Lino Capra Vaccina – Antico Adagio

Ecco questo è un disco stracazzuto.

Sono convintissimo che chi ha letto il titolo e l’autore, se non ha un minimo di confidenza con la scena italiana sperimentale, avrà tuonato un sonoro “uè belin mi prendi per i fondelli?”.  

Beh, l’abito non fa il monaco e le capre solitamente sono ovine, però non stiamo a guardare il pelo nell’uovo, suvvia! Proverò a farvi ravvedere.  

Prima di tutto, il signor Lino Vaccina è un percussionista con i contromazzi, che ha collaborato più volte nel corso della sua carriera col buon Franco Battiato (perlopiù durante il suo periodo sperimentale) e con Juri Camisasca, insomma due figure monumentali della nostra storia musicale.  

Secondo di tutto, il signor Lino Vaccina ha esordito con un disco enorme nel quale condensa input e idee musicali provenienti da ogni dove: la percussione domina e la voce è uno strumento che accompagna senza vincoli linguistici.  

Lo fa ammiccando alla musica orientale, per chi ha familiarità con il genere si possono trovare richiami di musica mongola e tibetana, con emissioni reiterate di suoni nasali e gutturali, che si intrecciano in un tappeto vocale molto vicino alle diplofonie di Stratos ma anche all’uso sapiente della voce esercitato dal Dio Wyatt

Ok, ora siete meno scettici? Ho stuzzicato un poco la vostra fantasia? Ho altri argomenti volti a convincervi. 

Provate a metter su Antico Adagio, ascoltatelo più volte e sarete rapiti dal suo contenuto, dall’attualità a distanza di oltre quarant’anni. È musica che vive in naftalina, non ha bisogno di imbellettarsi, ogni suo pezzo potrebbe essere tranquillamente usato come tema di un film, per una pièce teatrale, per la colonna sonora della vostra vita. Insomma, tanti salamelecchi per un Thom Yorke di turno che fa la colonna sonora di Suspiria, quando bastava andare dal Lino a chiedergli in prestito le tracce di Antico Adagio (senza nulla togliere al pregevole lavoro di Yorke). Anzi vi suggerisco un giochino: provate ad ascoltare Motus e poi buttate su qualsiasi altro brano da Kid A. Sono curioso di sapere quali conclusioni ne traete. 

A differenza di Sorrenti, Lino Capra Vaccina ha saputo resistere al richiamo pop-commerciale (considerato non nelle sue corde), non è caduto in un vortice depressivo come Cilio ed è riuscito a mantenere un profilo estremamente definito, privilegiando la sperimentazione e l’improvvisazione volta all’inclusione, con un linguaggio musicale alto ma al tempo stesso accessibile ai più. 

Questo è lo spirito della musica anni ‘70, quando la sperimentazione non era semplicemente una scoreggia da degustare in un bicchiere di cristallo e del quale compiacersi con altri teoretici del settore, questo è lo spirito della sperimentazione di Battiato e di Cilio, con tanta voglia di conoscere nuova musica e condividerla agli altri, conducendoli per mano.  

Antico Adagio è un disco meraviglioso, un’opera di ricerca nel quale Lino Capra Vaccina ha dedicato sé stesso per esprimere la propria cifra stilistica, composto di getto e per sottrazione, minimalista e ciclica. Cattura l’attenzione anche se ci si avvicina in maniera distratta, è come un incantatore di serpenti, è impossibile non venire rapiti dai ritmi e dalle armonie create da Capra Vaccina

Alan Sorrenti – Aria

Dammi il tuo amore  
Non chiedermi niente  
Dimmi che hai bisogno di me

Sono certo che avete canticchiato questo incipit con un falsetto sfiatato di tracimante nostalgia. Per i meno informati, Alan Sorrenti deve il successo soprattutto a questa canzone, alla seconda giovinezza musicale vissuta grazie a Pieraccioni e allo spot Fiat del 2003, eppure c’è stato un tempo in cui la chitarra col bending svogliato e l’effettazzo da dream pop di Tu Sei L’Unica Donna Per Me era lontano parsec dall’originaria idea musicale del Sorrenti

Aria è il disco d’esordio di Alan Sorrenti, un album con degli spunti di notevole fattura che lo rendono una pietra miliare della musica nostrana, nonostante le varie asperità che rendono buffe alcune soluzioni adottate (mi riferisco a testi tra l’ermetico e l’onirico oltre alle scelte vocali).  

