Lol Coxhill – Ear Of Beholder

Lol Coxhill - Ear Of The Beholder

Lo ammetto, con questo disco metto a prova la vostra pazienza.

Se doveste approcciarvi a Ear Of The Beholder ascoltando Hungerford (ovvero la prima traccia che segue l’introduzione) è probabile che io possa ricevere dei vaffanculo tonanti da parte vostra; non esagero. Potreste avere la sensazione di ascoltare un John Zorn pesantemente sotto eroina e buttereste via il disco non appena possibile (mi piace immaginare che qualcuno di voi ancora compri la musica in supporti fisici).

Ok, ok, ok, proseguendo con Deviation Dance la situazione potrebbe non cambiare, andiamo sicuramente su qualcosa di più orecchiabile ma sento la necessità di chiedervi di assettarvi 5 minuti per leggere queste due righe, in modo tale che voi siate preparati ad affrontare questo capolavoro con il quale Lol Coxhill ha esordito come solista.

La domanda che sorge spontanea ai più è “ma chi è Lol Coxhill“?

Ne ho già parlato tempo addietro, ricordate i The Whole World? La band in accompagnamento a Kevin Ayers? In poche parole, è stata una figura di spicco della scena di Canterbury, una sorta di chioccia – data la differenza di età – per i tanti gruppi che sono fioriti in quella città. Il background free jazz è marcato nelle sue composizioni, l’improvvisazione è un obbligo morale che segue senza tregua e segna le sue esibizioni dal vivo, così come il fascino subito da figure come XenakisVarese Stockhausen [offtopic: avete notato come tornano regolarmente a trovarci questi signori? Rispondono presente a quasi tutti i cicli di pubblicazione di Pillole. Diciamo che tutti questi ascolti sono propedeutici per arrivare da loro e John Cage. Vedremo quanto è tortuosa la strada per arrivarci. /offtopic ndr], o da altre band all’epoca contemporanee, come potrete desumere dalla strepitosa cover di I Am The Walrus.

Tutto ciò in favore di una contaminazione di stili e di generi volta ad abbattere il concetto di “genere musicale”, la musica è liquida, attraversa varie fasi e sfaccettature, ingabbiarla all’interno di un genere è “ingeneroso” [perdonate il gioco di parole]. Famoso purtroppo solo nella terra d’Albione e nei Paesi Bassi, non è riuscito ad avere il giusto riconoscimento nel resto del vecchio continente, lasciando comunque ai posteri tante cosette da apprezzare, tra le quali Ear Of Beholder.

Un disco caratterizzato da registrazioni fatte qua e là, in alcuni casi per strada durante le attività da busker di Coxhill per le quali si scuserà con l’ascoltatore per la qualità (un aspetto in comune con Moondog; Lol divenne artista di strada quando lasciò il lavoro di rilegatore di libri), alle registrazioni di alcuni brani prendono parte anche il caro Mike OldfieldKirwin Dear e Robert of Dulwich, altri non sono che gli pseudonimi di Kevin Ayers e Robert Wyatt. Ma in particolare spiccano le collaborazioni con David Bedford – anch’egli ex Whole World – con le quali registra delle versioni di Two Little Pidgeons e Don Alfonso (ri-edita da Oldfield qualche anno dopo).

Tutto questo pippone per dirvi di non lasciarvi spaventare dalle composizioni all’apparenza inaccessibili, date una chance di ascolto a quest’album, magari partendo da qualche brano più semplice, giusto per prendere confidenza con Lol e capire che straccia di musicista era.

Penguin Café Orchestra – Music From The Penguin Cafè

Penguin Cafe Orchestra - Music From The Penguin Cafe

Tutto ha inizio da un sogno, o sarebbe più appropriato dire da un incubo a seguito di un’intossicazione alimentare.  

È il 1972Simon Jeffes si contorce nel letto di un hotel in Francia in preda ai deliri da avvelenamento: “ho avuto un incubo, mi trovavo in un hotel moderno, c’era un occhio elettronico che fissava e scansionava qualsiasi cosa. In una stanza c’era una coppia che scopicchiava ma senza amarsi. In un’altra stanza c’era un musicista che indossa delle cuffie senza ascoltare musica. Nell’altra stanza c’erano persone che interagivano con degli schermi. È stato terribile, un posto squallido”. 

