The Doors – The Doors

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Scrivere qualcosa sui The Doors è molto molto difficile… cosa mi metto a raccontare? Cioè è già stato detto tutto quanto, in tutti i modi possibili immaginabili.

Mi sono cacciato proprio in un cul-de-sac… però è anche vero che – di primo acchito – se una pagina dove si tratta di musica non scrive nulla sui The Doors fa la figura da pagina peracottara. Quindi qualcosa mi inventerò, sperando che l’ovvietà non domini questo articolo.

Cominciamo l’angolo Alfonso Signorini, la scelta dell’articolo è ricaduta sui The Doors oltre che per la relazione intercorsa tra Morrison e Nico, anche perché poco dopo la morte di Jim Morrison fu presa in considerazione – dai membri della band – l’idea di proseguire il progetto con Iggy Pop al microfono. Iggy e Nico sono due dei principali protagonisti di questo mini-ciclo; e non è finita qui!

Andy Warhol era invaghito del fascino di Jimbo, un’attrazione che rasentava il grottesco, tanto da voler svolgere il ruolo di voyeur durante lo zicchezzacche tra i due. Andy chiese a Jim di prender parte ad uno dei film che stava girando (I, A Man), ma il manager dei The Doors glielo impedì… tutto questo era giusto per mettere un po’ di ciccia nell’articolo.

Va bene dai, parliamo del disco di esordio di Morrison e amici bbelli, che è praticamente un best of: lo mettete sul piatto e via, vi immergete direttamente nelle loro poesie, in quelle meravigliose pentatoniche di Krieger, nelle atmosfere di Manzarek e nel tiro di Densmore. Ma cosa ha reso speciali i The Doors?

Jim Morrison.

Riduttivo? Forse, ma il carisma, la presenza scenica, il distacco e l’aura mistica, la capacità di essere feroce animale e al tempo stesso intellettuale, sono caratteristiche che non trovate in nessun altro.

Break On Through rompe gli schemi e inaugura il disco, il messaggio – che viaggia sopra ad una bossanova lisergica – è quello di aprire le porte della percezione (suggerite da Huxley nel suo The Doors of Perception) e spingersi verso orizzonti sconosciuti e inimmaginabili. Di fatto, mentre Huxley abusò di mescalina per scrivere le sensazioni vissute in prima persona, Morrison non seguì la ricetta fedelmente, sostituendo l’ingrediente principe con dosi di LSD (così dicono)…

La versione originale del brano non ebbe grande distribuzione radiofonica e fu ostracizzata dai baciamadonne puristi ammerigani per via del ritornello che incita in maniera esplicita all’uso delle droghe; perciò fu registrata una versione alternativa da poter trasmettere su Radio Maria nella quale “She gets high” diventa un ben più sobrio e insignificante “She gets…“. Fortuna che con gli anni siamo tornati all’originale… questa è stata solo la prima di una lunga serie di guai tra Morrison e l’opinione pubblica che lo porteranno ad essere un osservato speciale per l’FBI.

Altro celebre tentativo di censura è quello incorso all’ Ed Sullivan Show, dove Ed Sullivan in persona chiese a Morrison di modificare il testo di Light My Firehit nata dalla mente di Krieger – da “girl, we couldn’t get much higher” ad un più triste “girl, we couldn’t get much better“… insomma, è come se Pippo Baudo chiedesse ai Dari di cambiare il ritornello di Wale (Tanto Wale) arrogandosi il diritto di sostituire frasi e cambiando di fatto il senso della frase.

Va be, Morrison gli da il contentino “Certo Mr. Sullivan, sì sì”, e poi TAC! non cambia un cazzo…(è bellissimo vedere il sorrisino di Krieger sullo sfondo nel momento in cui Morrison decide di far come gli pare) Jim la canta in maniera naturale e non in modo forzato come viene riproposto nel film da Oliver Stone. Il povero vetusto conduttore si rifiutò di stringer la mano a Morrison una volta sceso dal palco, maledicendolo e dicendogli che non avrebbero più suonato nella sua trasmissione. Poco male Ed, ha vinto Jimbo, e di brutto.

Sempre a Light My Fire è legato un aneddoto che mostra l’integrità morale di Morrison, che impedisce l’utilizzo della canzone per uno spot televisivo della Buick, buttando di fatto 68mila dollari che gli altri 3 membri della band avevano accettato senza troppo rimuginarci sopra.

Tornando al disco è un susseguirsi di capolavori, con Soul Kitchen e Crystal Ship (canzone d’amore scritta da Jim Morrison alla ragazza con la quale aveva rotto recentemente, tale Mary Werbelow), proseguendo per Alabama Song (cover estratta dall’operetta Little Mahagonny di Kurt Weill – che musicò le parole di Bertolt Brecht e della collaboratrice Elisabeth Hauptmann) dove Jimbo intervenne su qualche verso. È un disco che corre veloce con il blues di Back Door Man e con il trittico stordito di I Look At You, End Of The Night e Take It As It Comes, preparatorio a The End, vera e propria carta d’identità della band.