Già, già, già, siamo dinanzi ad un tentativo molto valido di musica sperimentale, nel quale Sorrenti cerca di seguire in maniera coraggiosa (a tratti improvida), il tracciato di Tim Buckley e del suo Lorca, nella suite da 19 minuti che dà il nome al disco, c’è anche la prestigiosa collaborazione dell’esimio Jean-Luc Ponty. Il gallese-partenopeo Sorrenti si impegna portando arrangiamenti ed idee non scontate, variando tantissimo all’interno della suite, ondeggiando con naturalezza dall’etereo alla chitarra flamenca.  Si ammicca ai primi Pink Floyd post Barrett, alla psichedelia ammerigana ma anche al folk dei Pentangle e… insomma tutta quella scena lì bella bella.  

Perciò le canzoni provenienti da Aria diventano degli inni per i movimenti culturali, qualcosa nel quale si identificano i ragazzi, gli studenti e tutti coloro che trovano in Aria un messaggio d’amore universale, di pace, di surrealismo.  

E allora cosa è successo? Perché virare verso una svolta funky quando in partenza ci sono Aria e la meraviglia poetica di Vorrei Incontrarti

Accade che Sorrenti dopo due lavori riflessivi (a seguire Aria c’è Come Un Vecchio Incensiere) senta la necessità di introdurre maggiore ritmo nei suoi lavori, una svolta musicalmente commerciale, che arriva dopo un viaggio in Senegal che pompa ritmo nel sangue di un Sorrenti sempre attento allo studio della musica etnica.  

La strada del funk-soul era lastricata di buone intenzioni ma gli amanti del Sorrenti della prima ora vissero questo cambio molto male, immersi nell’onirico mondo musicale creato nei dischi precedenti (sì intendo tutti quegli studenti sballoni che mentre pippavano il drago magico si figuravano le viti e cacciaviti di La Mia Mente o al sasso che li ama di Un Fiume Tranquillo). 

Vabbè, se non avete mai ascoltato Aria, fatelo. Superate lo sbarramento iniziale legato a tutte quelle vocali apertissime e agli eccessi canori che vi faranno sorridere. Alan Sorrenti ha una grande voce, perciò: Let it flow!  

Lasciatevi circondare dalle note e vi troverete con gli occhi socchiusi ad ondeggiare avanti e dietro, sinuosamente, come se foste a Woodstock (fatelo quando siete da soli). Buon ascolto! 

Luciano Cilio – Dialoghi Del Presente

Come avrete inteso dalla scorsa settimana, si ritorna alla regolarità (ci si prova almeno) dopo una lunga ed imperdonabile assenza. Per questo motivo ho scelto un ciclo dedicato alla musica italiana, per dimostrarvi che nell’ammanto di silenzio calato in questo spazio digitale, risiede uno studio volto a regalarvi piccole perle di rara bellezza. 

Ho il piacere di introdurvi a un disco al quale sono molto legato, che ha poco di nostro all’apparenza. C’è una magia che non è propria del nostro territorio in Dialoghi del Presente, un misticismo che non consente di collocare facilmente questo disco in un arco temporale definito.  

Nomen Omen, Cilio rende fluidi questi Dialoghi, come se appartenessero all’adesso, al prima e al dopo. Suoni troppo puliti ed elaborati per sembrare antichi, ma con un riverbero che li rende distanti in un gioco misurato sapientemente da Cilio, capace di sospendere il tempo. 