Voi direte ma che minchia c’entra tutto questo con i Penguin 

Questo – perlomeno – il pensiero che mi è saettato nel cervello. Considerando la pigrizia delle mie sinapsi, mi sono lanciato in voli pindarici immaginando che il sogno prevedesse la partecipazione di alcuni pinguini intenti a sorseggiare tè e mangiare biscottini in un giardino inglese. No! Mi sbagliavo! 

La Penguin Cafè Orchestra è la soluzione sulla quale Jeffes ha puntato per debellare l’inedia ed il torpore delle persone che mano a mano ha incontrato nel sogno. È un baluardo a difesa della passione e degli interessi, è la panacea per il corpo e lo spirito di chi la ascolta. Ora cercate di applicare il sogno di Jeffes ai giorni nostri, è deprecabile dirlo ma forse è meglio che non abbia avuto modo di vedere personalmente come tutto quello che ha sognato – in un delirio – si sia poi rivelato tremendamente reale a distanza di quarant’anni.  

La gente è monitorata 24 ore su 24, la pornografia massiva ha abbrutito le relazioni di coppia ed i mass media (così come i social network) hanno lobotomizzato le menti più deboli. Purtroppo i Penguin non possono essere considerati la cura di questi mali [so che è un discorso razzista ma la maggiorparte della ggente non li conosce, e comunque se li conoscesse non li apprezzerebbe ndr], nei quali veniamo intrappolati a giro tutti quanti. Ma di sicuro con la loro musica sono in grado di creare una zona franca che annulla ogni sortilegio moderno.  

Un’oasi di benessere, una SPA depurativa contro il logorio della vita moderna… perché è inutile negarlo, una volta partiti il violoncello e la viola in Penguin Cafe Single non si può fare altro che ascoltare e concentrarsi sulla bellezza della musica. 

Music From The Penguin Cafè oltre a rappresentare l’esordio dell’ensemble un po’ stramba, resta un’eccezione discografica, difatti in Zopf: In A Sydney MotelZopf: Coronation possiamo apprezzare prima le doti canore di Simon Jeffes e poi di Emily Young nelle uniche composizioni – nell’intera discografia dei Penguin – a prevedere la voce.  Emily è l’autrice della copertina nonché compagna di Simon Jeffes e madre di Arthur Jeffes (per intenderci colui che sta portando avanti i Penguin dopo la prematura scomparsa di Simon). Inoltre voci del settore suppongono possa essere stata la musa ispiratrice di Syd Barrett per See Emily Play, ma prendetela molto con le pinze quest’informazione. 

Se dovessi trovare l’aggettivo più appropriato per descrivere questo disco, direi: poetico e disorientante. Una miscela di musica contemporanea e barocca, ben espressa dal piano elettrico di Steve Nye a simulare il clavicembalo che gioca meravigliosamente con la chitarra di Jeffes, e gli archi di Liebmann e Wright a dare corpo alle composizioni. In un disco che trova il proprio compimento dopo 3 anni, sotto l’egida di un interessatissimo Brian Eno in veste di produttore esecutivo. 

David Axelrod – Songs Of Experience

David Axelrod - Songs Of Experience

Sì lo so, quello adottato, è un approccio inusitato per il format tipico di Pillole Musicali, ma sono fermamente convinto possa essere il modo per poter condividere dischi sui quali non c’è molto da raccontare ma tanto da ascoltare.  

Diciamocelo chiaro e tondo, le classiche recensioni hanno stufato: tanti aggettivi roboanti, con la preoccupante tendenza del recensore – solito srotolarsi il cazzo in piazza per mostrare ai colleghi quanto ce l’ha grosso – di esporre al pubblico ludibrio determinati dischi.  

Qui si fa altro, l’intento è divulgare e cercare di far conoscere figure di spicco del panorama musicale. In questo filone probabilmente è più utile parlare della vita del compositore che di un singolo disco, per cercare di incuriosire i giovani padawan che non hanno mai avuto a che fare con questi autori. 

Con questo chiudo la polemica tra me e il sottoscritto. 

Ahimè David Axelrod ci ha lasciati recentemente (per chi non lo sapesse), cerco di spiegare come stanno le cose: abbiamo perso un grande compositore che ha avuto il merito e la bravura di produrre opere espressive, discrete e riconoscibili, muovendosi in punta di piedi tra il soul ed il jazz, che ben veste album quali Songs Of Experience ed il suo predecessore Songs Of Innocence. Per essere pignoli ha avuto l’ardire di fondere il jazz al barocco, il rhytm and blues al soul, in una esplosione di suoni al quale è impossibile rimanere indifferenti. 

