Suede – Suede

Suede - Suede

L’entrata nel mercato discografico da parte dei Suede è decisa e fortunata, acclamati da pubblico e critica, riescono a ritagliarsi una vetrina importante nello scenario del britpop. L’omonimo Suede è stato registrato con 105.000 sterline ed ha avuto un hype da parte della critica albionica – notoriamente mai troppo tenera – riservato in passato solamente a pochi eletti.

L’androginia bowiana torna di moda a 20 anni di distanza dall’ascesa del glam-rock, l’atteggiamento e l’abbigliamento di Brett Anderson – decisamente effeminato – giocano un ruolo preponderante nel successo dei Suede. La scelta delle tematiche narrate all’interno dell’album dal duo Anderson/Butler fanno il resto: depressione e sessualità vengono trattati in misura paritaria, la cover del disco anticipa senza troppi veli a cosa andiamo incontro. Il bacio della coppia androgina è prorompente e di forte impatto, cavalca l’onda dell’estrema apertura mentale avuta nel Regno Unito ad inizio anni ’90 dopo una demonizzazione globale conseguenza della caccia alle streghe per la diffusione dell’AIDS.

Anderson ha più volte cercato di rimarcare il fatto che il disco non sia autobiografico per quanto si basi su sentimenti reali e fatti immaginari. Per quanto possiamo credere alle parole del frontman, non possiamo automaticamente escludere che in So Young non venga trattata l’overdose della sua ragazza dell’epoca; o che la morte di sua madre non venga metabolizzata in The Next Life. Ulteriori riferimenti sono possibili da cogliere in She’s Not Dead che sarebbe la storia del suicidio di sua zia e del suo amante, così come in Breakdown si approfondirebbe la depressione di un suo amico di scuola. Insomma, come avrete desunto torniamo a parlare di argomenti radiosi in questi spazi.

Il boom i Suede lo fanno però con Animal Nitrate, una canzone che parla di violenza, abusi, sesso e droga, nello specifico il nitrato di amile (popper)… non sarà autobiografica (forse), ma anche in questo caso non andiamo molto sul leggero.

Il video suscitò parecchio scalpore per un bacio tra due uomini che ne ha decretato il divieto di trasmissione di lì a poco. Oltretutto, Anderson credeva che sarebbe stata una buona idea replicare l’effetto da band live nel videoclip, perciò portò un po’ di cocaina durante le riprese così che tutta la band si immedesimasse in una situazione da “musica dal vivo”. Per questo motivo tutti i membri nel video danno l’idea di vivere in una condizione decisamente eccitata.

Non mancano però momenti puramente pop e glam con gli altri due singoli: The Drowners – vero e proprio inno britpop che ha influenzato musicalmente gran parte dei gruppi inglesi a venire – e Metal Mickey che richiama le hit pop anni a cavallo tra i ’60 e ’70 ma con vestiti moderni.

Radiohead – Ok Computer

Radiohead - OK Computer

I Radiohead non sono mai stati simpatici, ma compensano decisamente con la loro bravura (anche se considero estreme e auto-celebrative e auto-compiacenti alcune recenti scelte e registrazioni), Ok Computer è il punto in cui l’asticella si è alzata, registrando un cambio di passo deciso.

Ok Computer coincide con la definitiva morte del britpop, la domanda è: come uscirne fuori distaccandosi in maniera netta dai fasti di The Bends? Con un complesso mix tra Noam Chomsky, R.E.M., PJ Harvey, Beatles, Elvis Costello, Miles Davis e Can… un bordello di gente che ha contribuito a creare uno dei sound più riconoscibili degli anni ’90.

L’esempio di quanto scritto poco sopra è Paranoid Android, nata per essere di 14 minuti, viene asciugata dagli orpelli presentandosi a noi in 6 minuti nei quali sono amalgamate 3 canzoni differenti – sullo stile di Bohemian Rhapsody – che indicano tre differenti modalità di scrittura approcciate da occhio vispo Yorke. Questo brano nasce in origine con una connotazione “divertente” – il titolo deriva infatti da Marvin l’androide paranoico di Guida Intergalattica per Autostoppisti – per poi dirigersi verso temi più impegnati come la follia, la critica al capitalismo e la violenza fisica e verbale. Tutti questi elementi sono visivamente raccontati in modo grottesco da Robin (dell’omonima serie Robin), il protagonista del videoclip animato da Magnus Carlsson – che inizialmente credeva di dover animare il video per la canzone No Surprises.

