Cure).

Forse ora riuscite a comprendere il motivo per il quale Mark Everett ha rinunciato all’idea di fare un seguito di Beautiful Freak. Fortunatamente ha avuto modo di assecondare la propria idea di musica in un concept che risulta estremamente malinconico, soffuso, ma non triste, al quale hanno partecipato anche guest del calibro di Lisa Germano, Jon Brion e Grant Lee Philips.

Si percepisce la tristezza nell’essere l’unico membro della famiglia Everett in vita, ma al tempo stesso c’è l’auto-consapevolezza che la vita va avanti con tutte le sfumature del caso “La mia famiglia ed i miei amici sono morti. Ho cercato di ignorare tutto ciò dal punto di vista creativo, lo sentivo troppo personale. Ma poi ho scoperto che creativamente parlando sentivo una certa eccitazione, perché potevo legarla alla mia esperienza personale e darne un significato per chiunque. Ero eccitato all’idea di condividerlo, quando ho realizzato che ero un sopravvissuto e avrei fatto bene a apprezzare il presente in ogni singolo istante. Sono in contatto con l’idea di mortalità”.

È un dolore diverso da quello di Robert Smith in Pornography, ma in qualche maniera il modo di affrontarlo è lo stesso, scrivendo un album, sviscerando la natura del dolore, affrontandolo vis à vis il lutto e lasciando un messaggio di speranza con P.S. You Rock My World 

Laying in bed tonight i was thinking 
And listening to all the dogs 
And the sirens and the shots 
And how a careful man tries  
To dodge the bullets 
While a happy man takes a walk 
 
And maybe it is time to live

The Black Heart Procession – 2

Black Heart Procession - 2.jpg

Prosegue il nostro viaggio tra i dischi più ottimisti e colmi d’allegria della storia, non è il primo e non sarà l’ultimo, ma qual è il modo migliore per apprezzare l’autunno in tutte le sue sfumature? Insomma, è il ciclo della vita, l’autunno è per la tristezza e la primavera per la felicità, indi per cui poscia, non rompete i coglioni e sorbitevi questa dose depressiva che non sta mai male (so che non rompete i coglioni ma passatemi lo slang da duro suvvia) [la cosa figa è che sto scrivendo questo articolo con 40 gradi nel bel mezzo di un Agosto discretamente lontano dall’autunno che ho descritto poche righe sopra, ma mi immedesimo nel prossimo autunno, ecco torno a battere meccanicamente le dita sulla tastiera].

In questo ciclo di pubblicazioni si è formato inconsapevolmente un intreccio molto interessante tra differenti tipologie di dischi: con i The Black Heart Procession, i Dirty Three, Matt Elliott e poi con Julia Holter verranno trattati dei dischi che giocano un ruolo molto importante, quello di risvegliare la fantasia dell’ascoltatore visualizzando immagini durante l’ascolto.

Ognuno di questi dischi ha la capacità di immergere il fruitore in un mondo fuori dal tempo, consente di immaginare le scene, sentirle sulla propria pelle – in una malinconia tangibile ma non deprimente – aiutati da una ricerca dello strumento e del suono estremamente meticolosa. Mi auguro che troverete le stesse analogie da me evidenziate e che riusciate a scorgerne i tratti distintivi.

Con 2 – il secondo disco in due anni – i Black Heart Procession scrivono una pagina importantissima della musica degli anni ‘90, divenendo un punto di riferimento per la scena alternativa statunitense, in quel sottobosco musicale brulicante di grandi realtà musicali capaci di regalarci perle indimenticabili.

“Eravamo veramente tristi e bevevamo un botto [soprattutto whiskey a detta di Pall Jenkins ndr], e ci siamo detti ‘Oh sì, dovremmo scrivere delle canzoni super tristi’, non sto scherzando”, diciamo che i ragazzi californiani ci sono riusciti discretamente, partendo già dal nome, una scelta abbastanza cupa no? Beh quando nacque il gruppo Nathaniel e Jenkins venivano da un periodo turbolento sentimentalmente – inoltre erano in periodo di pausa dai Three Mile Pilot – e il primo disco nacque sotto l’influenza dell’alcool e della tristezza che poi si è riversata anche sul 2, questo spiega la scelta del colore nero, un modo di evidenziare l’umore dei ragazzi ai tempi, il cuore invece è la parola che più facilmente può essere associata all’espressione dei sentimenti, e per processione… lo spiega direttamente Jenkins “ci consideriamo un gruppo di persone caratterizzate da emozioni tristi, la parola processione, a nostro avviso, esprime proprio quest’idea di tristezza collettiva”.