Il lavoro di David Axelrod è interessante perché prodromico di una scena musicale che si consoliderà fortemente qualche anno dopo con il funk soul tipico della scena nera. In Songs Of Experience, per esempio, potrete ritrovare tante delle idee che hanno condotto al successo Superfly di Curtis Mayfield. Non conoscete Superfly? Bene [a dire il vero molto molto male ndr], facciamo un altro esempio allora: perché non provate a mettere qualche gemito di Barry White sopra a The Human Abstract? Vi sembra fuori luogo come soluzione? 

Volgendo lo sguardo a tempi più recenti, Innocence ed Experience seminano idee ed ambienti sonori – dalle tinte fosche e tetre – che gemmeranno a Bristol nell’epopea trip-hop. Non è meraviglioso scoprire tutti questi intrecci? In fondo nella musica i gradi di separazione sono meno di 6. 

Dovremmo pensare alla figura di Axelrod come ad un hub all’interno del quale passano varie connessioni, un’altra delle quali è William Blake, poeta a cavallo tra il XVIII e XIX secolo, autore del libro illustrato di poesie Songs Of Innocence And Of Experience. Coincidenze? Non credo proprio [leggetelo con la voce di Lucarelli, non Selvaggia]. 

L’ispirazione, così come la citazione, è acclarata tanto che – come Blake – Axelrod decide di scindere le due opere: Innocence è del 1789 (19 poemi), Experience del 1794 (26 poemi), una volta edito quest’ultimo, la scelta da parte dello scrittore è stata di accorpare le due pubblicazioni di un’unica opera.  

Axelrod in Songs of Experience si concentra su 8 dei 26 poemi con una postilla rivolta agli ascoltatori “è un’antologia sulla consapevolezza che si raggiunge dopo la nascita… basata su un poema del XVIII secolo di William Blake“, il suono oscuro che possiamo apprezzare in molte delle composizioni, come Human Abstract e The Fly, è volto a rappresentare il lato oscuro dell’umanità che perde l’innocenza e la purezza – descritti nel precedente Song Of Innocence – per addentrarsi nelle masturbazioni mentali dell’età adulta e di tutto ciò che ne consegue a cascata. Cambia il punto di vista e si compie un rito di passaggio evidenziato magistralmente dal basso, dagli archi, dalle percussioni e dagli accordi grevi al piano.  

Axelrod naturalmente non è solo questo, vi ho portato alla luce i primi due dischi della sua meravigliosa carriera. Auspico che come per Moondog, sia solo l’inizio di una piacevole scoperta per voi. 

Moondog – Moondog

Moondog - Moondog

Il progetto Pillole è nato con l’intento di parlare di musica in maniera scanzonata, nel tentativo di far conoscere la musica che mi ha accompagnato dall’infanzia ad oggi e provare a trasmetterne l’importanza che ha avuto per me.

Posso definire la musica come una cartina da tornasole delle esperienze vissute: riascoltando alcuni dischi o certi artisti, è facile risalire a determinati momenti passati, stati d’animo sopiti.

La presunzione che muove il progetto è la condivisione. Non mi reputo un genio, ma nemmeno l’ultimo degli scemi, nella mia testa ho sempre avuto un percorso chiaro, sapevo dove avrei voluto portarvi.  

Negli anni ho accennato un po’ qua, un po’ là, un argomento che ha sfaccettature di una complessità ai limiti del lesivo, ed oggi ho deciso di cominciare ad approfondirlo. Credo che il modo migliore sia quello di farlo attraverso un personaggio eccentrico, raccontandovi la sua storia più che la sua musica. La Musica contemporanea, così come l’avanguardia, non è così estranea come la dipingono, perciò non abbiate paura di confrontarvi col diverso, con la novità, perché rischiate di precludervi esperienze meravigliose.

Pertanto, mi auguro che questo sia solo il primo passo e che abbiate voglia di addentrarvi nella discografia di Louis Hardin e degli altri artisti che vi presenterò nelle prossime pubblicazioni. 

Sul crinale tra la leggenda realtà si è mosso il bardo per eccellenza: Moondog, al secolo Louis Thomas Hardin. Una figura eteroclita, che – se non vi fosse memoria fotografica – potrebbe benissimo esser stata frutto della fantasia di Tolkien. Solito aggirarsi per la 6th Avenue di New York, zona nella quale si è esibito – in modo continuativo – per una ventina d’anni suscitando l’interesse dei passanti e raccogliendo le celebrazioni di poeti beat e figli dei fiori. 