In fase di scrittura Colin Greenwood ha dichiarato che l’ispirazione è stata ricercata in Happiness Is A Warm Gun, mentre in fase di missaggio nell’album Magical Mistery Tour, per via della difficoltà riscontrata nel trovare una coda degna ed in armonia con il brano (andando a sostituire l’organo hammond con un outro in chitarra).

I temi evidenziati in Paranoid Android ritornano in parte in Karma Police, definita da Yorke e Legnoverde “una canzone scritta per chiunque lavori nelle grandi aziende, una canzone contro i capi”. Il concetto di polizia del Karma deriva dal vezzo che i membri della band avevano di chiamare la polizia del Karma qualora avessero fatto qualcosa di sbagliato. Il video è diretto da Glazer (lo stesso di Street Spirit’s Fade Out) che qualche mese prima aveva proposto lo stesso concept a Marilyn Manson (naturalmente ha rifiutato).

Il registro cambia in No Surprises, prima canzone dell’album ad essere registrata, scritta durante il tour da spalla degli R.E.M. nel 1995. Tutti ricorderanno l’apnea da un minuto di Yorke, ma una volta completamente ricoperto d’acqua, la videoregistrazione è stata girata ad alta velocità per poi essere riproposta nel videoclip in slow-motion. Bravo Tommasino, ci hai fregato tutti quanti!

I tre singoli principali di Ok Computer offrono una panoramica di ciò che si trova all’interno dell’album; album che ha ricevuto critiche positive oltre che un grande riconoscimento dal pubblico, segnando l’ascesa definitiva dei Radiohead nel mercato musicale.  Ok Computer è lo spartiacque definitivo, è il mezzo che dirige i Radiohead ad un processo creativo sempre più cerebrale e complesso.

Radiohead – The Bends

Radiohead - The Bends

Dopo Pablo Honey – esordio e puro calderone di stili – The Bends rappresenta l’identità che i Radiohead hanno deciso di vestire, una ricerca di sonorità e una depressione di fondo che contraddistingueranno tutti gli album a venire.

“Riconoscibilità” è  il sostantivo adatto per spiegare quest’album, tale “riconoscibilità” è stata cercata da tutti i membri della band (su tutti da Jonny Greenwood) al fine di prendere le distanze dal successo – considerato troppo commerciale e popular – ottenuto tramite i singoli del precedente album, su tutti Creep canzone richiesta con insistenza durante ogni loro concerto (l’odio dei Radiohead verso Creep è risaputo, forse per questo motivo Thom Yorke, sfregandosi le mani ed ammiccando con l’occhio birbo, ha deciso di accordare a Vasco il permesso di farla odiare anche ai più).

The Bends è un tripudio, viene immediatamente acclamato ed incensato dalla critica che ne esalta le qualità ponendolo nei must have di ogni musicofilo. Alcuni brani come Fake Plastic Trees e Street Spirit (Fade Out) sono prodromi di OK Computer, le tematiche dei testi – influenzate dal periodo di stallo vissuto tra Yorke e il resto della band – sono state sviluppate durante il tour americano e sono una critica aspra verso la società dell’epoca.

Just è forse il pezzo più rappresentativo, con un assolo finale che martella i timpani e con un ritmo ipnotico che stordisce l’ascoltatore. La canzone dovrebbe essere dedicata ad un amico vanesio di Yorke.

La celebrità di questo brano è in gran parte legata al videoclip che – oltre a mostrare la band intenta a suonare ed affacciarsi dalla finestra di un palazzo per vedere cosa accade – ritrae un tipo che si sdraia in mezzo ad un marciapiede attirando l’attenzione di gente curiosa, che cerca di capire cosa sia successo. La conversazione tra queste persone – riportata agli spettatori mediante dei sottotitoli – raggiunge un climax che porta loro a chiedere al tizio sdraiato le motivazioni del suo gesto.

Lui risponde senza problemi, ma quei simpaticoni dei Radiohead ci tolgono i sottotitoli e noi non capiamo un cazzo.

