Mark Lanegan – The Winding Sheet

Mark Lanegan - The Winding Sheet

Basterebbe solo questo “Mi ispiro a Jeffrey Lee Pierce. Pochi lo conoscevano, ma io ero un fan dei Gun Club“… evviva! Finalmente nel nostro spazio digitale giunge il buon Mark Lanegan, ovvero il fratello gemello di Will Ferrell e Chad Smith. 

Se qualcuno di voi è andato a controllare le date di nascita dei tre, notando delle discrepanze, non è colpa mia. Babbi che non siete altro. E se non l’aveste notato, è tornata la rubrica “Alegher, Alegher!”. 

The Winding Sheet è il disco d’esordio da solista di Mark Lanegan, che apre questa parentesi tra un disco e l’altro degli Screaming Trees dimostrando di avere un percorso più a fuoco ed interessante rispetto a quanto fatto con la band… un po’ come è avvenuto per Elliott Smith con gli Heatmiser 

Il risultato è un disco profondamente grunge – più lato Alice In Chains e Nirvana che all’altra frangia di Seattle – che si trascina di canzone in canzone con forza di volontà in un viaggio all’interno del proprio stato d’animo tormentato, contribuendo a formare alcuni dei cliché del cantautorato folk maschile contemporaneo. Per questo motivo, ascoltandolo oggi potreste avere la percezione di qualcosa di trito e ritrito… ma provate a tornare indietro agli inizi anni ‘90, immaginatevi quelle atmosfere e ne riparliamo. “Non sono il tipo dalla storia interessante. Sono solo un musicista che cerca di fare dischi per essere felice ed in pace con sé stesso”, questo riporta una delle sue prime interviste, una di quelle situazioni che Mark affronta con timidezza ed ermetismo capace di annichilire chi si occupa di fargli le domande. 

Il disco è un caposaldo del grunge, non lo scrivo tanto per… effettivamente le prove corroborano quanto riporto. Siamo nel 1989, quando Kurt Cobain e Mark Lanegan si prendono una bella sbornia insieme e decidono di buttar su una band insieme… parliamo dei The Jury la band che non vedrà mai la luce, composta da Mark Pickerel alla batteria e Krist Novoselic al basso, oltre che CobainLanegan. I due riescono anche a convincere Jonathan Poneman – il co-fondatore della Sub Pop – a registrare. 

Quando Marco e Curzio si presentano in studio non hanno di fatto nulla di pronto “sai abbiamo buttato giù un po’ di canzoni, ma non le abbiamo registrate e non ce le ricordiamo [seee… come no ndr]… facciamo qualcosa di Lead Belly al posto dell’altra roba”. Lead Belly, ve lo ricordate? Ogni tanto il suono nome compare nel nostro spazio digitale, probabilmente nel prossimo futuro gli dedicherò maggiori attenzioni considerando quanto abbia influenzato tutti quanti. Lanegan ricorda questo aneddoto aggiungendo “[Lead Belly] era uno di quelli che io e Kurt apprezzavamo e ascoltavamo insieme”. 

In questa sessione viene registrata una versione di Where Did You Sleep Last Night, che poi i Nirvana riproporranno nel famoso Unplugged (live fortemente ispirato da Winding Sheet, uno dei dischi preferiti di Dave Grohl). Fatto sta che progressivamente i due perdono interesse nel progetto e lo lasciano scivolare senza troppi patemi d’animo, al che la Sub Pop intuisce comunque il potenziale della situazione e propone a Lanegan di registrare il proprio album solista. 

Novoselic e Cobain vengono rimpiazzati da Jack Endino e Mick Johnson – il co-autore della maggior parte dei brani del disco, sostituto di Lou Barlow nei Dinosaur Jr., noché produttore del disco – anche se la presenza di Kurt Cobain resta nei cori di Where Did You Sleep Last Night e in Down In The Dark, a testimoniare che The Jury seppur per un breve periodo è esistito veramente e avrebbe garantito a tutti noi qualcosa di memorabile, chissà… forse qualcosa di simile ai Temple Of The Dog (in chiave più leggera, se leggera può essere una parola da associare al grunge e alle persone che lo hanno reso uno dei movimenti socio-culturali più influenti del secolo scorso). 