Nato e cresciuto nel Kansas, diviene maestro nell’autodidattismo dopo esserlo stato nell’autoerotismo. Moondog difatti perde l’uso della vista all’età di sedici anni per un eccessivo smanettamento del pistulino (quando massacrarsi di pippe rendeva ciechi). Come Shaka di Virgo, privandosi di un senso riesce a spingere verso l’eccellenza gli altri,  concentra perciò le proprie energie verso qualcosa di costruttivo, come imparare i rudimenti compositivi e prendere confidenza con un’ampia varietà di strumenti.  

“Quando avevo 6 anni mi recai con mio padre, che era missionario, alla convention presso la riserva Arapaho nel Wyoming e quando arrivammo stavamo facendo la danza del sole. Il Grande Capo mi prese e mi fece sedere sulle sue gambe, dandomi una bacchetta e facendomi battere sul tom-tom [non il navigatore ndr]. Ho cominciato così”. 

L’incapacità – per limiti evidenti – di poter scrivere spartiti, lo spinse a diventare un’artista di strada – vestito con cappa ed elmo da vichingo – votato all’improvvisazione su strumenti a percussione (con ritmo “Snake time” [per dirla alla Moondog ndr] rigorosamente 5/4 e 7/4). Fortunatamente, non ha vissuto (troppo spesso) come senzatetto, avendo un appartamento a Manhattan, non troppo distante dall’incrocio tra la 6th Avenue e la 53-54esima strada. Sarà in questi luoghi che adotterà il nome d’arte Moondog, in onore del cane suo compagno d’infanzia solito ululare verso la luna. 

Nel corso degli anni assume il ruolo di figura di spicco di quella che viene definita musica d’avanguardia; fonte d’ispirazione per tanti, apprezzato anche da pesi massimi quali Charlie Parker, ha avuto l’onore di conoscere Leonard Bernstein (capace di far bestemmiare Carreras), e Arturo Toscanini grazie al suo maestro Artur RodzinskyMoondog, emozionato dall’idea di avere dinanzi il direttore italiano, si china per baciargli la mano, al che l’irruento Toscanini si affretta a scansarla esclamando “Non son mica una bella ragazza”, suscitando così l’ilarità generale. 

Ma son qui per consigliarvi un disco in particolare – quello che mi ha aperto gli occhi – l’omonimo Moondog, secondo album di Louis Hardin uscito a distanza di 12 anni da The Story Of Moondog. Si presenta con 30 minuti eterogenei, frutto delle composizioni ideate nel lasso di tempo d’inattività discografica, nel quale spiccano una Ciaccona dedicata alla memoria di Charlie Parker, alcune composizioni sinfoniche (Symphonique #3 Symphonique #6 Symphonique #1) e due cosìddette minisyms, cioè quelle registrazioni effettuate con l’ausilio di una mini orchestra sinfonica. 

Su tutti però spicca Bird’s Lament, una perla che probabilmente avrete sentito un po’ qui un po’ lì, negli anni…  

“La musica non è granché senza la melodia. Perciò non scrivo musica atonale. La tonalità, più il ritmo e la melodia è ciò che fa per me […]. Non vorrei apparire arrogante affermando ciò, ma l’unica musica che mi appaga è quella composta da me, in quanto so che non offenderà le mie orecchie”. 

Mi auguro questo articolo sia stato di vostro gradimento e vi abbia solleticato ed incuriosito il necessario affinché ascoltiate qualcos’altro di questo bardo gentile. 

Pillole è tornato.

Peccato confessato, mezzo perdonato

In questi mesi mi sono imbattuto in un pensiero con il quale Carlo Collodi giustificava alcune licenze che si è preso durante la traduzione delle fiabe presenti in I Racconti delle Fate.

Qua e là mi feci lecite alcune leggerissime varianti, sia di vocabolo, sia di andatura di periodo, sia di modi di dire: e questo ho voluto notare qui di principio, a scanso di commenti, di atti subitanei di stupefazione e di scrupoli grammaticali o di vocabolario. Peccato confessato, mezzo perdonato: e così sia

Queste righe raccolgono lo spirito con il quale porto avanti Pillole e spero che abbiate modo di apprezzare anche il nuovo ciclo di pillole.

Un ciclo che considero un parto plurigemellare… è vero, manca ancora qualcosina (sono andato lunghissimo sta volta, sono mesi intensi… sigh!), ma il materiale prodotto è più che sufficiente per avviare il nuovo ciclo.

Perciò sono lieto di annunciare che le nuove pillole vi aspettano nel solito spazio digitale dal 27 febbraio.