Fatto sta che alla fine tutti si sdraiano sul marciapiede… lo so, detto così è una merda, ma che ci volete fare?…

Secondo alcuni detrattori sia il regista che la band non hanno mai saputo cosa far dire al tipo sdraiato, lavandosene le mani e togliendo i sottotitoli. Secondo altri le parole pronunciate potrebbero essere “Il fondo è la nuova vetta” o “I Radiohead sono alla finestra”, che dimostrerebbe già quanto il loro ego fosse spropositato sin dagli albori.

High and Dry proviene dalle sessioni di registrazione di Pablo Honey, scartata perché a detta della band troppo simile ad un pezzo di Rod Stewart, è stata poi introdotta senza eccessivi patemi d’animo in The Bends.

Diversa è la genesi di Fake Plastic Trees, che prende forma dopo un concerto di Jeff Buckley.

I Radiohead aveva incontrato difficoltà nel concepimento di questo brano e una pausa presa per andare a vedere il concerto di Buckley si è dimostrata provvidenziale; il fascino e lo stile esercitato dal cantautore statunitense ha mostrato la via per il completamento della canzone.

Street Spirit (Fade Out) è la tipica canzone che ti induce al suicidio: bella, bellissima, ma da non sentire durante una crisi depressiva. Lo stesso Yorke ha descritto questo brano come un tunnel oscuro senza la luce alla fine… insomma un segnale di speranza. Per chi volesse tagliarsi le vene e cercasse ispirazione, è stata reinterpretata anche da Peter Gabriel (se siete alla ricerca di stimoli per non vivere più, ve la consiglio).

L’artwork è curato da Stanley Donwood in collaborazione con “sòtuttoio” Yorke, che originariamente aveva in mente di utilizzare per la copertina un polmone d’acciaio salvo poi cambiare idea. La copertina è stata realizzata proprio all’ultimo minuto con una foto edulcorata di un fantoccio medico con la faccia di Yorke.

R.E.M. – New Adventures In Hi-Fi

REM - New Adventures In Hi-Fi

Questo è un disco al quale sono molto affezionato, ma è troppo lungo… veramente. E’ il più lungo degli arriem, e batte di poco Up. Alcuni brani si dilungano in maniera eccessiva, tolta questa critica, restano molti i punti a favore di New Adventures in Hi-FI.

E’ un album fondamentale se circoscritto alla storia della band, in cui si raggiunge la consapevolezza di quanto Stipe e soci siano affiatati e tengano l’un l’altro; oltretutto è foriero di addii, in quanto è l’ultimo lavoro con Bill Berry oltre che con lo storico produttore Scott Litt e il manager Jefferson Holt. Alcune registrazioni vengono effettuate durante il tour del 1995, queste tracce sono state successivamente riutilizzate per realizzare le canzoni (uno dei motivi per il quale gli R.E.M. si sono ispirati a Time Fades Away di Neil Young).

Sicuramente nella mente dei più restano due dei brani più rappresentativi degli R.E.M., presenti in questo album: E-bow the Letter ed Electrolite.

La prima vede una collaborazione con Patti Smith, madrina spirituale della band (un po’ come Neil Young con i Pearl Jam). L’ascendente che Smith ha su Stipe si nota fortemente nell’espressività e nelle performance dal vivo degli R.E.M., Michele Stipite attinge a piene mani da ciò che è stata Patrizia Fabbro. Per chi non lo sapesse, l’E-bow è uno strumento magnetico che posto vicino alle chitarre offre un effetto riverberato e continuo (a mò di violino), accoppiato al canto di Patti Smith trasmette una sensazione di espiazione e di litania – probabilmente rivolta a River Phoenix (così come tutto Monster).

Curioso invece l’aneddoto che va a costituire poi Electrolite, ispirata dal terremoto del 1994 a Northridge (California, verso Los Angeles). Stipe in quel periodo viveva a Santa Monica e svegliandosi per il terremoto, si affacciò dalla finestra vedendo le luci notturne di Mullholand Drive, definita da Stipe “iconica”.

La citazione di tre dei principali figli dell’industria di Los Angeles come Dean, McQueen e Sheen – rappresenta le diverse sfaccettature di mascolinità, uno dei principi cardine del ventesimo secolo. Quasi a voler porre l’accento sul forte dualismo tra modernismo e futurismo sull’idea di società da creare, stigmatizzando lo stereotipo di uscire dal passato rimpiazzandolo con qualcosa di necessariamente migliore.