Slowdive – Just For A Day

Slowdive - Just For A Day

Prosegue il ciclo di articoli “Stai pensando al suicidio? Ci penso io!”, un susseguirsi tambureggiante di dischi che hanno segnato le vene degli ascoltatori di tutto il mondo. Un viaggio nella depressione “quella bella” come piace a noi, fatta di bassi e bassi. Vi faccio tornare all’epoca della pubertà, della ragazza che vi dice no, dell’apparecchio, delle musicassette e del Topexan.

Il sodalizio tra Rachel Gosswell e Neil Halstead è in parte simile a quello tra Sparehawks e la Parker, si conoscono durante l’infanzia, infatti il padre della Gosswell – all’età di 7 anni – le regala una chitarra classica e le dà le basi della musica folk, da buon ex banjoista qual’era. Tre anni dopo comincia a prendere lezioni di chitarra, nelle quali incontra il piccolo Neil Halstead, il legame dei due è solido e come in tutte le migliori storie i propri gusti musicali si incontrano e – all’età di 15 anni – danno vita ai Pumpkin Fairies, una breve esperienza nella quale si aggiunge a loro due Adrian Sell il batterista con il quale fonderanno gli Slowdive.

Adrian porta con sé il suo amico Nick Chaplin, al quale verrà attribuito il merito del nome Slowdive “Leggenda vuole che il nome sia venuto fuori da un sogno che feci. Probabilmente un fondo di verità in ciò c’è. Avevamo un sacco di nomi orribili prima di diventare Slowdive, sapevamo che ci serviva qualcosa di diverso. Sembrò la scelta migliore. Rachel era sempre stata una fan di Siouxsie [Siouxsie And The Banshee ndr].”.

Sì perché Slowdive è il nome di un singolo di Siouxsie del 1982, per Rachel deve essere sembrato il giusto tributo alla sua eroina; lei fortemente ispirata da un’artista a 360° gradi da una personalità come quella di Susan Janet Ballion, che sembra avere un’attrazione grandissima verso gli istrioni ed i teatranti musicali come Robert SmithNick Cave ed Iggy Pop, a voler quasi forgiare il lato gotico della band. L’influenza comune però si dimostra essere un gruppo caposaldo dello shoegaze, i My Bloody Valentine.

Tornando alla formazione della band, gli Slowdive trovano un consolidamento definitivo con Christian Savill che si presenta alle audizioni come terzo chitarrista. L’unico ad essersi presentato, gli altri 4 erano alla ricerca di una ragazza da inserire, ma Savill si dimostrò tanto determinato da essere disposto ad indossare un vestito da donna pur di suonare negli Slowdive… beh sembra che di potenziale ne avessero i ragazzi per indurre un adolescente a fare una cosa del genere, non credete?

Potenziale da vendere, ma grandi cazzari, come Neil Halstead che riesce a convincere la propria etichetta di avere abbastanza brani per un disco “siamo andati in studio per sei settimane, non avevamo canzoni quando abbiamo cominciato le registrazioni, alla fine avevamo un album”… si, ma tutto grazie a sperimentazioni abbastanza ardite con l’effettistica e una dose massiccia di marjiuana a rendere il tutto più piacevole.

Per Neil è stato “come fare un dipinto. Abbiamo lavorato strato per strato ed è diventato tutto quanto omogeneo, indistinguibile! Penso che siamo stati molto fortunati finora.”, Nick conferma aggiungendo ulteriori particolari al metodo compositivo che ha caratterizzato Just For A Day “abbiamo buttato giù gli accordi prima, poi le canzoni sono venute naturalmente tutte insieme. Il nostro primo singolo Avalyn Losing Today [provenienti dal loro primo EP ndr] sono tra queste. La gente sembra preferirle rispetto ad altre perché sembrano incomplete.”

Just For A Day è un disco grandioso, senza presunzione, atmosfere meravigliose costruite sulla voce di Halstead e della Goswell, su delle strutture musicali epiche ed eteree, quasi a richiamare in maniera più asciutta e composta Disintegration, senza il malessere di Robert Smith… uno spleen differente ma non per questo meno bello o intenso.

Low – I Could Live In Hope

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Il titolo di questo disco trasmette tutta l’allegria e la speranza che troverete all’interno di esso. Pari a 0. Ecco se la settimana non è cominciata col piglio giusto, di sicuro non proseguirà meglio con i Low. Cercate allegria? Ottobre è il mese giusto per non averla, fatevene una ragione. Non sono Brezsny Paolo Fox, ma fareste bene a credermi. 