Non è facile descrivere qualcosa del genere, sto facendo uno sforzo enorme, non è identificabile con musica progressiva, da camera, classica. Le composizioni di Cilio riunite in Dialoghi del Presente sono qualcosa di oltre. Per aiutarvi, se dovessi azzardare dei parallelismi direi che il Primo Quadro ha un sentore di Satie mentre nel Quarto Quadro (dove affiora anche un ritmo percussivo fortemente partenopeo) il rimando è alla Sagra della Primavera di Stravinskij

Paragoni impegnativi. Ma Luciano Cilio regge il confronto, perché capace di mutuare la sospensione temporale da Satie e Stravinskij, con una freschezza e leggerezza invidiabile.  Una capacità creativa meravigliosa, che lo stesso Cilio ha preferito negare a questo mondo all’alba dei 33 anni. 

C’è qualche accenno di Cage in questo disco, ma Cilio era diverso dal maestro statunitense. Mente curiosa e sperimentatrice, polistrumentista autodidatta incapace di tradurre la musica su pentagramma ma in grado di plasmare le composizioni a orecchio. Viaggia in oriente, apprende i rudimenti del sitar e si immerge a pieno nell’esotismo di sonorità inusitate. Sì, inusitate, come le parole che Umberto Eco era solito usare (quel fetentonte). 

Luciano [mi permetto di chiamarlo per nome in quanto quasi mio coetaneo quando se ne è andato ndr], ha battuto terreni musicali differenti rispetto a quanto richiesto dalle masse, invischiandosi con entrambi i piedi nelle sabbie mobili della sperimentazione che lo hanno lentamente risucchiato. Lui che con Alan Sorrenti ha condiviso un’idea musicale progressista – oltre all’anno di nascita e la provenienza – non è stato capito e accettato dai censori ortodossi del movimento e al contempo respinto dall’universo della musica popolare. 

Luciano si è arreso a soli 33 anni, perché non era capace di vivere attraverso la sua passione, quella musica maneggiata con sapiente bravura e leggiadria poco comune.  

Sarebbe bello onorare la sua memoria con l’ascolto dei Dialoghi, pertanto concedetevi poco meno di mezzora, non resterete delusi. Ad ogni ascolto riscatterete, un pelo di più, la memoria di un enorme artista nostrano. 

Claudio Lolli – Ho Visto Anche Degli Zingari Felici

  • “Chi popola i tuoi incubi? “

Lolli:”Allora io da molti anni ho questa ossessione, questa paranoia della demagogia fascistoide. Siccome lentamente, lentamente, lentamente sta arrivando io mi spavento molto. Vent’anni fa vi parlavo, riferendomi alla socialdemocrazia, di Germania. E poi c’è stato Cossiga, BerlusconiDi Pietro. Di lì al fascismo c’è un passo…. Occorre essere attenti.” 

Era il 1999 e Claudio Lolli rispondeva così in seguito ad un concerto di beneficienza per il Guatemala. Ha potuto vivere le prime settimane del governo giallo-verde e probabilmente i fantasmi che aleggiavano al termine dello scorso secolo stavano montando ossa e carne per divenire concreti ai giorni nostri. 

Questo è l’album della svolta musicale di Lolli, che affiancato da alcuni elementi del Collettivo Autonomo musicisti di Bologna offre un taglio differente al disco, leggermente più complesso, vestendolo di un jazz che avvicina alcune soluzioni armoniche ad un approccio canterburino. Il titolo dell’album invece è un omaggio al film del 1967 di Aleksandar Petrović Ho Incontrato Anche Zingari Felici

Nel contenuto invece, questo quarto album si differenzia rispetto ai precedenti per la funzione di cronaca che svolge del circondario. 

“Riprendiamoci la terra, la luna e l’abbondanza”, è un incitamento che Lolli lancia a tutti noi, l’invito a risvegliare la coscienza. Gli Zingari sono i senza fissa dimora, che sia fisica o intellettuale ha poco conto, gli strascichi del ‘68 danno vita ai movimenti della controcultura, un underground che vede a Bologna la propria camera magmatica, gli Zingari sono proprio questi ragazzi irrequieti, che tra mille difficoltà, incomprensioni danno vita a uno delle azioni culturali più importanti del dopoguerra. Ho Visto Anche Degli Zingari Felici è la title-track che apre e chiude il disco, in principio un unicum che però viene diviso per consentire una continuità per tutta la durata del disco.  