Stipe a Storytellers racconta un aneddoto curioso “ero dal dentista, che casualmente era lo stesso di Martin Sheen ed in quel momento si trovava lì per una devitalizzazione, perciò mi sono alzato e gli ho detto ‘hey sai che abbiamo un disco che uscirà entro un paio di settimane, e tu sei menzionato in una canzone? Lo abbiamo fatto per ammirazione e non voglio che tu pensi che il nostro intento fosse quello di prenderci gioco di te.’ E lui con la bocca aperta e col dentista che lavorava sui suoi denti rispose ‘GVAFFIE MHILLEHH'”

Mi sono dilungato anche troppo su questo articolo, termino scrivendo che la parte di piano di Electrolite invece viene composta da Mike Mills nel suo appartamento prima di essere condivisa con il resto della band.

R.E.M. – Monster

 

REM - Monster

“Qual è la frequenza Kenneth?”

Siamo a New York ed è il 1986, quando due assalitori prendono di mira il reporter Dan Rather. La missione vitale dei due è scoprire la frequenza della trasmissione dei messaggi subliminali – dentro la loro testa – da parte dei media. E’ tutta una faccenda di scie chimiche e berretti di carta stagnola.

La Generazione X e la sua relazione con i mezzi di comunicazione di massa, ci viene cantata da Stipe in What’s the Frequency, Kenneth? La riflessione dietro al brano è la seguente: ” ho scritto di un protagonista che cerca di capire le motivazioni dietro le nuove generazioni, […] alla fine della canzone ciò che resta è completamente fasullo, non c’è nulla”. Buck in seguito ha rivelato che il ritmo della coda è in costante rallentamento per via dell’appendice di Mills – infiammatasi a fine registrazione. Ricoverato d’urgenza, la canzone non subirà ritocchi è verrà mantenuta come tutti la conosciamo.

Aldilà della coda in What’s the Frequency, Kenneth? Monster è sicuramente uno dei lavori più riconoscibili degli arriem, per lo stile graffiante di Buck alla chitarra, ma anche per l’interpretazione che Stipe offre nei brani dell’album (tra falsetti e reading teatrali). C’è un palese cambio di passo dopo i precedenti Out Of Time e Automatic For The People. La ricerca di un sound differente basata sull’utilizzo di una ampia gamma di strumenti acustici, viene soppiantato da una formazione classica e dai volumi elevati delle chitarre e delle distorsioni. Gli R.E.M. portano in studio 45 brani, di cui molti acustici, Stipe prende l’abitudine di cantare delle idee di canzone – sulla linea di basso – mentre è steso sul divanetto degli studi, con questo metodo ha scritto molti dei testi presentati poi in Monster.

Il 1994 non è solo l’anno di pubblicazione di Monster, è un crocevia musicale non indifferente: il Grunge comincia il suo rapido declino, Kurt Cobain si suicida e Stipe scriverà per lui Let Me In. L’intero album viene invece dedicato alla memoria dell’altro amico di Stipe River Phoenix (la sorella Rain farà da coro su Bang and Blame – cavallo di battaglia della band). Questi lutti definiscono in modo sostanziale MonsterStipe li subisce emotivamente, venendo colpito da un blocco creativo.

La prima canzone che vede la luce successivamente a questi eventi è Crush With Eyeliner – anche in questo caso per i cori la band si avvale di un ospite d’onore, Thurston Moore dei Sonic Youth – brano fortemente ispirato dai New York Dolls e dalla loro capacità di “esagerare”. Il videoclip è diretto da Spike Jonze, collaborazione che proseguirà in Essere John Malkovich, film prodotto da Stipe pochi anni dopo.

Strange Currencies, è il singolo che viene rilasciato ad un anno dalla scomparsa di River Phoenix, e vede nel videoclip la comparsa di Samantha Mantis (ultima ragazza dell’attore). Per via della somiglianza melodica con Everybody Hurts, la band lavorò in modo determinato sul ritmo per differenziarla.