Father?/ Yes, son?/ I Want To Kill You. Mother, I want to …

The End desterà scandalo alla prima esibizione al Whiskey A Go Go, quando Morrison – in un flusso di coscienza delirante di 12 minuti all’incirca – raggiunge il climax con questo verso che racconta un complesso di Edipo in piena regola. Ciò, come ha spiegato Manzarek, non significa che Morrison avrebbe voluto fare ciò ai suoi genitori, era solo per mettere un po’ di pathos nell’esecuzione.

Jim ci riassume il significato di The End in queste poche righe “Tutte le volte che ascolto questa canzone, significa sempre qualcosa di diverso per me. È cominciata come una semplice canzone di arrivederci… probabilmente per una ragazza [sempre per Mary Werbelow ndr], ma l’ho vista come un possibile arrivederci ad una certa infanzia. Veramente, non lo so. Penso sia sufficientemente complesso e universale nel suo immaginario che possa significare ciò che vuoi che significhi.”

Nico – The Marble Index

Nico - The Marble Index.jpgNico è un angelo decaduto, troppo bella per essere paragonata ad una creatura terrena, altrettanto austera da apparire indecifrabile. Rifuggiva la propria bellezza, tanto da danneggiarla in ogni modo possibile (soprattutto con tinte nere corvino ed eroina); reputava la bellezza un ostacolo alla propria arte, forse per i suoi trascorsi da modella ed attrice che ne offuscavano l’effettivo potenziale creativo.

Nico è la mia costante – per le relazioni ed i luoghi che ha vissuto – colei che mi consentirà di parlare di New York e dei vari: Bob Dylan (con lui ha avuto una mezza tresca); Rolling Stones (si è trombata Brian Jones ed ha abortito un loro figlio); Jim Morrison (si son trombati per bene, storia di cazzi e cazzotti); Jackson Browne (si è trombato pure lui perché ha scritto qualche brano per Chelsea Girl); Velvet Underground (si è trombata John Cale? Forse); Lou Reed (Lou se l’è trombato e di che tinta); Iggy Pop (per Iggy è stata una nave scuola tanto da attaccargli lo scolo); Leonard Cohen (s’è trombata anche Lenny) e Alain Delon (non parleremo di lui ma se l’è trombato e ci ha fatto un figlio).

Ora non voglio parlare delle varie trombate – anche perché stento a credere che la lista si fermerebbe qui – quanto piuttosto del fatto che Nico era una vera e propria icona (parafrasando il documentario dal titolo NICO – ICON) e punto di riferimento per tanti artisti. Musa e non solo, artista totale, sacerdotessa delle tenebre pronta a sacrificare quanto madre natura le ha dato per farsi carico di un bene superiore: l’arte.

The Marble Index è il secondo disco di Nico – prodotto da John Cale – assume una dimensione differente rispetto all’esordio da folk classico Chelsea Girl – album marchetta, studiato a tavolino da Warhol nel quale Nico interpreta discretamente brani inediti di altri autori. Jim Morrison dopo una breve -seppur intensa – relazione autodistruttiva con la bionda teutonica, la spinge a scrivere dei testi propri e ad assecondare la propria essenza.

Jim Morrison è la scintilla che accende Nico, si narra che il loro primo incontro – dopo del gelo iniziale – cominciò con delle tirate di capelli, schiaffi e classici comportamenti da innamorati. Questo può essere definito come il rito di iniziazione della sacerdotessa e dello sciamano, il resto lo hanno fatto i viaggi nel deserto sfondandosi di allucinogeni.

Quei trip si riversano su The Marble Index, un disco teatrale, cacofonico e gotico, dove la voce di Nico – fortemente caratterizzata dal suo accento – si incrocia continuamente con l’armonium completamente fuori tonalità “L’armonium era talmente fuori tonalità con tutto. Anche con sé stesso. Lei ha insistito nel suonarlo dappertutto così abbiamo dovuto trovare il modo di separare la sua voce il più possibile e trovare un modo per amalgamare il tutto con la pista dell’armonium…. come arrangiatore solitamente si cerca di registrare una canzone e fare una struttura su di essa, ma non era possibile lavorare in questo modo nella forma libera che aveva registrato, rendendo il tutto astratto” ricorda John Cale.

Come scritto è un disco gotico nel pieno significato del termine, ci sono degli eco che ricordano i canti gregoriani, parvenze di musica medioevale e un’idea tetra che serpeggia per tutto il disco dando un’aria di tregenda, dove Nico officia la sua messa personale e solitaria, una solitudine ricercata con decisione. Un disco complesso ed articolato più di quanto appaia.

P.S. Ho scritto questo articolo di notte ascoltando The Marble Index, cagandomi leggermente sotto… quindi se siete suscettibili non ascoltatelo, perché è come sentirsi addosso gli occhi spiritati di Nico per tutta la durata dell’ascolto.

The Velvet Underground & Nico – The Velvet Underground & Nico

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1965 – Dopo la produzione di opere d’arte in serie e svariati tentativi nell’ambito cinematografico, arriva il turno per Warhol e la sua Factory di affacciarsi al mondo della musica. L’attenzione cade sul gruppo capitanato da Lou Reed e John Cale, i Velvet Underground.