A mille ce n’è, nel mio sito di pillole da narrar,

Venite con me, nel mio mondo musicale per sognar…

Non serve l’ombrello, il cappottino rosso o la cartella bella per venire con me…

basta un po’ di fantasia e di bontà

 

 

Anno Nuovo, Pillole che verranno

Anche questo ciclo è concluso, purtroppo questa volta non credo sarò in grado di tornare entro un mese con dei nuovi racconti.

Probabilmente sarà necessario più tempo.

Mi piacerebbe avere la puntualità di un orologio svizzero, ma prenderò il tempo necessario affinché gli articoli di prossima pubblicazione siano qualitativamente ineccepibili.

L’intento di Pillole è quello di fare divulgazione musicale, scuotere il sottobosco.

L’unico modo per fare divulgazione – a mio modesto parere – è quello di: studiare, aggiornarsi, approfondire, saper comunicare senza errori e con semplicità concetti più o meno complessi. Ecco in quest’ultimo step sento di aver difettato negli ultimi tempi notando refusi ed errori che avrei volentieri evitato.

Spero possiate capire!

Se in questo periodo foste in astinenza da Pillole, potete comunque seguire la pagina Facebook Pillole Musicali 8 bit

A presto 🙂

Julia Holter – Tragedy

Julia Holter - Tragedy.jpg

Capita di trovare analogie tra differenti articoli dello stesso ciclo, similitudini non calcolate durante la scelta dei dischi da approfondire. È bello trovare dei sentieri differenti che si muovono paralleli alla strada maestra per poi perdersi e ritrovare – quando meno te l’aspetti – la via principale, ramificazioni, connessioni quasi neurali che rendono artisti apparentemente distanti più vicini di quanto noi crediamo.

Abbiamo parlato degli Einsturzende e del ceppo del tutto similare (concettualmente parlando) con John Cage, ritroviamo in Julia Holter una declinazione interessante di quel mondo musicale, fortemente connotato dall’apparente stramberia di rumori che si susseguono in modo casuale. Siamo al confine di ciò che viene definito musica e non musica, un po’ come avviene per l’arte contemporanea, quando la corrente filosofica che caratterizza la formazione di un dato pensiero prevale sulla tecnica canonica.

Per intenderci, facciamo l’esempio di Picasso e del suo studio alla ricerca della quarta dimensione, la necessità di intrappolare su tela il movimento – la fluidità. A chi non ha studiato un minimo Storia dell’Arte e non si è interessato a Picasso e ai suoi periodi, il pittore spagnolo apparirà come un eccentrico artista che spennellava casualmente sulla tela; la verità sta nel fatto che il cubismo è la sublimazione di un determinato pensiero artistico – formatosi negli anni e attraverso altri periodi (come il blu e il rosa) – partito sempre da uno studio accademico notevole. Picasso non è che non sapesse disegnare, era un ottimo esecutore, ma da lì è partito, non si è sentito arrivato.

Tutto questo pippone pseudo-intellettuale vuole porre l’attenzione su John Cage e Julia Holter, lo studio svolto dai due – con le debite distanze – non deve portare a liquidare causticamente un determinato approccio musicale, ma è volto alla necessità di porsi delle domande ben precise: “Cos’è la musica?” e “Cosa si vuole ottenere?”.

Julia Holter ha cercato di musicare – in solitaria (registrazione e produzione) – la tragedia dell’Ippolito Coronato di Euripide, trovo una similitudine molto marcata con le Ocean Songs dei Dirty Three, sarà per quello sbuffo della nave all’inizio della Introduction, o per la voglia di narrare con la musica delle storie articolate in una sorta di viaggio concettuale. In Try To Make Yourself A Work Of Art, si percepisce il senso epico nonostante la ripetizione ad libitum di due semplice strofe che proseguono sotto un unico presagio “This was my plot“, ad indicare la mancanza di libero arbitrio, come a dire “Hey è tutto scritto, così deve andare, è il destino baby”, lo stesso destino beffardo che vuole che Ippolito e Fedra muoiano in situazioni disgraziate.

In tutto questo la Holter sembra impersonare il ruolo di una musa narrante, una figura tra leggenda e realtà caratterizzata da una voce distante, come in Goddess Eyes nel quale il refrain anni ‘80 al vocoder si intreccia con una voce molto simile a quella di PJ Harvey e appartiene – insieme a The Falling Age – a quella schiera ridotta di brani “canonici” presenti in Tragedy.