La chiusura dell’articolo è dedicata a Tongue, canzone rigorosamente in falsetto che parla di cunnilingus. Nel 1995, durante l’esecuzione di questo brano, Bill Berry abbandona il palco per un mal di testa, che poi sfocerà nell’aneurisma cerebrale che lo porterà a lasciare la band.

Ad ogni ascolto della canzone dal vivo, Berry non nasconde di provare una forte senso di angoscia… supponiamo non sia legato al discorso cunnilingus.

PJ Harvey – To Bring You My Love

 

Pj Harvey - To Bring You My LoveLa consacrazione definitiva per PierJulia Harvey arriva con To Bring You My Love.

I proventi derivati dalle prime due fatiche discografiche consentono alla nostra eroina di acquistare casa nella nativa Yeovil – a poca distanza dall’abitazione dei genitori – ove dalla finestra osserva, come una novella Leopardi, distese di campi. L’ispirazione facilitata dall’ambiente e dall’assenza di vicini getta le fondamenta del terzo album, che prende vita nel 1994.

Si abbandona un po’ l’aggressività strafottente e l’attacco al concetto tradizionale di mascolinità, si canta di perdite, appartenenza e amori che sfuggono, viene introdotto inoltre il tema religioso. Curioso quest’ultimo aspetto in quanto – come per Nick Cave -non c’è fede nell’artista (che non è stata nemmeno battezzata) ma è tema che ricorre nelle canzoni, una sorta di giustificativo e palliativo per poter affrontare gli ostacoli della vita e trovarne il senso.

Ulteriore carattere distintivo dell’album è la continua citazione a Captain Beefheart; difatti la title track che ci introduce nell’album, è la frase di apertura di Sure ‘Nuff ‘n Yes I Do (primo brano di Safe as Milk) con “I was born in the desert”.

Anche in Meet Ze Monsta prende in prestito la frase Meet the Monster Tonight dal brano Tropical Hot Dog Tonight (album Shiny Beast).

Oltre a queste due citazioni palesi, ci sono dei richiami più o meno nascosti e a tratti anche frutto di un’interpretazione azzardata. Sempre da Safe as Milk c’è una somiglianza delle melodie e dei testi con Dropout Boogie, mentre in Teclo la linea melodica è il riflesso di Her Eyes Are A Blue Million Miles.

Captain Beefheart è nell’imprinting musicale della Harvey, negli ascolti d’infanzia che la facevano star male; la riscoperta di CuorediManzo con un accezione positiva è merito di John Parish – polistrumentista e produttore che ha avviato una lunga e positiva collaborazione con PolliJijia – capace di ravvivare l’interesse della cantante regalandole la musicassetta di Shiny Beast.

Non si può terminare senza aver citato il brano che – nell’immaginario collettivo – rappresenta l’album: Down By The Water. In controtendenza – per via dei synth – e in contrasto con l’immagine e l’idea musicale che finora ha trasmesso PolliJijia.

Il videoclip – girato anche questa volta dalla Mochnacz – ci mostra la nostra eroina in panni totalmente diversi rispetto a quanto ci ricordavamo: dall’approccio sfatto e menefreghista, alla cura nell’aspetto e nei movimenti meno concitati.

La filastrocca che chiude la canzone è in parte ripresa dalla canzone folk – di inizio ‘900 – Salty Dog Blues nella versione di Lead Belly.

La bellezza dell’album, risiede nella presenza di numerosi easter eggs – sparsi qua e là dalla PJ – che rendono tributo a coloro che in un modo o nell’altro hanno formato la sua coscienza musicale, ma anche nell’evoluzione compiuta nella scrittura dei brani e nella familiarizzazione con i propri mezzi.

PJ Harvey – Rid Of Me

Pj Harvey - Rid Of Me

Patata Joconda Harvey, si mette a nudo per il suo secondo lavoro – con una faccia degna di chi si è appena svegliata e gli occhi pieni di cispe – viene immortalata mentre scuote i capelli bagnati nel bagno di casa sua. Le esigue dimensioni della stanza non hanno concesso alla fotografa – tale Maria Mochnacz – di inquadrare Pigéi, e lo scatto è stato eseguito al buio con il solo flash della macchina fotografica (ecco spiegato il perché della faccia assonnata di Patata J.).