Si viene a configurare perciò questo sodalizio artistico che vede Warhol come primo artista produttore di musica. La sua intenzione principale è quella di creare un evento molto simile agli happenings di Cage e dei Fluxus ma in chiave Pop; l’idea conseguente è quella di gestire una nuova tipologia di discoteca in cui una band possa suonare in un ambiente multimediale con delle luci stroboscopiche, dove ci si avvalga delle coreografie e dove possano essere trasmessi spezzoni dei suoi film, su degli schermi multipli a fare da corollario.

In origine la scelta di Warhol cadde su Frank Zappa e i suoi Mothers, ma ce lo vedete Frengo in quell’ambiente patinato fatto di lustrini? Frank quindi declina l’offerta e Warhol punta tutte le sue fiches sui Velvet Underground, i cui componenti frequentano da qualche tempo la Factory. Uno dei padri del marketing moderno capisce subito che tira più un pelo di fica che un carro di buoi, perciò alla presenza funerea di Reed, Cale e compagnia, affianca una delle sue superstar che fa da contraltare con la sua bellezza: Nico.

Si svilupperà subito un rapporto odi et amo tra Nico e Lou Reed, oltre alla relazione sentimentale che si instaurò trai due, Lurìd sentiva in parte usurpata la propria leadership, difatti Nico non doveva fungere da ragazza immagine solo per i live, bensì avrebbe dovuto cantare gran parte delle canzoni all’interno del disco d’esordio dei Velvet.

Prendete ad esempio Sunday Morning, registrata come ultima canzone per volere di Tom Wilson (produttore del disco), è stata scritta su suggerimento di Warhol parlando della paranoia, e Nico avrebbe dovuto cantarla. Solo che quando si trovarono in studio, Lou ci mise la propria voce, cercando di renderla leggera e femminile pur di non farla cantare alla crucca.

Prese vita quindi Up Tight, rinominato successivamente Exploding Plastic Inevitable, spettacolo replicato per quattro settimane con un successo enorme. “Ha inventato il multimedia a New York, cambiando completamente il volto della città. Da allora nulla è rimasto come prima” dirà Lou Reed.

Il clima della Factory ben si addice ai Velvet Underground e viceversa, un ambiente estremamente tollerante dove sono presenti gli emarginati della società di allora come i travestiti, i tossici, gli omosessuali e la gente di strada. Questi soggetti esercitano una forte influenza in Lou Reed che scrive gran parte delle canzoni – dei Velvet Underground prima e della carriera solista poi – ispirato dalla variegata tipologia che orbita presso la Factory.

Nel marzo del 1967 la collaborazione con Warhol da vita al primo disco dei Velvet Underground, nel quale egli partecipa come produttore nominale, limitandosi a produrre in termini finanziari la band e farne da promotore, dando loro carta bianca e pregandoli di cercare di ricreare quell’alchimia e quel sound che tanto lo avevano colpito durante le esibizioni dal vivo del gruppo.

Grande scalpore suscita la copertina ideata da Warhol, una banana su sfondo bianco con una scritta minuscola Peel slowly and See, che invita a tirar via la buccia adesiva della banana, sotto la quale vi è una banana di colore rosa che allude – neanche troppo velatamente – ad un superpisellone pop-art. L’album chiamato The Velvet Underground & Nico è conosciuto oggi col nome Banana Album per l’incredibile forza comunicativa che la copertina possiede.

“stavo lavorando in una casa di registrazione come autore di testi, fin quando non mi hanno chiuso in una stanza chiedendomi di scrivere 10 canzoni surf, così ho scritto per loro Heroin e quando gliel’ho data la loro risposta è stata ‘assolutamente no!'”, questo è il ricordo di Lurìd a proposito di Heroin, uno dei brani più controversi dei Velvet Underground, associato all’uso delle droghe pesanti, così come I’m Waiting For The Man – una delle prime canzoni del disco ad essere registrata – che parla dell’acquisto di una dose di eroina ad Harlem. Altre canzoni provenivano direttamente da alcuni input di Warhol, come la già citata Sunday Morning o Femme Fatale ispirata a Edie Sedgwick e cantata da Nico, o la decadente All Tomorrow’s Parties il brano preferito di Warhol, sempre interpretata dalla sua superstar.

Come non citare in ultimo Venus In Furs, con la viola di Cale che fende l’aria e Lou Reed che canta di sadomaso, sottomissione e bondage, come fosse lo spettatore di un gioco a tre. È la perdizione e la trasgressione che i Velvet vivono nella Factory e che Reed sarà sempre bravo a raccontarci con quel tocco di decadenza che ne ha caratterizzato l’intera carriera.

P.S. sono riuscito a parlare dei Velvet Underground senza citare Brian Eno e la celebre frase sul loro disco d’esordio 8)

Leonard Cohen – Songs Of Leonard Cohen

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Ricordo l’America del Rock (la stupenda raccolta edita da La Repubblica nel 1993 con selezione di Assante, Castaldo, Zucconi, Pellicciotti, Bertoncelli, Placido e tanti altri), il cd 3 che risuona nello stereo: Il Rock Riscopre il Folk. C’è un piccolo cortocircuito in questa raccolta, perché Leonard Cohen è canadese (così come Joni Mitchell) ma c’è lo stesso in quel popò di scaletta. Lo credo bene, come fai a tirarlo fuori da li?