Veniamo a noi: Low è un disco distante dall’esplosione grunge – in quegli anni all’apice – seppure in alcuni aspetti ne rispecchia le sonorità, più comuni agli Slowdive nella tendenza a calmare l’ascoltatore, cullandolo fino a farlo addormentare.  

I Could Live In Hope è un disco di compagnia, non nel senso dispregiativo del termine, non vogliate travisare le mie parole valutandolo come musica da sottofondo… semplicemente lo reputo intimo, un ottimo compagno nei periodi solitari e riflessivi – aiuta a vivere a pieno il momento che l’ascoltatore prova – con quelle intro ripetitive composte da giri di basso ritmati, arpeggi di chitarra rigorosamente in accordi minori ed i piatti accarezzati delicatamente dalle bacchette. 

Curioso anche raccontare il background della band, nata dalla mente di Alan Sparhawk che all’età di 9 anni conosce quella che diverrà la sua futura moglie – nonché batterista del gruppo – Mimi Parker. Alan già a 13 anni comincia a scrivere, dodici anni dopo vede la luce il primo disco dei Low, con Mimi Parker al floor tom e al cimbalo che si alterna alla voce con il marito, tanto per capirci è lei alla voce della meravigliosa Lullaby. In un minimalismo caposaldo della filosofia dei Low. 

Le tematiche sono influenzate anche dalla fede – entrambi sono Mormoni credenti e praticanti – perciò non è inusuale ascoltare riferimenti alla bibbia nelle canzoni di I Could Live In Hope, in tal senso anche il titolo del disco può lasciare intendere la fede dei suoi musicisti. L’unione tra Sparhawk e la Parker, non è solo sentimentale ma anche intellettiva, questa affinità li ha portati ad una carriera musicale lunga e ancora in essere. 

Duluth, il suo tempo e i luoghi nei quali siete cresciuti, hanno influenzato la nostra musica? Certo che sì, non so come ma certamente è così. Non puoi fare a meno di essere colpito da essa”, Sparhawk spiega in due righe quanto una città di dimensioni modeste possa influenzare in qualche modo l’idea musicale di un ragazzo, un po’ come avvenne per gli Slint McMahan, d’altronde se è la città che ha dato i natali a Bob Dylan (e anche a Bill Berry) si vede che un’atmosfera particolare si respira, no? 

“Quando scrivo una nuova canzone, anche oggi, sono sorpresa di averne ancora una dentro di me” dice Mimi Parker in un’intervista del 2012, la forza dei Low credo possa risiedere proprio in questo senso consapevole di “dilettantismo”, nel sorprendersi delle proprie capacità, un diamante grezzo che punta a rimanere tale, con tutti gli spigoli e le storture che lo caratterizzano, tra stonature e brani infiniti. 

I Low escono dagli schemi della canzone canonica – in controtendenza con il periodo musicale in cui I Could Live In Hope vede la luce – assecondando il loro stato d’animo e le loro sensazioni. 

Nine Inch Nails – The Downward Spiral

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Ecco, un altro di quei dischi sui quali puoi scrivere un libro, premetto che sarà dura essere concisi ma ci proverò.

In primis, l’album è fortemente ispirato a Low, sia nella struttura che nella metodologia di lavoro, tant’è che Reznor chiama Belew e lo sottopone alla stessa richiesta che Bowie ha avanzato a lui per Lodger – e prima ancora a Fripp per Heroes – “suona liberamente e concentrati nel fare rumore”. Si perché le registrazioni avvengono tramite un Mac e i suoni sottoposti a brutali variazioni tramite software digitali. Un approccio che può ricordare le campionature dei Depeche Mode, ma rispetto a loro siamo dinanzi ad un album brutale, pesante e aggressivo nel suo sound.

Siamo all’alba di una nuova era e questa era appartiene a Trent Reznor.