La cara Mochnacz si occuperà anche della direzione dei video di 50 ft. Queenie e Man-Size, per quanto riguarda il primo videoclip il consiglio è di non vederlo appena mangiato – perché le inquadrature sono un misto tra Lucignolo e Rusty Cage – ne uscireste con una discreta nausea. Man-Size invece porrà sotto i vostri occhi una gestualità degna del buon caro Nicola Caverna (all’epoca dei fatti conosciuto come Nick Cave futuro partner sentimentale della Harvey), oltre che una scena in bianco e nero in cui la nostra amica è seduta con mutandone della nonna e naso colante – che non ha più idea di come arginare.

Per quanto io ne parli in maniera ironica, questi videoclip manifestano al meglio il sentimento e la felicità di PJ Harvey: “Faccio tutto per me stessa prima di tutto, e sono felice di questo. Non ascolto le persone quando hanno qualcosa di positivo da dirmi, questo perché tendo a non elogiarmi. Ma sono veramente soddisfatta di Rid of Me. E’ stato veramente un momento perfetto della mia vita. O almeno non proprio perfetto, ma vicino alla perfezione.”

Anche in questa occasione (come in Dry) la PJ è accompagnata da Rob Ellis e Steve Vaughan, formando così un power trio che esprime un tipo di musica rude e aggressiva, dettata da tematiche perlopiù (ndr. è triste che stessi per scrivere “Piero Pelù”, non oso immaginare che tipo di tematiche potessero essere correlate) autobiografiche come ammesso dalla stessa Polligianna: “Rid of Me si riferisce ai miei malanni, in parte può essere considerato psicotico, alcune canzoni sono ispirate da fatti che mi sono accaduti, ma dovrei avere almeno 40 anni per aver vissuto tutto ciò che descrivo in questo lavoro”.

La title-track è un crescendo che scopre piano piano le potenzialità vocali di PolliGigia sfociando in un vortice grungettone e primitivo coi controcazzi (grazie al sapiente lavoro di Steve Albini che ci ha dato sotto di feedback e distorsioni) con un grido afono che chiude il brano, altro che quella bagasciotta di Courtney Love. Una menzione di onore – a mio avviso – va alla cover di Highway 61 Revisited, che fornisce una idea ben precisa degli arrangiamenti adottati da Patata Joahssen Harvey in questo album.

Rid of Me è il classico esempio di rock anni ’90 sapientemente gestito senza apparire mai banale o stancante: powerchord a manetta, linee di basso potenti e blueseggianti, strutture energiche e scarne che pongono in risalto la teatralità e l’estro di PolliGiovanna.

Nick Cave & The Bad Seeds – Murder Ballads

Nick Cave and the Bad Seeds - Murder Ballads

Le Murder Ballads sono una delle espressioni più tipiche della musica folk angloamericana, perfettamente centrate con la poetica e lo stile di Nicola Caverna.

Murder Ballads non è solo il titolo ma anche la sinossi dell’album, un concept incentrato su omicidi – storie d’amore naufragate, dilemmi morali, vittime e carnefici – in una sorta di Antologia di Spoon River versione 2.0, che ha rappresentato un enorme successo di critica e di pubblico grazie anche alla partecipazione di PJ Harvey (all’epoca squinzia di Nick Cave) e Kylie Minogue (all’epoca molto fica).

Stagger Lee – storpiata in Stagolee – narra fatti di cronaca nera (in quanto Lee di origine afroamericana) avvenuti realmente nella fine del ‘800 che hanno in Lee Shelton “Stag” il protagonista (stag in slang significa “senza amici”, da ciò si evince che se ci fosse stato Facebook nel 1800 sicuramente si sarebbe potuta evitata una carneficina). Tanti i musicisti che nel corso degli anni hanno raccontato la follia compiuta da Stagolee, reo di aver ucciso un barista – e non solo – per futili motivi nella notte di Natale, entrando nell’immaginario collettivo degli americani. Nick Cave rispetto a tutte le altre versione, narra la storia in maniera molto cruenta, anacronistica (portando i fatti agli anni ’30 del XX secolo) e da una prospettiva neutrale, dove lo stesso Stagolee anti-eroe (come Butch e Cassidy o altri casi di banditismo americani) si definisce “bad motherfucker”.