In questo album dall’alone di tristezza tangibile, c’è un aspetto molto interessante rispetto agli altri album altrettanto tristi – coevi o che troviamo nello scenario musicale – ed è la voce di Jenkins, stridula e a tratti cacofonica quasi in disaccordo con la struttura dei brani. Abituati alle voci profonde e calde degli altri dischi, Jenkins si dimostra una variabile stilistica molto interessante su un tappeto musicale altrettanto valido, capace di rendere credibile l’interpretazione di testi estremamente sentiti e che hanno radici profonde nello stato d’animo dei ragazzi di San Diego.

L’intimità raggiunta in molti brani come Outside The GlassGently Off The Edge e Blue Tears è da pelle d’oca, l’uso sapiente delle tecniche di registrazione mostrano una linea di demarcazione molto profonda tra 2 ed i lavori di inizio decade, suonando attuale anche ai giorni d’oggi, riuscendo ad avere un attimo di brio solo con la stupenda It’s A Crime I Never Told You About The Diamonds In Your Eyes con quel piano un po’ alla Criminal di Fiona Apple e in pieno ‘90s (so ragtime du fin siècle).

È meravigliosa l’idea di cominciare e terminare il disco in una sorta di loop, come se ci si trovasse in una processione infinita, e le altre canzoni sono semplicemente le tappe della via Crucis. Il cigolio del cancello, l’ululato del vento, l’inverno che si avvicina con una tempesta in lontananza a presagire nulla di buono.

The Waiter no.2 e The Waiter no.3 sono delle perle che aprono e chiudono l’album sulla medesima struttura musicale, una saga malinconica quella di The Waiter che troviamo anche in 1 (disco d’esordio), Amore del Tropico (The Waiter no.4) e The Spell (The Waiter no.5), con una frase su tutte che risuona come una sentenza “And time won’t wait for us”.

Nick Cave & The Bad Seeds – The Good Son

Nick Cave & The Bad Seeds - The Good Son

Serendipità, questa orrenda parola d’autore (dal concetto meraviglioso) tradotta in italiano dall’inglese [serendipity ha tutt’altro impatto, non trovate?], è la parola che associo a The Good Son, perché ricordo che la sua scoperta per me è stata estremamente casuale, un po’ come avvenne a Cristoforo Colombo con la Colombia ero alla ricerca di altro e mi ritrovo questo disco così ben strutturato e potente, senza punti deboli.

Ho citato la Colombia, e restiamo in Sud America precisamente in Brasile (poi mica tanto distante dai cafeteros), paese fulcro per questo disco ed in particolare per la vita di Cave, arrestato nel 1988 e deciso a disintossicarsi. Il processo di pulizia viene favorito dal nuovo legame sentimentale di Nicolino che si accompagna alla giornalista Viviane Carneiro “Suppongo The Good Son sia un riflesso di quello che ho vissuto in Brasile nel primo periodo. Ero felice lì. Ero innamorato e i primi due anni sono stati buoni. Il problema che ho trovato è stato… che per sopravvivere avrei dovuto adottare la loro attitudine in tutto quanto, che è un po’ ottusa come cosa”.

Della serie la felicità non esiste, o se esiste non dura.

Bon, in questo contesto va ad incastonarsi il brano di apertura di The Good Son, quel Foi Na Cruz (Era sulla Croce) presa in prestito da un canto brasiliano di protesta e con qualche aggiunta nel pieno stile di Cave. La religiosità brasiliana è cosa risaputa e si trascina nel brano ricordandoci quanto Cristo si sia sacrificato per tutti. Al di là della tematica, non trovate analogie con From Her To Eternity? Entrambi i dischi cominciano con delle certezze che provengono dall’esperienza di Cave, prima Cohen e poi dalla tradizione del paese nel quale vive, partire dalle proprie radici per evolvere nel corso del disco in qualcosa di differente. Il cambiamento come motore unico.