C’è Suzanne, quella stessa Suzanne magistralmente reinterpretata da De André, quella stessa Suzanne cantata da Judy Collins, che aprì definitivamente le porte del mondo della musica a Cohen, finora conosciuto più per le sue poesie che per le canzoni. Cohen era convinto di poter sfondare a Nashville, ma il destino lo dirotterà a New York, in quel focolare artistico chiamato Greenwich Village.

Il primo disco di Leonard Cohen sarà anche quello che la gente ricorderà di più, un successo maturato alla lunga, valutato come merita solo nel corso degli anni, forse perché pubblicato nel pieno periodo della musica politicizzata e del movimento hippy, fatto sta che gli apprezzamenti sono arrivati prima dall’Europa che dagli Stati Uniti (un po’ come avvenne per Jimi Hendrix).

Tornando al brano di apertura del disco, Suzanne, è stata scritta da Cohen nel giro di alcuni mesi, come rivelato da lui stesso: “La stesura di Suzanne, così come per tutte le mie canzoni, ha richiesto molto tempo. Ho scritto la maggiorparte di essa a Montreal – veramente tutta quanta a Montreal – nello spazio, forse, di quattro-cinque mesi. Avevo molti, molti versi. Tante volte i versi andavano per la tangente, avevi dei versi molto rispettabili, ma che conducevano lontano dal sentimento originale della canzone. Quindi, è necessario tornare indietro. È un processo veramente doloroso, in quanto c’è da buttar via un sacco di buon materiale”.

Suzanne Verdall si nasconde dietro la canzone, una vera e propria musa ispiratrice per i poeti beat, sposata all’epoca con lo scultore Armand Vaillancourt. Suzanne viveva in riva al fiume St. Lawrence insieme alla propria figlia, Leonard Cohen andava a trovarla spesso e bevevano del te e mangiavano mandarini “and she feeds you tea and oranges that come all the way from China“. Cohen descrive dei momenti passati insieme e idealizza questa relazione platonica… sarebbe bello dilungarsi ulteriormente su questa canzone e sull’analisi del testo ma dovrei anche raccontare un minimo dei restanti brani.

Come ad esempio, Master Song, la mia preferita “Mi piace cantare una canzone chiamata ‘Master Song‘ è sulla trinità. Ditelo agli studenti: è su tre persone.”, le tre persone sono l’io il tu e lei, parla del rapporto tra padrone e schiavo e di come si evolve sino all’invertimento delle parti. Una canzone che assume una forza considerevole grazie anche all’arpeggio ossessivo, in uno stile che ritroviamo sovente nel resto del disco. La canzone è stata scritta su di una panchina di pietra tra la Burnside e Guy Street, mentre uno dei suoi brani più famosi, So Long Marianne viene composta a cavallo tra due hotel, il Penn Terminal ed il ben più famoso Chelsea.

So Long Marianne è stata scritta in onore di Marianne Jensen, incontrata da Cohen in Grecia dopo che lei si è da poco separata dal marito. Si stabilisce una forte relazione tra i due, Marianne è una vera e inesauribile fonte di ispirazione, tant’è che Cohen offre ospitalità a Montreal a lei e al suo figlio, le dedica anche la sua raccolta di poesie Fiori per Hitler.

Toccante è il commiato tra i due, quando Cohen ha saputo della malattia della Jensen, le ha scritto “So che sei così vicina a me, tanto vicina che se allunghi la mano, penso che possa raggiungere la mia… arrivederci amica mia. Amore infinito, ci vediamo alla fine della strada.”

Si salta di palo in frasca, è un disco che dovrebbe essere toccato in ogni suo punto, ma come al solito mi dilungo e lascio tante di quelle cose che ci sarebbe bisogno di un vero e proprio libriccino per spiegare Songs Of Leonard Cohen. La bellezza di quest’album culmina con One Of Us Cannot Be Wrong, con quel coro stonato finale che offre un tocco di spensieratezza ad un disco eterno.

Dimenticavo di scrivere che il gruppo scelto da Cohen per registrare è quello dei Kaleidoscope nelle figure di Crill, Darrow, Feldthouse e Lindley… arriverà anche il momento di parlare di loro.

Buffy Sainte-Marie – Illuminations

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Quando cercate di raccimolare qualche informazione su Buffy – e siete abbastanza scaltri da non aprire l’enorme massa di informazioni presenti nell’internet riguardo l’ammazza-vampiri – troverete molti riferimenti sullo stile di Sainte Marie, sulla vicinanza alla psichedelia di Tim Buckley in Lorca o alla follia arcaica di Diamanda Galas.