Si prosegue con Henry Lee, che non è il fratello di Stagger, bensì il secondo brano proveniente dal filone tradizionale, interpretato magistralmente con PJ Harvey.

La canzone ha origine in Scozia come Young Hunting, ha le proprie varianti nel resto del Regno Unito ma anche negli Stati Uniti (qui conosciuta come Henry Lee e Love Henry) e ci racconta di una donna che non trovando il proprio amore corrisposto decide di porre fine alla vita dell’uomo (della serie “o io o nessuna”).

Il testo della versione di Cave è mutuato dalla versione di Dick Justice, ma la struttura musicale viene stravolta e da ballata campagnola – con forcone e spiga di grano in bocca – a nenia cupa (melodia resa poi tzigana e utilizzata in The Curse of Millhaven).

Il boom di questo album però è quasi totalmente imputabile al duetto con Kylie Minogue, all’epoca fidanzata con Michael Hutchence, che funse da intermediario tra Cave e la Minogue.

Candidamente la cantante ha successivamente ammesso di non conoscere quasi affatto Nick Cave prima di ricevere la proposta di collaborazione. Oh rabbia!

Fatto sta che anche Where the Wild Roses Grow trae ispirazione da un canto tradizionale (Down In the Willow Garden, ri-arrangiata e presente nel lato B del singolo con la Minogue), ma è stata appositamente scritta per la cantante; difatti Nick Cave ha avuto un’ossessione di circa 6 anni per lei che l’ha portato a buttare nero su bianco il brano, incentrato sul dialogo tra l’assassino e l’assassinata.

Song of Joy è il brano di apertura del disco; il titolo è un gioco di parole che offre una doppia chiave di lettura “Canzone della Gioia” e “Canzone di Joy” lasciando presagire lo spirito triste e agrodolce di Murder Ballads. 

Si descrive il viaggio di un uomo – alla ricerca dell’assassino di sua moglie (Joy) e dei suoi figli – che fermandosi in una baita di notte racconta tutti i suoi cazzi all’oste. Mano a mano si arriva alla fine del brano con un dubbio sottinteso, non sarà che il marito è l’omicida? Non vorremmo essere nei panni dell’oste (chili e chili di merda). Questo brano sembra sia il seguito di Red Right Hand presente in Let Love In.

La cover di Dylan, Death is Not the End è una We are the World dei poveri che chiude il disco ed è l’unica canzone nella quale non muore nessuno.

Alla fine dell’album possiamo contare 65 omicidi (di cui 23 solo in The Curse of Millhaven).

Pearl Jam – No Code

Pearl Jam - No Code

No Code è uno degli album di protesta sociale più significativo degli anni ’90, in quanto concepito durante il transito della band presso la Salerno-Reggio Calabria.

La quarta fatica targata Pearl Jam non soddisfa a pieno lo zoccolo duro dei fan – così come per i Soundgarden – incapace di accettare la morte del Grunge.

Eppure la band – che sapientemente ha saputo vestirsi di nuovi abiti già con Vitalogy – dimostra un ulteriore passo verso quella maturazione artistica che ne garantirà la longevità.

Il processo creativo di No Code è stato più che tortuoso; le sessioni di registrazione ed il tour procedevano di pari passo, nel mentre le acrimonie tra i membri stavano accrescendo, così come la quantità di lavoro pro-capite. Il paciere in questo caso ha il nome di Jack Irons – ex batterista dei Red Hot Chili Peppers e membro dei Pearl Jam dalla fine dell’era Vitalogy – che costrinse i membri al confronto mettendoli faccia a faccia di fronte ai problemi e consentendo la finalizzazione dell’album.

No Code affronta temi quali la morale, l’esame di coscienza ed i dilemmi spirituali, mettendo su nastro tutto quello che la band ed i suoi membri hanno affrontato e stavano vivendo all’epoca.

Vedder ci spiega anche la vera ragione dietro alla scelta del nome dell’album: “E’ chiamato No Code perché è pieno di codici. E’ disinformazione”; questo messaggio traspare in maniera chiara anche osservando la cover – ricca di polaroid, come a voler comunicare tutto e nulla (tra le quali appare anche l’occhio di Dennis Rodman grande amico dei membri della band). Cambiando prospettiva, e aumentando la distanza, si nota come la disposizione delle istantanee formi un triangolo con un occhio, ovvero il logo di No Code.