Letteralmente Downward Spiral significa spirale verso il basso, ed è quella nella quale Reznor sprofonda in un viaggio di oltre un’ora, partendo dalla frenesia di Mr. Self Destruct e precipitando sino alla title-track – che termina col suicidio del protagonista – fino ad Hurt e al rombo che la conclude. “Quando ho cominciato a lavorare su Downward Spiral, ero veramente depresso e il tema dell’autodistruzione è rimasto fortemente nella mia testa. Volevo fare un disco che esplorasse la sensazione di isolamento, di autodistruzione, di tutto quanto riguardi la propria vita. Ho tirato giù le diverse modalità di autodistruzione. E’ il mio tentativo di spazzar via l’oscurità interiore. […] è il punto di vista di una persona che getterebbe via ogni aspetto della propria vita, dall’incapacità di relazionarsi con gli altri fino a se stessi, dalla religione alla paura delle malattie. Non è rabbia ma ansia.”

Quest’ultima osservazione ci aiuta nella comprensione di Closer, brano che ha da sempre suscitato le fantasie dei più con quel ritornello esplicito che lascia intendere alla lussuria sfrenata. Un’interpretazione del tutto mendace in quanto Closer si concentra sull’ossessione e sull’odio verso sé stessi. Il suono della grancassa – come a simulare il battito cardiaco – è un sample preso da Nightclubbing di Iggy Pop. Il videoclip è un “monumento” ambientato nei laboratori di quei medici dell’800, e ci illustra attraverso dei simboli i temi ed i lati che appartengono alla nostra cultura e società (religione, politica, test sugli animali, sessualità e terrore) è quindi possibile scorgere: delle teste di porco; dei diagrammi di vagine; una scimmia legata ad una croce; una donna pelata con un crocifisso in mano; Reznor prima vestito in latex e poi con una ball gag. Insomma un bordello stile American Horror Story.

Una visione nichilista e paurosa della vita, uno stato – quello della depressione – alimentato dalla scelta di trasferirsi al 10050 Cielo Drive durante le registrazioni dell’album, per i più distratti, casa Tate. “Durante le registrazioni vivevo nella casa nella quale venne uccisa Sharon Tate. Un giorno incontro sua sorella che mi lapida: ‘Stai sfruttando la morte di mia sorella vivendo nella sua casa?’ […] Per la prima volta pensai che aveva perso la sorella per mano di gente becera e ignorante. Parlandomi realizzai ‘Se fosse stata mia sorella?’ e pensai ‘fanculo Manson‘. Andai a casa e piansi tutta la notte facendomi vedere le cose da un’altra prospettiva.”

What I’ve Become?The Downward Spiral è l’intero processo di disintegrazione dell’uomo, un uomo che distruggendosi perde ogni debolezza divenendo in parte automa – trasformazione evidenziata dalle battute impetuose delle batterie e dei suoni campionati – e ferendo chi è vicino a lui; accorgendosi di quanto è successo prova il suicidio e quello che c’è dopo ci viene spiegato in Hurt. L’autodistruzione viene cantata come un abuso di droga, ma è una metafora che apre ad ogni tipo di abuso (tranne quello edilizio): di chi annulla sé stesso per seguire la religione ciecamente o chi lo fa per amore, di chi in pratica viene cambiato nella propria essenza. Un viaggio nella propria coscienza, che spinge alla consapevolezza dell’errore alla comprensione di dove si è sbagliato e alla redenzione virtuale.

Depeche Mode – Violator

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Godere del silenzio è una pratica oramai desueta, si parla sempre di più e talvolta le parole diventano violente, ognuno si sente legittimato ad esporre il proprio pensiero, senza filtri e/o cognizione, senza avere consapevolezza delle proprie parole. Enjoy the Silence non vuol dire unicamente godere del silenzio, ma anche riflettere prima di parlare, significa pensare se è veramente necessario sprecare il fiato. Il videoclip – targato tu-sai-chi Corbjin – ritrae un Gahan modalità Piccolo Principe, in cerca di un posto tranquillo nel mondo dove potersi sedere. Alla fine lo trova il posto – dopo aver girato le highland scozzesi, la costa portoghese e le Alpi svizzere – giusto in tempo per la fine del video che si conclude con il Piccolo Dave che si mette l’indice davanti la bocca e ci intima di goderci il silenzio.

Ho cominciato con un pezzo da 90 e proseguo sulla stessa lunghezza d’onda, Gore è sugli scudi e diciamo che la sua inclinazione alla scrittura è facilitata da qualche bicchiere di troppo, ma anche da letture interessanti come Elvis ed Io di Priscilla Presley:

“è una canzone sull’essere Gesù per qualcun altro, qualcuno che ti dia speranza e attenzione. E su come Elvis Presley fosse l’uomo ed il mentore di Priscilla, di ciò che molto spesso capita nelle relazioni […]”  così nasce il Personal Jesus.