Buffy Sainte-Marie è stata unica, precorritrice di tante intuizioni musicali, forse in alcuni casi alcune idee sono state troppo in anticipo coi tempi. Bazzicava il Greenwich Village, ma il suo suono è molto diverso rispetto a quello dei suoi colleghi “non credo di esserci mai centrata qualcosa [al Greenwich ndr], ma erano dei tempi nei quali qualsiasi disadattato poteva avere la propria opportunità. Non cantavo canzoni folk come Pete Seeger o Joan Baez, non venivo da una famiglia come quella di Bob Dylan, o da una famiglia di musicisti come Judy Collins, ma alla fine ho trovato il mio posto – nonostante non credevo che sarei durata a lungo – credo grazie all’unicità nello scrivere di qualsiasi cosa”.

Questa unicità e sicuramente retaggio del passato di Buffy, una pellerossa adottata da una famiglia canadese capace di mescolare le sue preferenze musicali in un disco, come in Illuminations, disco molto differente rispetto a quanto fatto in passato. Un album che dal folk vira – grazie all’aiuto del produttore Solomon e dal musicista di elettronica Michael Czajkowski – alla sperimentazione, partendo da una semplice base chitarra e voce, distorcendo poi in alcuni brani questa voce con un sintetizzatore Buchla e facendo diventare Illuminations il primo disco in quadrifonia vocale mai realizzato.

Il brano di apertura è imponente, sciamanico, con una eco persistente ed una chitarra arpeggiata crescente, le sovraincisioni si strutturano fino a fondersi in una metrica disordinata e asfissiante, una costruzione che lascia trapelare le origini della cantante prendendo forma in maniera sempre più allucinogena in God is Alive, Magic Is Afoot.

Il testo è di Leonard Cohen e proviene dal suo secondo romanzo Belli e Perdenti, Buffy lo ha musicato, appropriandosene per aprire un disco che procede solenne.

Il modo di cantare di Buffy è memorabile, tremolante a tratti, lo notiamo nell’incedere lento di Mary, The Vampire e nella ritmata Better to Find Out Yourself che ammica in maniera decisa al country campagnolo rielaborandone lo stile. Poi c’è Adam di Richie Havens, arrangiata e virata in chiave psichedelica, per una interpretazione che non ha nulla da invidiare dall’originale, anzi, forse dimostra un maggior carattere risultando meno scialba.

L’aspetto più importante da notare di questo disco è la tipologia dei brani all’interno e la ciclicità con la quale questi brani vengono presentati: nello stile e nel ritmo. È un disco che cattura per l’ottima sequenza dei brani e per lo stupendo finale di Guess Who I Saw in Paris. Illuminations è un passaggio fondamentale per comprendere il passaggio dal folk tipico del Greenwich al sound della West Coast.

Townes Van Zandt – Townes Van Zandt

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Allora… che cazzo di nome è Townes? Me lo sono sempre chiesto, naturalmente non ho avuto una risposta alla mia domanda, fino a quando ho capito che era un semplice cognome usato a mo’ di nome d’arte. C’è da dire sicuramente che è la prima cosa che mi ha attratto, così strano da sembrare simile a quello di un personaggio letterario di Steinbeck.

Di sicuro Townes ha tutte le carte in regola per rientrare nella cerchia dei bravi ragazzi: cocainomane, alcoolizzato, schivo ed ispirato, oltre che morto, condizione necessaria perché un musicista piaccia alle generazioni di oggi e agli hipster di turno disposti a comprarsi tutta la discografia in comodi vinili da ascoltare in giro.

Oltre a una buona dose di Texas e all’aria resa frizzantina dalla sedia elettrica, ciò che si denota da quest’album è la semplicità, la volontà di raccontare delle storie in maniera schietta, nel più classico del cantautorato, senza scadere nella marmellata di merda che è il Country stereotipato che tanto piace ai redneck. La raffinatezza non viene data dalla pennata e contro-pennata di Townes, bensì da armonie e canzoni che ammiccano al Bob Dylan anni ’60 (come nel capolavoro Fare Thee Whell, Miss Carousel).

L’album in questione racchiude vecchi successi presenti nel primo lavoro dell’artista – agghindati e lustrati a dovere per l’occasione – mescolati con altri brani che riescono nell’intento di non far apparire pesci fuor d’acqua le composizioni passate.

Personalmente la mia attenzione cade su Lungs, come molte delle canzoni di Van Zandt il significato risulta poco chiaro, non tanto nel testo, quanto nell’interpretazione che gli si vuol dare. Lungs viene riconosciuto da molti come un brano autobiografico, l’origine di questa supposizione è ricondotta alla cura contro la schizofrenia al quale fu sottoposto il buon caro John Townes ad inizio anni ’60. La così detta ICT (insulin-coma-therapy) ha creato in lui dei buchi di memoria e una cicatrice che sicuramente lo ha portato a cadere continuamente nel baratro dei vizi sino alla sua fine.

Uno degli effetti principali della ICT – oltre agli spasmi – è la difficoltà nel respirare. Probabilmente Townes, ha provato a descrivere quella sensazione di disagio provata durante le cure, perciò “won’t you lend your lungs to me? Mine are collapsing” risulta essere una richiesta di aiuto, e ancora “Breath I’ll take, breath I’ll give/ Pray the day ain’t poison” è la conferma di quanto la condizione fisica del cantautore fosse provata da una cura distruttiva e screditata col passare degli anni.