La sperimentazione dell’album è relativa, brani come Hail, Hail, Habit e Lukin, non nascondono le origini dei Pearl JamSometimes è prodromica della carriera cantautoriale di Vedder; ma il valore aggiunto del disco è Red Mosquito dove la steel guitar la fa da padrona. E’ una delle canzoni più richieste nei concerti dei Pearl Jam e molto spesso viene eseguita assieme a Ben Harper alla steel guitar.

Durante le sessioni di registrazione del brano, McCready ha il vezzo di utilizzare – come slider – un vecchio Zippo appartenente al padre di Vedder, che lo stesso cantante seppur restio si convince a donargli giorni dopo.

Red Mosquito nasce da un’intossicazione alimentare che costringe Vedder al letto di un ospedale, la sensazione che prova è come se fosse rinchiuso in una stanza con una zanzara che lo tormenta. Quella zanzara è il concerto al Golden Gate Park, dinnanzi a 50mila anime, e sul palco c’è un ospite d’eccezione: Mr. Neil Young.

Vedder abbocca all’amo di zio Neil e lascia in fretta e furia l’ospedale, limitandosi però a cantare solamente 7 canzoni, il resto lo fa Nello, che traghetta – da buon leader – la band per tutto il concerto (sodalizio già rodato nel disco Mirror Ball.)

Ben Harper – Fight For Your Mind

Ben Harper - Fight For Your Mind

Ben Harper è un tipo che ha registrato tante belle cose: un po’ con la chitarra acustica, un po’ con la steel guitar, un po’ con i Criminale Innocente, un po’ con gli Inarrestabile7Fight For Your Mind rientra nelle prime due categorie citate sopra, in questo album si cominciano a formare quelli che poi saranno gli Innocent Criminal.

Le origini di Trecciolino (questo il soprannome all’epoca dei fatti) sono riconducibili a questo grande album, un vero e proprio manifesto ove affondano le radici della sua poetica e del suo sound. Diciamo che si mostra per benino nel panorama internazionale e ci illustra in modo alquanto chiaro le tematiche a lui care quali:

  • l’importanza di chiamarsi Ben e non Mal (distaccandosi così dal pericolo di generare una hit trash al pari di Furia);
  • salvare il mondo;
  • non fare guerre;
  • fare surf;
  • fumare troca leccera e fare altre cose giuste e non sbagliate.

La dicotomia tra Ben e Mal si fonda su questi saldi princìpi un po’ alla “Socialismo vs Capitalismo”.

Aldilà di questa distinzione fondamentale, Fight For Your Mind raffigura indiscutibilmente la volontà di Harper di far sentire il suo grido e la sua forza vitale al mondo per poter lanciare un messaggio diretto alle anime intorpidite e ad una generazione X-Y più attratta dai dindini e dal divertimento, piuttosto che da quello che accade.

Trecciolino è il grillo parlante della situazione e le pensa tutte pur di farti sentire una merda, ma indora la pillola provando anche a spronare le ggenti a fare meglio e ad ingegnarsi per uscire da quella nube sociale di catatonìa e afasìa. Il modo migliore di combattere questa stasi ci viene suggerito in Burn One Down, forse la più audace canzone pro-erba (non la località di Como) che lo stesso Harper ha definito “Il momento nel quale James Taylor incontra Bob Marley [e si fumano un torcione]”. Oltre le facili ironie, questa canzone mostra semplicemente i toni dolci e ritmati che diventeranno il marchio di fabbrica del Ben acustico e placido.

Gli ideali harperiani – volti al rispetto, alla rivolta emotiva e alla libertà – vengono visivamente rappresentati nell’artwork della cover (retro), in quanto ogni canzone è affiancata da una diversa coccarda tricolore volta a rappresentare le diverse nazioni africane, (Angola, Camerun, Repubblica Centrafricana, Chad, Uganda, Egitto, Niger, Ghana, Kenya, Nigeria, Somalia, Costa d’Avorio ed Etiopia) con l’aggiunta della Giamaica, dimostrando un legame molto intenso verso i popoli dei paesi in via di sviluppo.

La lezione di geografia è finita, andate in pace.

p.s. L’album è bello.