Il tappeto musicale blues e la voce di Dave Gahan rendono la canzone una delle più belle ma anche una delle più violentate della storia della musica. Si salvi Johnny Cash ma tutto quello che ne è venuto dopo – come per Enjoy The Silence – spinge a pensare che il titolo del disco – Violator – si riferisca a chi ha saccheggiato e deturpato sino alla nausea queste due canzoni.

“negli ultimi 5 anni abbiamo utilizzato la seguente formula: mia demo, un mese di studio e poi il pezzo era pronto. Il nostro primo singolo degli anni ‘90 avrebbe dovuto nascere in maniera diversa” così Gore spiega l’approccio al nuovo disco, fa perciò pervenire delle demo meno complete sulle quali intervenire in maniera più pesante.

E lo capiamo sin da subito con World in My Eyes che ammicca all’elettronica stile Ultravox ma con suoni evoluti, asciutti e secchi – che troveremo poi in Zero dei Bluvertigo – si tratta del brano preferito da Andy Fletcher.

Violator suona così anni ‘90, ma non in senso negativo – tipo East 17 o robe del genere – lo fa gettando al popolo un modo diverso di intendere l’elettronica, con campionature meno rozze, un suono a tratti piuma a tratti ferro. In questo le sessioni degli studi di Milano hanno contribuito ad ampliare la gamma dei suoni a disposizione. “Abbiamo registrato la maggior parte del disco a Milano, ed è stato veramente divertente. Non so come sia stato possibile completare il lavoro, eravamo quasi sempre in giro per party notturni e non ricordo nulla. […] mentre in Danimarca eravamo nel bel mezzo del nulla, perciò fu più semplice completare il mixaggio“.

Dopo Music For The Masses e Black Celebration la stampa di settore aspetta al varco i Depeche Mode che riescono ad alzare ulteriormente l’asticella. Personalmente non percepisco Violator come un disco superiore ai precedenti, ma sicuramente la maturazione e la crescita sono tangibili tanto da far ricredere i critici albionici. La rivalutazione dei Depeche Mode è totale, da pseudo-band per sfigati elettronica a catalizzatore di masse e macchina di hit.

Ma logicamente Gahan, Gore, Wilder e Fletcher sono molto più di una macchina da hit, loro sono la storia dell’elettronica recente. Signori ecco a voi i Depeche Mode.

Pearl Jam – Ten

Pearl Jam - Ten

Il fu Mookye Blaylock, giocatore di punta della NBA a cavallo tra gli ’80 e i ’90, il suo nome forse non suggerisce nulla, ma a chi ha nel cuore i sopravvissuti del grunge, non può non ricordare il disco d’esordio dei Pearl Jam. Mookye Blaylock è il nome originale della band, ma per questioni di appeal e di licensing, l’etichetta discografica ha imposto la scelta di un nome più d’impatto.

Pearl viene in mente ad Ament non si sa per quale cazzo di motivo, ma è così; Jam invece è il suffisso che cade dalle nuvole durante un concerto di Neil Young al quale assisterono i futuri Pearl Jam. Nèllo in uno dei suoi magic solo di 20 minuti da lo spunto per completare il nome ai pischelletti di Seattle. Ten è il numero di maglia di Mookye Blaylock, che viene ricordato in questo modo vista l’impossibilità di mantenere il nome per la band.

Neil Young e Pearl Jam – una relazione a doppio filo – si definiscono zio e nipoti nemmeno troppo ironicamente come conferma Vedder: “abbiamo appreso tanto da zio Neil, ci ha adottati come nipoti e ci ha insegnato un sacco di cose belle a tanti livelli. Sulla musica, sull’umanità, entrambe le cose semplicemente guardandolo, ascoltando cosa avesse da dire o conversandoci”… questa è un’altra storia romantica che approfondiremo a tempo debito.

What the fuck is the world running to?” è il rantolo di Vedder con il quale accende Porch, il termometro con il quale è possibile misurare lo spirito dei Pearl Jam in questo periodo. Difatti Ten è il culmine di una varietà di percorsi al limite della rassegnazione, del fallimento e della vita mediocre, senza il rispetto delle aspettative che ogni singolo membro della band si è prefigurato. Il grunge essendo un movimento sociale oltre che musicale – ed essendo ben radicato nella scena della Emerald City – non può discostarsi troppo dalle vite di McCready, Vedder, Krusen, Gossard e Ament, che fin qui hanno avuto risvolti decisamente drammatici.