Con questa decisione, Ho Visto Anche Degli Zingari Felici, assume così il ruolo di concept, uno dei primi sfornati da cantautori in Italia, ma soprattutto è un inno che assume un significato ben preciso nella corrente situazione sociopolitica che investe l’Italia: ritrovare i legami, il senso di comunità, non assecondare col silenzio, non chinare il capo ma usare la forza della ragione di fronte agli isterismi, per quanto complicato possa essere. 

Questo disco fotografa quelli che sono stati gli “Anni di Pongo”, nonostante gli attentati che hanno messo in ginocchio lo stivale, anche Lolli condivide l’affermazione di Freak Antoni, ovvero che la situazione generale non era così disastrata come viene raccontata oggi. Certo le Brigate Rosse e Nere hanno dato vita a un susseguirsi di crimini efferati, e questo album ha accollato un’altra etichetta a Lolli, quella di brigatista, quando invece Ho Visto Anche Degli Zingari Felici è un affresco delle situazioni – a tratti – incomprensibili in cui versa la popolazione. In balia delle onde formatesi in un catino agitato da pochi soggetti.  

Agosto descrive l’attentato dinamitardo dell’Ordine Nero all’Italicus, che ha provocato 12 morti, andando poi a raccontare in Piazza Bella Piazza il funerale di stato di 10 delle 12 vittime ai quali partecipò anche il Presidente della Repubblica Giovanni Leone e Amintore Fanfani suscitando lo sconcerto dei reazionari. Ma i riferimenti alla società politica naturalmente non si esauriscono qui, Primo Maggio di Festa non trascura il Vietnam e Albana Per Togliatti che si presenta come un momento utopico di euforia nel quale le divisioni all’interno della sinistra italiana sono appianate. La Morte Della Mosca presenta invece la riflessione sulla volatilità della vita umana, un parallelismo sull’inefficacia della lotta individuale, quell’errore nel farsi guerra tra i poveri, insita nella condizione umana e per questo autolesionista. 

In tal senso è anche interessante la riflessione che Lolli espone nel 2010, riguardo la progressiva scomparsa della musica di protesta, che ha coinvolto in maniera trasversale autori ed interpreti di spessore come Jannacci, Guccini, Gaber, De Gregori, De André, Finardi (solo per citarne alcuni). 

“Il mondo è cambiato. Noi avevamo degli obbiettivi, dei nemici, molto dichiarati, aperti e riconoscibili. Poteva non essere difficili schierarsi. Oggi c’è nebbia, non sai bene chi sia il nemico, né se eventualmente esista. È molto più difficile usare la musica come mezzo politico. Nessuno sa più di che cosa si sta parlando. Potresti scrivere una canzone contro Bush? Chi cazzo è?” 

La presenza di Claudio Lolli ci mancherà, non tanto per le sue canzoni, quelle restano, quanto per la sua capacità di essere una guida integra, diretta, capace di avere delle convinzioni spigolose ma che gli hanno consentito di dire ciò che voleva dire quando era necessario dirlo. 

Si ringraziano personesilenziose.it e La BrigataLolli (bielle.it) dai quali ho recuperato stralci di intervista.

Claudio Lolli – Aspettando Godot

Con affanno e grande fiatone arrivo a pubblicare questo post dopo tempo immemore.

Purtroppo sia il lavoro che progetti extra-lavorativi hanno limato al minimo il tempo libero a disposizione. Se dovessi scrivere tanto per farlo non avrebbe senso e lo spirito che anima questo spazio digitale verrebbe tradito.

Ci tenevo a tornare con un ciclo più corposo, che non sono in grado di assicurare, ma qualche pilloletta spot l’ho realizzata e sono qui per cominciare a elargirla a voi.