“Per me non è divertente cantare canzoni che non sono direttamente correlate a qualche evento specifico. Sono più legata al concetto di storytelling” .

Sì perché Interlude – che indica il passaggio alla seconda parte del disco – propizia anche un cambio di registro, una sperimentazione grandiosa in Celebration. Basta lasciarsi trasportare dalla musica per immaginare la sacralità di questo pezzo che ricorda il canto disperato di Wyatt a cavallo tra Sea Song e Little Red Robin Hood Hit The Road, con un sax che ricorda la tromba di Mongezi Feza che si palesa e senza il senso di ansia che permea il capolavoro di Wyatt. Un filo comune con Cage lo si ha per esempio in So Lillies, brano nel quale la Holter registra i rumori ambientali in una stazione ferroviaria per poi costruirci l’intera struttura, nella sensazione di avere a che fare con un qualcosa di cinematico (e qui ci ricolleghiamo a Blixa & Teho oltre che alla kosmische musik di Neu e Kraftwerk), in quel discorso di riuscire a trasmettere con facilità delle immagini tramite i suoni.

Non ho le risposte naturalmente, o meglio, le mie risposte me le sono date e sono del tutto soggettive, ma mi aiutano ad apprezzare il percorso inusitato della Holter che – con i suoi collage musicali – si erge a nuova figura di riferimento per la musica d’avanguardia con un disco d’esordio ambizioso ma al tempo stesso estremamente definito e che ha ben chiaro in mente dove vuole andare.

“Se ascoltate Tragedy, è pieno di grandi idee all’interno […] Non ho nessun rammarico pensando di aver lavorato da sola su Tragedy, ma è ovvio che stavo cercando di creare qualcosa di più grande di quel che potessi fare. Si può vedere in quest’ottica, stavo cercando di fare qualcosa di talmente più grande rispetto a ciò che effettivamente avrei potuto fare da sola.”

St. Vincent – Marry Me

St Vincent - Marry Me.jpg

St. Vincent è sorprendente, strepitosa, e il suo disco d’esordio – a dieci anni dalla pubblicazione – suona ancora meravigliosamente attuale.  

Cresciuta musicalmente da delle nostre conoscenze – come Zappa (apprezzato verso i quindici anni), Jethro Tull e King Crimson (qualche anno prima rispetto a zio Franco) – ha ridefinito in parte il canone del songwriting femminile moderno, utilizzando sapientemente chitarra e pedaliere, arpeggi, echi e vibrati che esaltano la voce di Annie Clark 

Un disco che musicalmente è decisamente ben strutturato, grazie anche alla presenza di turnisti navigati, tra i quali il piano di Mike Garson (sentitevi il piano di All My Star Alligned e ditemi se non vi viene nostalgia di Aladdin Sane). 

“Solitamente quando comincio a scrivere le canzoni, sono un groviglio. È molto difficile che mi sbilanci dall’inizio ‘questi accordi sono giusti e ci costruirò una canzone sopra’. Credo che se sin dall’inizio si parte dal dettaglio, dalla minuzia, sarà più facile applicare un procedimento frattale che di fatto… può innescare ulteriori idee.” 

Questa affermazione dimostra una lucidità e uno studio certosino celato dietro la creazione di nuovi brani, che si può intravedere molto facilmente nella struttura complessa di Marry Me, album nel quale si alternano in maniera ponderata brani apocalittici – come Your Lips Are Red e Paris is Burning – a ballate sognanti da prom – Marry MeAll My Star Alligned e What Me Worry su tutti – passando per ritmi da bossanova nella scanzonata Human Racing. 

I brani hanno subito nel corso degli anni un’evoluzione – così come il processo di songwriting – grazie alle performance live sostenute nel tempo; in principio tutto ciò che è finito su Marry Me è quello che Annie ha creato nella propria stanzetta e catturato con il suo MacBook Pro. Paris Is Burning, per esempio, è nata dopo un periodo speso nella capitale francese, periodo nel quale la canzone è stata composta ma mai eseguita dal vivo, difatti si percepisce l’incertezza durante i primi live, salvo poi crescere di spessore. 

In Marry Me si canta di apocalisse e i riferimenti alla religione nei brani non mancano, a partire dal nome che Annie si è data: St. Vincent. “Il nome deriva da una canzone di Nick Cave [There She Goes My Beautiful World ndr] nella quale fa riferimento all’ospedale dove morì il poeta Dylan Thomas, il St. Vincent hospital. […] In generale sono cresciuta in un ambiente composto da varie religioni, perciò la religione fa parte di me. Tutto – dal fondamentalista cattolico al seguace del guru spirituale indiano fino all’Unitariano universalista – tutto in una famiglia.  Credo che l’aspetto familiare sia più forte di qualsiasi altro dogma.” 