La title track invece deve il proprio coro iniziale e finale a Another Man Done Gone, un canto della tradizione afro-americana, un brano registrato poi da Odetta e annoverato tra le ispirazioni di Nick Cave. The Good Son si ispira a Caino e Abele, un riferimento alla Bibbia dal quale attinge spesso e volentieri Cave per i propri sermoni apocalittici e che descrive la trasformazione e la sofferenza del “figlio buono”.  Una sorta di post-it che prosegue per tutto il disco come a mettere in guardia Cave stesso dal non commettere gli stessi errori del passato.

Negare il fascino per il sacro ed il profano è come affermare che la terra sia piatta [terrapiattisti de sto cazzo provate a negare il fascino del sacro e profano, merde], sicuramente è un terreno fertile per narratori e cantastorie, soprattutto per un ex tossico, tanto che anche The Witness Song è ispirato al gospel tradizionale americano Who Will Be A Witness?, nel quale Elvis in the Memphis in the Pelvis Cave potrebbe tranquillamente impersonare un santone battista moderno, tanto quanto è invasato e tarantolato nel canto, puntando il dito verso “Te, te e te! DATEMI UN AMEN CAZZO!”

Non mancano i momenti di dolcezza zuccherosa, tenerosa e amorosa, come in Lucy – brano a chiusura del disco – e The Ship Song o nel tango accennato di Lament. Il Sud America è presente anche nella bossanova di The Weeping Song, forse il momento più alto del disco, nel quale le voci di CaveBargeld si susseguono in un curioso gioco del perché tra un figlio – alla scoperta del dolore – ed il padre – intento a spiegargli che al peggio non c’è mai fine… ma tutto in modo molto paterno, non come ve l’ho liquidata io.

Forse il momento più cazzuto del disco però lo si ha con The Hammer Song, dove la grinta esce fuori di punto in bianco, dopo esser stata relegata per tanto durante il disco. The Hammer Song, insieme a The Witness Song, The Weeping Song e The Ship Song, sono rimaste – in uno slancio di fantasia – con il loro titolo provvisorio, attenzione a non sbagliarvi con The Good Son(g), che non è la buona canzone bensì il figlio buono.

Detta questa cazzata, i Bad Seeds qui fanno il culo a strisce a chiunque, grandi atmosfere, grande lavoro di fino da HarveyWydler che danno corpo all’opera senza invadenza.

Dirty Three – Ocean Songs

Dirty Three - Ocean Songs

Devo essere sincero, non ho realmente molto da dire riguardo i Dirty Three, avevo solo molta voglia di pixellare questa copertina, personalmente la trovo stupenda… poi vabbè qualcosa la si trova sempre da dire su Warren Ellis e soci.

Partiamo dall’ABC e vediamo se riusciamo a cavarne qualcosina di più interessante:

  1. Questo album è completamente strumentale, alcune composizioni sono decisamente lunghe, ma a chi non piacciono le cavalcate folk che si costruiscono sul suono di un violino a tratti ossessivo?
  2. È un concept album, decisamente molto evocativo, suggestivo e capace di accompagnare l’ascoltatore, prendendolo per mano, nelle atmosfere dei marinai, dei viaggi in mare e delle leggende che lo attorniano. Tra la salsedine e l’aria salmastra, il canto delle sirene e delle balene, le onde che si infrangono a poppa.
  3. L’uso sapiente dei titoli, accompagnato dalle melodie, riesce a narrare in maniera dettagliata quanto accade in questa via Crucis marina. Il canto delle Sirene inaugura il viaggio (Siren), seguito da un mare agitato e da onde senza sosta che scuotono l’imbarcazione durante il navigare (The Restless Waves), il miraggio di una battigia ed una corrente implacabile che allontana dalla riva la nave, il cielo che piange in una sorta di requiem e di abbandono ai flutti oceanici terminato in un bailamme sonoro, come ad indicare la voglia di lottare sino alla fine aggrappandosi con le unghie alla vita (Authentic Celestial Music), la quiete dopo la tempesta, una quiete interiore che rappresenta la riflessione del viaggiatore e la consapevolezza di essere stato uno stolto ad aver sfidato la maestosità del mare (Backwards Voyager). I resti di un relitto incagliati tra gli scogli e riversi sulla spiaggia (Last Horse in the Sand), il rovesciamento dei dogmi così come li percepiamo (Sea Above, Sky Below), e la marea nera che come una morte calma avvolge tutto ciò che incontra (Black Tide) inglobando l’ascoltatore (o il protagonista) nelle profondità oceaniche (Deep Waters), in una purificazione del mondo stile diluvio universale che porta alla completa estinzione dell’umanità (Ends of the Earth).
  4. Questo disco è un capolavoro assurdo.