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“Una cosa è certa, però: il tempo è lungo, in queste condizioni, e ci spinge a popolarlo di movimenti, che, come dire, che possono a prima vista sembrare ragionevoli, ma ai quali noi siamo abituati. Tu mi dirai che è per impedire alla nostra ragione di colare a picco. D’accordo. Ma non sta forse già volando nella notte assoluta dei grandi abissi, è questo che mi chiedo talvolta. Mi segui?” 

Molte scaffalature hanno ospitato quell’iconica banconota da 5.000 lire: bellissima, colorata, con il viso di Lolli in primo piano e quelle 3 lettere centrali (EMI) virate in azzurro per risaltare la provenienza discografica. È a mio parere una della copertine più belle della produzione musicale italiana, fortunatamente anche il contenuto non è da meno. 

Ci ha lasciato, Claudio, e non sapremo mai se lui Godot alla fine l’ha incontrato, quello che sappiamo però è che Aspettando Godot rappresenta più una magistrale lezione di vita che un semplice disco. Un capolavoro da assaporare sin da ragazzi – e riascoltare da adulti – per capire cosa comporti non godersi i momenti, o comprendere il valore dell’amicizia (Michel), dell’amore e dell’esistenza (il trittico finale Quello Che Mi Resta, Quanto Amore e Quando La Morte Avrà), senza dover ricorrere ad espedienti narrativi scontati.

Testi esaltati da una struttura musicale scarna, con fingerpicking, una sezione ritmica molto leggera e un violino a dare consistenza, è impossibile non prestare attenzione alle parole donateci da Lolli

Il cantautorato emiliano ha una capacità di risultare ficcante e diretto, in questo primo lavoro di Lolli ci sono analogie con Guccini, suo promotore (e successivamente grandissimo amico) bravo a presentarlo alla EMI permettendo di farlo conoscere al grande pubblico. Lolli dal canto suo ha dimostrato una sensibilità meravigliosa nel riuscire a traslare in canzone il testo di Beckett a soli 17 anni.  

“Finché non arriva, quella canzone resterà attuale! È il bello dell’attesa… Ero molto giovane, all’epoca, avevo 17 anni, così ho manipolato il capolavoro di Samuel Beckett e ne ho fatto un testo molto ‘pro-azione’. Però in realtà non è così: più ‘leopardianamente’ è una canzone sul bello dell’attesa, l’unica cosa accettabile è aspettare, spesso anche l’unica speranza.” 

L’arroganza di chi scrive a proposito della musica porta a dover spiegare forzatamente determinati dischi o brani, rischiando di minare la capacità interpretativa dell’ascoltatore e castrando il potere comunicativo dei brani e degli autori.  

In Aspettando Godot ciascun ascolto dà risalto a sfumature differenti, chiavi di lettura che variano col mutare del tempo, ogni brano diventa a suo modo l’autobiografia dell’ascoltatore, che non può non emozionarsi ricordando le occasioni perse, i momenti sfioriti, i successi celebrati.  

Sì, perché per quanto l’etichetta appiccicata a Lolli fosse quella del cantautore politico depressivo, Claudio ha avuto il merito di parlare di (e a) una generazione, riuscendo ad identificarne pregi e difetti, non solo legati alla politica ma soprattutto all’humus sociale (Borghesia e Angoscia Metropolitana).  

Non è depressione bensì riflessione. La depressione la lasciamo a chi sente la musica e non la ascolta, qui invece ci soffermiamo su quelli che sono i testi e le parole, al significato pregno che Lolli riesce a dare ad ogni frase,  a quegli “occhi un po’ sottili che non conoscevo più nel racconto del proprio vissuto”, dell’amore per Michel, amico francese costretto da eventi nefasti al ritorno in patria, condannato ad un lavoro da elettrauto, con moglie grassa e cinque figli a carico, abbrutito dall’alcool, o Quando La Morte Avrà dedicata al padre che evidenzia il sentimento dicotomico che attanaglia Claudio nei meriti del proprio genitore. 

Dettagliare ulteriormente la descrizione del disco rischierebbe di portarvi fuori strada (se non l’avete mai ascoltato), pertanto mi fermo qui. Aspettando Godot è un file rouge che ancora oggi fa riflettere a chi ha un po’ di sale in zucca.