Quello che a mio avviso vale la pena sottolineare di questa canzone è quanto inizialmente venga mostrato il deterioramento fisico, quindi con una concezione terrena e oggettiva del mondo per poi crescere mano a mano, in una ricerca del senso dell’universo, della morale con metafore mistiche. “Fill the sky with screams and cries”, si riferisce all’urlo che rimane strozzato in gola al giovane Townes, che tenta di sfogarsi contro la tortura silenziosa del coma indotto.

A tal proposito Lyle Lovett  – che assieme a Steve Earle rese omaggio cantando Lungs al concerto tributo – ha detto: “Townes mi disse ‘Questa canzone deve essere urlata, non cantata”.

E’ difficile esprimersi con certezza riguardo l’origine della canzone, ma sicuramente questa è una delle chiavi di lettura interessante e verosimile. Perché soffermarsi su Lungs e non parlare del resto del disco? Perché come per ogni cantautore che si rispetti tutti i brani andrebbero approfonditi, studiati e allora questo sito non si chiamerebbe più Pillole Musicali 8 bit, ma Analisi del testo 8 bit. Lungs è a mio avviso il brano più rappresentativo dell’album per capire chi fosse Townes ed il suo modo di scrivere le canzoni, sapere cosa c’è dietro è molto utile per apprezzare il resto del disco, senza dover utilizzare altre parole.

Van Morrison – Astral Weeks

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L’origine delle settimane astrali risiede in un lavoro di rottura con lo stile passato.

Morire per nascere, guardare sé stessi dall’alto, in maniera distaccata, riuscendo ad imprimere uno stile di scrittura desueto e finora mai approcciato. Stile che ha instillato il dubbio di una disputa tra chi fosse il miglior songwriter tra Dylan e Pulmino Van Morrison, si deve sempre trovare il migliore in tutto, un tempo queste dispute vedevano contendenti di un livello eccelso, oggi ci accontentiamo di gente come Mannarino e altra gente che sinceramente non capisco come siano riusciti a farsi notare.

Tornando a Van Morrison, questo è un album che è piaciuto una cifra anche al mitico capisciotto di nome Scaruffi oltre che a Lester Bangs. Perciò se non avessi parlato affatto sarei stato proprio uno stronzo.

Comunqueeee! Se voi cercaste in giro qualche chicca o recinzione inerente a quest’album trovereste sempre le stesse pugnette trite e ritrite di gente che dice “ma si bello bello… la title-track si bella… molto free jazz…. Molto molto bello… insomma dovete averlo blablabla” fatto sta che nessuno vi spiega perché questo album è da avere.

Se non preparate il terreno è un martello dritto dritto sui coglioni, voglio evitare questa sensazione. Astral Weeks è la ri-nascita artitstica di Van Morrison, per questo lo dovete sentire, perché se conoscevate solo Brown-Eyed Girl siete rimasti legati ad un cazzo di nulla di quello che ha fatto. Sentite Astral Weeks e poi potete continuare con Moondance, entrate nel microcosmo che ha intessuto sapientemente per voi Van Morrison, nella trama e nell’ordito della sua tela musicale di 46 minuti riuscirete a respirare ogni singolo attimo di poesia.

Il concetto di Astral Weeks è centrale – è il fulcro dell’album – e nasce a Belfast nel 1966 quando lo stesso George Ivan vede il dipinto della pittrice Cezil McCartney che aveva rappresentato una proiezione astrale. Fulminante l’idea piomba nella testa del cantautore che ne vede un segno: “[…] ricordo di aver letto come sia necessario morire per nascere. E’ una di quelle canzoni in cui puoi vedere la luce in fondo al tunnel e fondamentalmente è di questo che parla la canzone”.

Una rincorsa alla nuova vita nella speranza che porti dei benefici raggiungere una condizione ideale, lasciare il proprio corpo per osservarlo dall’esterno in maniera cosciente ma distante, una rinascita per abbandonare un fardello e non subirne più il peso. La spiritualità legata a doppio filo alla materialità rappresentata dalla donna in Astral Weeks, come a dire, a figa mi è andata male, provo a fuggire con un viaggio astrale. Troppo facile Van!

Dalle Settimane Astrali alla Ballerina, è in linea con quanto descritto prima, fuggo da questa realtà ma tanto sotto sotto alla figa ancora penso, e Ballerina naturalmente si riferisce alla sua futura moglie. Un crescendo soffice, vaporoso come la nuvola di capelli presente sul capo di George all’epoca, un vero esempio di canzone d’amore.

Van Morrison con Astral Weeks offre una delle più importanti lezioni di vita a tutti noi, come un padre premuroso, come un principe Adam degli anni sessanta (in anticipo di più di dieci anni rispetto a He-Man e i Dominatori dell’Universo), trasmette la morale del disco: anche se sei brutto, olio di gomito e canzoni ben assestate e ti trombi chiunque (vedere alla voce Max Pezzali).