La chiave di lettura che ne ho dato è unicamente frutto della mia immaginazione ed è ciò che ha scatenato in me Ocean Songs.

Alla fine, di qualcosa ho scritto, se siete arrivati sino alla fine dell’articolo, vi lodo per la fedeltà.

Mark Lanegan – Whiskey For The Holy Ghost

Mark Lanegan - Whiskey For The Holy Ghost

Continua il nostro fantastico viaggio nel tempo alla ricerca degli album che ti danno botte di morale à gogo. 

Vi prometto che al termine del suddetto ciclo di pubblicazioni – previsto per il 28 di Dicembre – potrete comporre la vostra perfetta compilation: struggente; per cuori solitari e finto-intellettuale. 

Dopo aver scaldato un po’ le dita scrivendo qualche cazzata, sono pronto a concentrarmi sul secondo disco solista di Mark. Gli Screaming Trees vengono alternati alla carriera solista, The Winding Sheet ha raccolto consensi e la nuova fase della carriera di Will Ferrell è cominciata; si percepisce un clima diverso nel disco, il grunge ha toccato l’apice così come il deterioramento di alcuni dei principali interpreti.  

La voce di Lanegan rispetto al disco d’esordio risulta più matura – stanca – come se fosse sempre sotto sforzo e alcolizzata, a tratti appare come una goffa imitazione di Tom Waits. “Here come the Devil, prowlin’ round/ One whiskey for every ghost/ And I’m sorry for what I’ve done/ Lord, it’s me who knows what it cost.” questa parte estratta da Borracho, ha molto di autobiografico, una condanna al bere per ogni rimpianto che accompagna la propria esistenza, dove il Diavolo è il lato oscuro che lo affligge e i fantasmi sono i rimorsi che non accennano a sparire. Ma ci sono altri casi di “autoflagellazione” nel disco, come quando fugge via da “una ragazza troppo brava per essere reale” in Sunrise, o alla maledizione di “passare una vita intera a pensare a te” struggendosi nello splendido brano d’apertura The River Rise. 

Mike Endino – che ne cura ancora la produzione e lo aiuta nella stesura dei brani – ricorda “Guardando indietro, non sono sicuro che fosse pulito durante le registrazioni del secondo album, questo di sicuro ha contribuito ad alimentare la mancanza di fiducia in sé stesso in quel periodo”, le sessioni portano via tre anni nei quali gli alti e i bassi di Lanegan si sono alternati vertiginosamente, un percorso tumultuoso tanto da creare problemi anche durante il tour di Whiskey.  

Al disco non partecipano CobainNovoselic, ma J. Mascis, Dan Peters dei Mudhoney, senza dimenticare Pickerel ex batterista degli Screaming Trees, come a dire il corollario è sempre di gran livello e di qualità per consentire la riuscita del disco, ricorda in piccolo quanto fatto per Syd Barrett in The Madcap Laughs, anche se Lanegan versa in situazione di coscienza seppur alterata da droghe e alcool.  

Lo si sente dalla struttura delle canzoni – estremamente reiterate in alcuni passaggi – quasi come se si incantasse su un punto in una sorta di autismo; la condizione mentale ad un certo punto è quasi compromessa tanto che Endino riesce a fermare Mark mentre cerca di buttare nel fiume il master con le registrazioni del disco… non doveva proprio star bene, eh già. In sé Whiskey For The Holy Ghost sicuramente non passa alla storia per gli arrangiamenti o la struttura musicale, quanto per l’attitudine di Lanegan al canto e alla scrittura (nella quale fa un salto in avanti non indifferente rispetto al precedente lavoro), creando un percorso musicale coerente, di rara potenza nonostante sia volutamente lento e stordito. Ricorda molto in questo Townes Van Zandt (sia nell’alcolismo che nello stile), senza la proverbiale freddezza che permeava la maggior parte della produzione del cantautore texano. 

Lo si percepisce chiaramente nella traccia di chiusura, la stupenda Beggar’s Blues, una dilatazione musicale quasi esagerata, tanto da rendersene conto e sentirlo dire “That’s All” concludendo la sua parte mentre la musica si spegne dopo di lui, quasi come se lo seguisse fuori dallo studio di registrazione.