Ho deciso di tornare dopo tanto tempo per celebrare questo anno senza Claudio Lolli, spero vogliate accompagnarmi in questa ricorrenza ascoltandolo con piacere e criterio. 

Si ringraziano OndaRock e La Brigata Lolli (bielle.it) dai quali ho recuperato stralci di intervista.

basta un poco di zucchero

Sembrano passati eoni da quando ho scritto l’ultima pillola.

Purtroppo i troppi impegni dell’ultimo periodo sono stati una palla al piede non indifferente e non mi hanno concesso di dedicarmi a questo microspaziodigitale con l’attenzione che merita.

Ma qualcosa bolle in pentola e con maggio avrete un’overdose con tante nuove pillole.

Per chi non segue il feisbuk, qui un po’ di link relativi agli ultimi scritti che ho disseminato un po’ in giro

qui

qui e qui

e ancora quiiiii

Poi siccome in questo periodo sono in giro per l’Asia, mi son preso la briga di regalarvi la playlist che mi accompagna 🙂 un mischiettone che vede di tutto e di più

finisce così, questo articolo breve se ne va… (se ne va), ma aspettate e un altro ne avrete, c’era una volta il cantapillole dirà, e un altro articolo comincerà (plin)

I Still Love You

Difficile per me trovare le parole giuste, perché tutto parte da loro.

In 5 anni del progetto Pillole, ho evitato accuratamente di scriverne o di nominarli, nonostante la prima copertina 8 bit fosse dedicata a loro, nonostante il primo articolo fosse pensato per loro.

Cosa è successo nel frattempo? Una sorta di meccanismo di auto-difesa.

Sono nato con i Queen, per poi crescerci.

Ne sapevo vita, morte e miracoli. Ho letto libri, bio, interviste ed articoli. Li ho ascoltati fino alla nausea, fino a riconoscerne ogni attacco, fino a difenderne i dischi più osceni (sì sono arrivato a difendere Hot Space a spada tratta come si usava difendere Stalin ad inizio anni ‘50 e Mao negli anni ‘60).

Andavo a dormire con le cuffie e mi svegliavo la mattina con il cd che ancora andava a ripetizione.

Fino a che non ho aperto gli occhi: non sono più riuscito ad ascoltarli, ho privilegiato altre idee musicali, sono cresciuto… certo, ogni tanto tornava la nostalgia, che ho represso violentemente una volta avviato Pillole.

Nascondendo con vergogna questo periodo della mia vita, è seguita l’auto-analisi ed infine l’accettazione.

La bomba nostalgica innescata dal film e il susseguirsi di notizie pubblicate nei mesi mi hanno trasmesso in parte perplessità ed in parte voglia di raccontarli, di portare alla luce gli aneddoti e le situazioni che la trasposizione cinematografica o gli amanti dell’ultima ora non hanno avuto modo di recepire.

Ho deciso di raccontare la mia storia dei Queen passando attraverso i loro album. In questo ciclo, si stravolgerà un po’ il format solito di Pillole, ma è un viaggio catartico che sento di dover fare.

Lo devo a me, lo devo a lui.

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Riz Samaritano – All The Best

Riz Samaritano - All The Best

“Due pallottole nel cuore,
un coltello nel cervello,
sette chiodi in una mano
conficcati col martello.
Era un essere anormale,
un cadavere spaziale.”

Chi di voi non ha mai canticchiato queste strofe? Non mi sorprenderebbe se mi rispondeste con “ma chi la conosce ‘sta canzone?”

Ci sta. Facciamo una piccola premessa prima di cominciare

Non scrivere di un disco in particolare non mi rende felice, ma come già accaduto per Clem Sacco, ricostruire la frammentata storia discografica di artisti che hanno cominciato a cavallo degli anni ‘50-’60 è compito arduo che precluderebbe alcune perle e nomi di assoluto rilievo. Soprattutto nel nostro caso, funzionale al ciclo di articoli in essere.