Holger Czukay – Canaxis 5

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“Dobbiamo uccidere Stockhausen! Altrimenti non saremo liberi, subiremo sempre la sua influenza”, come Anakin con Obi-Wan la liberazione avviene mediante l’epurazione.

Le parole di Schmidt risuonano nello studio e spronano Czukay a seguire il lato oscuro della forza fondando i Can.

Karlheinz Stockhausen è immenso, la sola pronuncia del suo nome e cognome impasta la bocca come se non riuscisse a trattenere tutte quelle consonanti. Un’istituzione della musica elettronica che ha raccolto a piene mani l’eredità di Schoenberg tramandandola a sua volta a Holger Czukay, futuro bassista dei Can. Dopo una marea di fischi ricevuti durante un’esibizione, Stockhausen lasciò intendere – con ironia -che tutto quello che faceva era votato completamente all’arte “non ho bisogno di soldi, ho sposato una moglie ricca”.

Questa accoglienza rafforza l’idea di Czukay dopo anni di apprendistato con Stockhausen: ascoltare I Am The Walrus, Frank Zappa e i Velvet Underground ha decisamente solcato il sentiero verso il lato oscuro della forza. Quelle scelte sonore, quei collage di nastri, quegli ambienti musicali artificiosi. La parola d’ordine del nuovo corso è FRUIBILITA’.

E pensare che in Sgt. Pepper i The Beatles avevano incluso Stockhausen nella foto di gruppo in copertina, dimostrando di essere affascinati dai suoi esperimenti musicali e cercando di farli propri in Magical Mistery Tour e nel White Album. E niente, questo circolo vizioso ha iniziato Czukay al rock, alla ricerca di un suono che fosse più accessibile rispetto all’elettronica del suo maestro.

Il primo tentativo di creare un proprio linguaggio musicale avviene con Canaxis 5, dove le influenze della world music miste ad una elettronica stile fantascienza – tendente poi all’ambient – danno l’idea di dove la Kosmische Musik andrà a parare. Come Topolino Apprendista Stregone, Czukay approfitta dello studio lasciato libero da Stockhausen ed in 4 ore – con la collaborazione di Rolf Dammers – registra Canaxis 5. Semplice no?

Prima di raggiungere questo livello Stockhausen educa il padawan Czukay, cercando di fargli capire che la musica è istinto legata a razionalità e non il contrario.

“Tu pensi troppo! Ogni compositore che si rispetti si ritroverà a scalare un muro un giorno”, queste parole aiutano Czukay a cambiare prospettiva di pensiero e superare il blocco creativo battendo nuove strade, un po’ come la Strategia Obliqua di Eno induce a fare (in maniera più raffinata).

 

King Crimson – In The Court Of The Crimson King

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1194, siamo nella piazza di Jesi, nella Marca Anconitana, e viene montato in fretta e furia un tendone in mezzo al quale viene condotta Costanza d’Altavilla. Ella partorì davanti al popolo l’Imperatore del Sacro Romano Impero, Federico II, uno dei sovrani più illuminati della storia: eclettico, estremamente colto e capace di parlare correntemente 6 lingue facendo da traino per l’avanzamento culturale – anticipando di fatto il Rinascimento – in un mondo oscuro come il medioevo.

Osannato da chi gli era vicino, denigrato da chi gli era nemico, gettò le basi della società laica e per questo si guadagnò il titolo di Re Cremisi (il colore del diavolo) perché in aperto contrasto con i dettami di una chiesa più temporale che spirituale – tanto da ottenere la scomunica da Onofrio III.

Federico II è il Simbolo nel senso originale e radicale del termine – colui che unifica – capace di coniugare in modo sapiente le origini gettando uno sguardo lungimirante al futuro riuscendo ad unire oriente ed occidente – condividendo i dettami di Averroè e dimostrandosi immune dai preconcetti diffusi dalle crociate – divenendo così il simbolo di una nuova era (un po’ come Griffith in Berserk, per chi lo seguisse), tra mitologia ed alchimia. Averroè credeva nella Kabbalah – come già evidenziato in Station to Station – si può riassumere nella ricerca di trovare, attraverso la differenza, il Simbolo.

La vicinanza di Federico II ad artisti, filosofi, astrologi, alchimisti, cantori e così via, ci viene raccontata dai King Crimson nella title-track. O meglio questa è l’idea e l’interpretazione che Jon Green ci da, di un parallelismo molto credibile che vi riporto in maniera più o meno fedele (ed è difficile sostenere che non calzi a pennello). Così come la visione di un futuro devastato e messo nero su bianco da Sinfield – con delle frasi sconnesse, metafore immaginifiche – in 21st Century Schizoid Man. La canzone fa espressi riferimenti alla guerra del Vietnam (in senso lato all’orrore della guerra) e alla piaga del consumismo eccessivo (che poi è sfociata in un capitalismo corrotto).