Il titolo del disco -ripreso anche nella title-track – è un messaggio che Annie manda a sé stessa ma anche un commento nei confronti della mondanità, una considerazione al primo quarto di secolo (e al ticchettio dell’orologio biologico) compiuto da Annie all’epoca dell’uscita del disco. “Credo che il mio romanticismo riguardo queste cose sia reale tanto quanto il sarcasmo che mi provocano” 

Ciò che mi piace da morire di Annie Clark è la sua spiccata capacità nel rielaborare le differenti sfaccettature musicali che hanno modellato il suo credo musicale, è come se fosse riuscita a shakerare The Ronettes, Little Eva, Syd Barrett, David BowieKate Bush con tanti altri gruppi a cavallo tra anni ‘90 e primi 2000, riesce a far sembrare normale sentire il fuzz della chitarra sopra a gorgheggi e cori. Le percussioni giocano un ruolo fondamentale in molti brani insieme ad un uso sapiente della voce e della chitarra – suonata in maniera tanto feroce quanto efficace da Annie Clark. 

Tanto per darvi un altro riferimento musicale di St. Vincent, il disco si conclude con una cover di These Days, brano scritto per Nico da Jackson Browne, vero e proprio capolavoro di scrittura.  

Mac Demarco – Salad Days

Mac Demarco - Salad Days.jpgMac Demarco è un imbecille. 

Di quelli irritanti, un pusillanime fastidioso, di quelli che ti toccano sempre o ti si mettono seduti appiccicati quando tutte, ma proprio tutte, le sedie nella stanza sono libere. Per intenderci è quello che mentre pisci nell’orinatoio, viene a pisciare vicino a te e si affaccia di tanto in tanto a controllare misura e getto. 

Mac Demarco è deficiente. E badate bene che lui sa di esserlo… ma attenzione, non è il comportamento sopra le righe di una persona che lo fa in maniera forzata. Semplicemente è un deficiente. 

“Perfezionismo? Non è qualcosa che ha a che fare con me”, i suoi dischi sono condizionati dal buon vecchio motto “buona la prima” e questa rilassatezza la si percepisce totalmente nei suoi album e ancor di più in Salad Days, nel quale le corde della chitarra vengono continuamente sottoposte a bending e tremolo, dando l’idea di trovarsi continuamente in un pezzo di Del Shannon con piccoli soli e inframezzi di chitarra che si susseguono ricamati con delizia e senso pratico. 

Salad Days è permeato dalla ricerca di un sound nostalgico, che sia frutto del ripescare un loop synth anni ‘70 di Shigeo Sekito (ザ・ワード2 – The Word II) che fa da tappeto sonoro a Chamber of Reflection o della sua fida chitarra sempre sul punto di sembrare scordata. In particolare Chamber of Reflection – a differenza delle altre canzoni tutte fortemente ispirate alla vita vissuta da Mac – fa riferimento alla Massoneria, in particolare all’iniziazione “è la stanza nella quale la gente accede prima dell’iniziazione alla Massoneria. È come una camera per la meditazione, nella quale ti chiudono dentro per un po’ di tempo. Lo scopo è di riflettere su ciò che si è fatto nella vita e come progredire. È quello che praticamente ho fatto in studio. È stato terapeutico. Mi sento illuminato, più leggero.” 

Come già scritto poco sopra, il disco è molto personale con brani dedicati alla propria ragazza storica – Kiera McNally – e alla loro decisione di trasferirsi dal Quebec a Brooklyn. “Vivo come un reietto… però è economico” tiene a puntualizzare Vernor Winfield McBriare Smith IV (ma conosciuto dai più come McBriare Samuel Lanyon “Mac” DeMarco) , e Alex Calder – membro della sua vecchia band Makeout Videotape – ci da manforte aiutando a capire la dimensione di questo individuo, ricordando di quante volte si è svegliato con il pisello di Mac a riposare sulla sua faccia.  

Mac è un burlone, debosciato e genuino. Analizzando questi brevi aneddoti si riesce a comprendere anche il suo approccio alla musica e il suo metodo di songwriting “Il mood con il quale ho affrontato Salad Days è ‘fanculo sono in tour da un anno e mezzo e sono stanco’”, il prodotto di tutto questo è un album delizioso a tratti dolce e con una sensibilità spiccata che trasmette di canzone in canzone. 