Pertanto, prendo in considerazione il best of con i singoli più accattivanti di Riz e cerco di farvi luce su di un personaggio che ha avuto un’influenza enorme per il panorama musicale italiano.

In primis la somiglianza vocale e fisica con Fred Buscaglione è notevole, Lorenzo Schelino (nome vero di Riz), soprattutto per lo stile noir che viene da lui declinato in sfaccettature che avrebbero trovato pieno apprezzamento nelle commedie all’italiana.

Prima però d’intraprendere la carriera musicale da solista esordisce con un paio di gruppettini con i quali canta lenti e un accenno di rock & roll.

Uno di questi è il gruppo che Daniele Pace – di cui si parlerà nei prossimi articoli – ha fondato con i suoi compagni di Liceo, I Marcellini, dal film Marcellino Pane e Vino. Intreccio interessante quello tra Pace e Samaritano tra i principali fautori della demenzialità italiana, seppur con due filoni differenti.

Sì perché Samaritano – battezzato così per la bizza di un gestore di un locale nel quale I Marcellini si sarebbero esibiti (frutto della fortunata combinazione tra il diminutivo del nome del compositore Ortolani – Riz – e del film Il Buon Samaritano con Gary Cooper) – sviluppa la propria comicità su di una recitazione continua.

I giochi di parole viaggiano sulla base di canzoni tra il liscio e lo swing, chachacha e tango, il noir ed il non-sense, come in Ma Che Calze Vuoi Da Me? (canzone che gli ha precluso passaggi radiofonici per il marcato doppio senso, osteggiato dal perbenismo dilagante nell’Italia del boom economico) o Cadavere Spaziale, vero è proprio brano cult con il quale Samaritano è tornato alla ribalta grazie alla ri-registrazione da parte di Elio e Le Storie Tese (presente in Esco dal Mio Corpo Ed Ho Molta Paura).

Ma la carriera di Samaritano è costellata di brani di grande riuscita come I Cornuti, Non Rompetemi I Bottoni o la serie dei tango (Tango dello SpacconeKriminal Tango, Tango Assassino, Mezzo Litro di Tango, Tango dell’Evaso), mostrando una varietà di tematiche trattate, sempre con estrema leggerezza o con doppi sensi che oggigiorno sembrano infantili e che non suscitano clamore, ma all’epoca delle registrazioni mostrano una voglia di far breccia in alcune barriere sociali, imponendo il proprio pensiero libero senza dover sottostare ad una morale bigotta.

Samaritano ha dimostrato di saper divertire e divertirsi nonostante il pensiero della società.

Peccato confessato, mezzo perdonato (vol. II)

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“Ho già detto altrove, e qui m’è forza ripetere– l’opera d’arte è creata dal libero movimento della vita interiore che organa le idee e le immagini in una forma armoniosa, di cui tutti gli elementi han corrispondenza tra loro e con l’idea madre che le coordina.” 

Luigi Pirandello ha spiegato in maniera esaustiva la sottile linea tra comicità ed umorismo nel 1908. A distanza di 110 anni ardua appare la volontà di trasporre questo concetto in musica, la volontà è quella di portare alla luce artisti o sfaccettature degli stessi che guidino all’ascolto e ad una rivalutazione di perle discografiche dal valore precipuo. 

In fondo ho sempre vissuto Settembre come il mese dell’inizio, quel periodo nel quale per forza di cose si devono riordinare le idee e tornare al rigore morale. 

Fortunatamente le cose non accadono mai per caso e nelle ultime settimane c’è stato modo di gettare le basi per i prossimi mesi di racconti musicali. 

Son lieto pertanto di annunciarvi che il blocco dello scrittore è stato ufficialmente bandito per far spazio al nuovo ciclo di articoli su demenzialità, comicità e umorismo 

A mille ce n’è, nel mio sito di pillole da narrar, 

Venite con me, nel mio mondo musicale per sognar… 

Non serve l’ombrello, il cappottino rosso o la cartella bella per venire con me… 

basta un po’ di fantasia e di bontà 

Bentrovati

Smog – Sewn To The Sky

Smog - Sewn To The Sky

pena… rete… lama… 

L’uomo di fumo si presenta a noi così, dal nulla appare, inaspettato, c’è ma non c’è. Palazzeschi usa l’allegoria per raccontarci la figura epica di Perelà, che in qualche modo rimanda al personaggio trattato in questo articolo… il nostro uomo di fumo. 