Devo essere sincero, mi sono avvicinato tardi a questo disco, spaventato da quel faccione in copertina che mi respingeva nella sua bruttezza grottesca. Impossibile non conoscere quell’immagine angosciante:

Barry Godber non era un pittore, bensì un programmatore. Quel dipinto fu l’unico che fece. Era amico di Peter Sinfield e morì nel 1970 di infarto all’età di 24 anni. Peter ci portò il dipinto negli studi e la band se ne innamorò. […] Il volto all’esterno è l’Uomo schizoide, quella all’interno è il Re Cremisi. Se si copre la faccia sorridente, gli occhi rivelano una tristezza incredibile [nemmeno avevo capito che stesse ridendo Ndr]. Riflette la musica.”

Capire chi è l’Uomo Schizoide, ci permette di arrivare a comprendere il Re Cremisi, due personalità all’interno di una stessa persona. La dicotomia, la diversità e l’unicità, tutti elementi già presentati in precedenza. Alla voce troviamo Greg Lake – l’urlo dell’Uomo Schizoide – che squarcia la canzone assieme alla chitarra di Fripp (che ci fa dono di uno dei soli più belli della storia) e il magistrale sax di Ian McDonald si fondono in un bailamme di suoni incazzati. Sicuramente è un brano che ha ispirato tante band, mescolando il jazz a riff duri, vorticando su un improvvisazione catastrofica capace di evocare gli orrori della guerra.

Fripp – con la sua faccia psicopatica -ci racconta un altro aneddoto riguardante la canzone di apertura del disco:

“Io non sono mai stato impressionato dall’heavy metal. Nessuno all’epoca ci aveva etichettato così. Per me ‘Schizoid’ è la prima canzone heavy metal, il suono del sassofono che passa dall’amplificatore Marshall… Come per Michael Giles, era un batterista straordinario. Nessun batterista avrebbe potuto raggiungerlo nel ’69”

Tim Buckley – Goodbye And Hello

Tim Buckley - Goodbye And Hello

Tim Buckley è stato un vero innovatore – termine ampiamente inflazionato al giorno d’oggi – riuscendosi a spingere veramente oltre i limiti fin lì stabiliti, unendo generi distanti tra loro.

A cavallo degli anni ’60-’70 c’era veramente qualcuno capace di apportare delle modifiche sostanziali al movimento, per tale motivo è assolutamente paragonabile a Frank Zappa in termini di contributo al mondo musicale.

Tant’è che lo stesso Zappa assieme al suo manager di allora, Herb Cohen, lo assoldarono nella Straight Records, aiutando Tim a porre le basi della sua carriera artistica con Goodbye and Hello, disco ambizioso per un ventenne di belle speranze e fortemente ispirato a Blonde on Blonde di Bob Dylan.

Tim Buckley è stato un eccelso autore ed un grandissimo cantante; dalla voce fasciante, estesa e capace di mantenere la padronanza di tutte le tonalità. L’acido desossiribonucleico in questi casi non mente mai donando poi a Jeff Buckley una voce divina. Goodbye And Hello nasce proprio dalla fuga dalle responsabilità del giovane Tim, poco dopo il concepimento di Jeff – appena diciottenne – non regge il peso della notizia e si trasferisce a New York – nel Greenwich Village – in cerca del sogno musicale, abbandonando così la compagna incinta e dedicandosi alla scrittura del suo secondo album.

Oltre ad un costruzione musicale complessa presente in alcune canzoni, la voce modulata di Buckley e la sua passione hanno dato una profondità eccezionale ad un disco che riflette le sensazioni negli Stati Uniti dell’epoca: allegria, repressione, violenza, ricerca di libertà; Tutti gli elementi che troviamo nella title-track Goodbye and Hello.

Goodbye and Hello ha un climax assoluto, creato ad arte da una miriade di strumenti che formano atmosfere epiche, medievali, zigane e circensi all’interno di un unico brano suddiviso in diverse sezioni legate tramite la voce di Buckley ed un testo di protesta. Ciò contribuisce ad un livello metafisico difficilmente riscontrabile in altre realtà musicali dell’epoca.

Queste atmosfere vengono richiamate più volte nel corso del disco come in Carnival Song -canzone ipnotica angosciante e monocorde – e Hallucinations.  La ritmica viene esaltata in brani come Pleasant Street – che avvolge in un clima tetro e solenne l’ascoltatore per riprendersi con delle cabrate vocali paurose – e I Never Asked To Be Your Mountain, distinta da un ritmo martellante ed una psichedelica galoppante (canzone reinterpretata assieme a Once I Was dal figlio Jeff per un concerto tributo).

Phantasmagoria in Two è la punta di diamante di questo disco – una delle canzoni d’amore più belle: asfissiante, malinconica, profonda tanto da riempirti e svuotarti mentre la ascolti. E’ un disco sorprendente e confusionario allo stesso tempo, lo spleen che viene trasmesso tramite i brani è anticipato dalla cover dell’album che ritrae un Tim Buckley che sorride con mestizia.

Se non riuscite a comprendere la grandezza di quest’artista, ci penserà Lee Underwood – suo chitarrista storico – a farvi capire il suo contributo:

Buckley fu per il canto ciò che Hendrix fu per la chitarra, Cecil Taylor per il piano e John Coltrane per il sassofono”