The White Stripes – Get Behind Me Satan

The White Stripes - Get Behind Me Satan.jpg

Vade Retro Satanasso! 

Quant’erano fighi i White Stripes? Hanno fatto tante cosine interessanti dal mio punto di vista, poi non significa che uno le apprezzi tutte eh! Però molte intuizioni sono state intriganti e Get Behind Me Satan è uno dei dischi pescati dalla discografia loro che ne raccoglie di belle. 

Voi direte “che c’entrano i White Stripes con questo ciclo di pubblicazioni?”… cazzo ne so, mi piaceva buttarli dentro però. 

Prima di tutto possiamo notare come in questo disco sia cominciato il processo di lievitazione naturale e dilatazione di Jack White, sempre più imbolsito e col capello unto alla Johnny Depp (più sozzo), ma comunque dobbiamo dire che all’epoca manteneva ancora una dignità (nonostante le unghie sporche). Poi ha cominciato a inserire fica su fica nei videoclip e – con la ciccia che cresceva – ha perso un po’ di credibilità, soprattutto perché non gli cresce la barba come Cristo comanda e cerca di farla crescere comunque… io odio un po’ questa gente che ha tipo dei peli pubici sul mento, brutti e spettinati, lasciando poi le guance nude a mo’ di culo di bambino pingue. Vabè chiudo la polemica tra me e il sottoscritto. 

Entriamo nel merito del disco, un lavoro che assume una dimensione differente rispetto ai precedenti lavori, l’uso di differenti strumenti offre uno spettro di sonorità più ampio, esempio lampante è la sorpresa che JackMeg White ci riservano al proprio interno, una citazione del più grande successo, quella Seven Nation Army inno multinazionale, ri-arrangiata alla marimba per l’occasione in una nuova canzone: The Nurse. 

Get Behind Me Satan ha tutti i limiti esposti bene in vista, questo mettersi a nudo consente di apprezzare il lavoro in toto, senza soffermarsi troppo su dettagli o imperfezioni (figlie dell’approccio dei White)… nel pieno spirito arruffone della band, il disco è stato registrato tra le scale ed il foyer di casa di Jack White – all’epoca già separato sentimentalmente da Meg White) – e Little Ghost sembra richiamare le atmosfere dell’America rurale a cavallo tra ‘800 e ‘900 dove il banjo ed il whiskey regnavano sovrani tra le spighe di grano. 

Il riferimento all’America di inizio XX secolo non è casuale, l’uso del pianoforte da un tocco di ragtime in molti dei brani nel disco come nel brano che prediligo dell’album, lo splendido spot di Passive Manipulation (interpretato timidamente da Meg), quasi in controtendenza con la magnifica Blue Orchid, primo singolo estratto dall’album e dalle sonorità pesanti (con lo splendido e visionario video diretto da Floria Sigismondi) o con il blues di Instinct Blues (altro ammiccamento alla cultura americana nonostante le derive di zeppeliana memoria come per Red Rain).  

Sì perché nella maggior parte dei casi ci troviamo dinanzi un disco da sonorità che incidono con decisione, dettate da un ritmo compassato, “sono stato in tour per un anno e mezzo e non ho avuto modo di scrivere nulla, a due mesi dalla registrazione di Satan non avevamo ancora nulla in mano. Semplicemente giro per casa, vado al piano, mi siedo e la prima cosa che viene fuori cerco di trasformarla in una canzone”, questo spiega in parte la presenza massiccia del piano all’interno del disco, così come spiega il legame di tantissime canzoni con la cultura Americana, negli stilemi di quegli stati del sud fortemente connotati dal gospel e dal ragtime. 

E come sempre giungo alla fine che dimentico qualcosina, sarebbe delittuoso a questo punto non citare la splendida The Denial Twist, con l’assurdo videoclip girato da Michel Gondry – che vede la presenza di Conan O’Brien – dove ci sono dei continui cambi di prospettiva (basata sul concetto della stanza di Ames) cercando di interpretare visivamente quanto la canzone stessa intende: ovvero che ciò che la gente crede sia vero il più delle volte è distorto dal contesto, da chi comunica il messaggio e della sua credibilità, dalla situazione in cui si trova il ricevente ed il mittente, dal metodo di comunicazione, oltre che dai vari agenti esterni alla comunicazione stessa. Così il cambio repentino di prospettiva vuole indicare che la percezione è soggettiva e varia a seconda di come la si interpreta.