Il ciclo di pillole volge il disio, passerà molto tempo prima che torni a pubblicare qualcosa, sono in alto mare – lo ammetto – e perciò mi sento in dovere di donarvi due perle prima di assentarmi dalla mia casetta digitale. Spero le amiate quanto lo faccio io, perché sono veramente piezz ‘e core. 

Partiamo da Bill Callahan, ovvero il signor Smog, maestro delle registrazioni Lo-Fi effettuate con un Tascam Portastudio 224, caratterizzanti il disco d’esordio Sewn To The Sky, un album dal titolo e dalla copertina meravigliosi, costituito da una serie di registrazioni raccolte tra il 1988 e il 1990 (un anno di riferimento per la scena Lo-Fi ). 

“Ero come una scimmia che lancia la merda sul muro. Lo considero un periodo estremamente tangibile, mi sentivo parte della struttura del suono e mi piaceva come il microfono distorceva tutto. Mi affascinava”. 

4 Cassette, registrate durante una permanenza in Georgia tutt’altro che piacevole “L’ho cominciato in Georgia e terminato in Maryland. Sono tornato nello scantinato dei miei e ci ho portato la mia roba. È come se la mia vita avesse avuto il singhiozzo e non fossi in grado di andare avanti. Dormivo un sacco durante il giorno. Ad ogni mezzanotte, lasciavo metodicamente casa per una passeggiata di un paio d’ore, tornavo per registrare fino a che il sole non sorgeva. Se ero soddisfatto delle registrazioni andavo a dormire felice. Il disco è una sorta di utero, che attenua tutto, come quando la gente suona per i propri neonati, è ciò che i bambini vorrebbero ascoltare”. 

Sewn To The Sky è essenza, può dare fastidio la voce di Callahan che gioca a nascondino, viaggia sola e flebile in maniera disinteressata da una musica che si evolve e va per i cavoli suoi. Ma tutte quelle dissonanze, le note acide – ed in apparenza casuali – costruiscono le basi di un album concreto ed ammaliante, pionieristico per gli amanti del genere. I feedback ed il muro del fuzz eretto da Callahan aumentano la propria efficacia grazie alla bassa qualità delle registrazioni, in un caos calmo fortemente voluto.  

“Sono tra un investigatore privato ed un giornalista. Uno scrittore, non un simbolo. Non voglio essere un interprete che si becca l’applauso per aver smesso di bere o per non essersi suicidato. C’è un po’ di fiction dietro questo.[…] Quando scrivo una canzone lo faccio per riempire una nicchia nella vita delle persone, per avere una canzone per ogni esperienza se qualcuno non l’ha ancora fatto.” 

Chi conosce marginalmente Callahan – quello recente, lirico e cantautoriale – rimarrà sconcertato da questo lato torbido ed ermetico, che ammanta la prima parte della carriera dello Smog – di un musicista che si avvicina a tratti a Daniel Johnston pur non avvicinandosi alla sua follia. 20 brani che si adatterebbero bene a colonna sonora di film muti e che non appesantiscono l’ascoltatore. Una volta fatto l’orecchio, vi confermo che le cacofonie non vi sembreranno più tali. 

“Scrivere canzoni è come un mio biglietto per il mondo. Sapevo che nessuno avrebbe puntato sull’uscita di Sewn To The Sky, ma non mi importava. Ho fondato la mia etichetta e ho prodotto 300 copie alla prima incisione. È come se fosse il mio biglietto per partecipare a qualsiasi cosa. […] guardare le persone che stavano facendo musica era come guardare la vetrina di un negozio e fissare le cose che non potevi permetterti pensando ‘Questo è quello di cui ho bisogno'”.