Gossard ed Ament sono reduci dei Green River, sopravvissuti alla morte di Andrew Wood, leader dei Mother Love Bone (percorso musicale successivo a Green River). Imperterriti decidono di convogliare le loro energie mentali verso il nuovo progetto, Pearl Jam.

La band comincia a prendere forma, pezzo dopo pezzo… finalmente gli anni di sacrifici e la perseveranza cominciano a pagare dazio. I primi brani prendono vita negli scantinati e registrati in musicassette.

L’amalgama c’è, chi manca è l’interprete e chi metta nero su bianco i testi.  Una demo tape di 5 brani viene registrata in delle sessioni alle quali prende parte Matt Cameron – batterista dei Soundgarden e attuale batterista dei Pearl Jam. La demo viene consegnata a Jack Irons (futuro batterista dei PJ, nonché frequentatore dei vari Gossard, Ament e McCready) che a sua volta la fa pervenire ad un suo amico che di mestiere fa il benzinaio a San Diego. Il tizio in questione è Eddie Vedder. Se fosse stato studiato a tavolino questo gioco d’intrecci non sarebbe mai stato possibile.

Eddie è un ragazzo con un passato tribolato e caso vuole che sia in possesso di quella sana punta di depressione necessaria ai Pearl Jam, scrive i testi per 3 brani della demo tape (Once, Alive & Footstep), registra la voce sopra i tre brani e rimanda la cassetta – ribattezzata Momma-Son – a Seattle. Arrivato nella Emerald City i ragazzi hanno modo di conoscersi e cominciano a provare e continuare a lavorare sui brani presenti nella demo, così Vedder scrive su due piedi il testo per la E Ballad (la ballata in Mi) che prenderà il nome di Black.

Una volta stabilita la formazione base, comincia anche il teatrino dei batteristi: Krusen molla a due mesi dall’ingresso in studio di registrazione per andare in riabilitazione; subentra Chamberlain che dopo un tot di concerti molla per andare al SNL; nell’andarsene suggerisce di chiamare Dave Abbruzzese che rimarrà in pianta stabile fino al 1994, quando verrà sostituito proprio da Irons.

Ten non racconta unicamente i disagi interiori vissuti dai Pearl Jam, ma anche fatti di cronaca trasposti in musica e canzone da Ament e Vedder con Jeremy. La storia di un ragazzino texano di 15 che davanti alla propria classe si spara un colpo di pistola alla testa. La canzone denuncia l’amarezza di una scelta decisamente drastica e cerca di trasmettere la necessità di riscattarsi negli anni con le proprie forze senza piegarsi alle bastonate che la vita ti da. All’origine del brano – racconta Vedder – che non vi è solamente la storia del Jeremy texano, bensì anche la storia di un ragazzino compagno di classe di Eddie che ha dato vita ad un dramma simile, rivolgendo la frustrazione verso terzi.

Non ho intenzione di dilungarmi sul senso di ogni canzone, ma su quello DELLA CANZONE per eccellenza sì. Mi limito prima a concludere con una considerazione: questo album oltre ad essere un grande disco d’esordio, è una perfetta alchimia tra brani, sentimenti e capacità di tutti i creatori del disco. Darà il là alla grande epopea dei Pearl Jam e riuscirà a farsi largo nel mercato garantendo una credibilità che i Pearl Jam hanno consolidato sempre più negli anni.

Il simbolo dei Pearl Jam, il simbolo di Vedder è Alive e mi piace chiudere con le sue parole che spiegano in poche righe ciò che erano e ciò che sono ora i Pearl Jam:

“Questa è una piccola storia che mi piace chiamare ‘la maledizione’, è una canzone che proviene da Ten e che abbiamo suonato centinaia di volte dal vivo, e si è trasformata negli anni non per la forma o per gli arrangiamenti, bensì per l’interpretazione. La storia originale della canzone racconta di un ragazzo che viene a scoprire delle scioccanti verità… la prima è che l’uomo che credeva essere suo padre – e lo aveva cresciuto – non lo era… la seconda dura verità è che il vero padre era venuto a mancare da pochi anni. Come se per un adolescente non fosse abbastanza, quando la madre racconta tutto ciò al figlio, una forte instabilità emotiva e confusione lo avevano colpito. Lo so, perché conosco quel ragazzo. Ero io. Ricevere i segreti che si suppone dovessi perdonare, ma al tempo stesso essere ancora vivi e dover convivere con questo. Era una ‘maledizione’ essere ancora vivo. Nel corso degli anni, la canzone ha raggiunto un pubblico molto più ampio che ha cantato in massa durante i concerti ‘I’m Still Alive‘. Perciò ogni volta che vedevo queste persone darne una interpretazione positiva, per me è stato incredibile. Il pubblico ha cambiato il significato di queste parole. Quando cantano ‘I’m Still Alive‘ è una celebrazione. Quando hanno cambiato il significato di queste parole, hanno rotto ‘la maledizione'”.

Smashing Pumpkins – Mellon Collie And The Infinite Sadness

Smashing Pumpkins - Mellon Collie And The Infinite Sadness

Devo ammetterlo, non mi sono mai stati simpatici… con superbia e conoscendoli superficialmente li ho sempre reputati sopravvalutati e noiosi. C’è un però in questo preambolo… mi sono dovuto ricredere, ho ascoltato in maniera attenta Mellon Collie And The Infinite Sadness cercando di comprenderlo – calandomi nella realtà storica nella quale è stato concepito – e andando oltre le sonorità, scoprendo sfumature che mi hanno spinto a scrivere questo pezzo e rimanendo piacevolmente sorpreso dalla riscoperta di questo album.

Voi direte: A me che perché dovrebbe fregare qualcosa di tutta ‘sta introduzione?

Niente, semplicemente non avevo la minima idea di come cominciare questo articoletto.

La durata del disco porta gli Smashing Pumpkins ad optare per una struttura dello stesso suddivisa in fasi: Dawn, Tea Time, Dusk, Twilight, Midnight e Starlight. Da questa composizione articolata nasce il paragone che Corgan – con modestia – sostiene fermamente: “Mellon Collie è il The Wall della Generazione X“.  Ci può stare.

L’aurora splende di luce propria con Tonight, Tonight, primo vero sussulto del disco, brano scritto durante il tour di Siamese Dream. Un crescendo marziale, cinematografico ed emotivamente di grande impatto che ben si coniuga con la voce nasale,  a tratti cacofonica di Corgan.

Tonight, Tonight – segue la strumentale Mellon Collie And The Infinite Sadness – resta ben impressa nella mente di chi era teenager negli anni ‘90 per il memorabile videoclip – tributo a Viaggio nella Luna di Georges Méliès.

Ma perché proprio Méliès? La scelta risiede nella copertina dell’album, in una immagine coordinata che sapientemente gli Smashing Pumpkins hanno costruito per questo disco – difatti l’artwork è una fusione tra il l dipinto di Santa Caterina d’Alessandria (realizzato da Raffaello Sanzio) e La Fedeltà di Jean Baptiste Greuze – che ispira decisamente le tipiche figure del cinema muto e fa scopa con le scenografie di Méliès.

Si prosegue con Zero, e con le sonorità ereditate da Siamese Dream, tant’è che effettivamente è stato il primo brano ad essere registrato per Mellon Collie, oltre ad esser stato scritto durante il tour del precedente album. Più che al brano, vero e proprio, l’aneddoto è legato al vestiario di Corgan; gli Smashing Pumpkins stavano attraversando il periodo della pubertà in cui si dovevan stravolgere il guardaroba per sembrar fighi e alternativi e allora succede sta cosa che Corgan trova ‘sta maglia con su scritto Zero che boia dé adesso è famosa un bel po’ e vale un sacco di danari.

La maglia venne prodotta da una compagnia di skaters di nome Zero Skateboards, e di li a poco fu fuori produzione. C’è chi pensa che l’utilizzo della maglia fosse una trovata promozionale legata al brano Zero e chi invece crede che Zero fosse un supereroe creato da Corgan basato su sé stesso (quest’ultima teoria sembra sia stata confermata da Corgan poco dopo la realizzazione dell’album del 2000 Machina/The Machines of God).

Fortunatamente sembra che Billy Corgan ne possieda diverse, ciò gli permette di mantenere lo stesso outfit di venti anni fa.

Va bè, fatto sta che viene indossata per la prima volta nel videoclip di Bullet with Butterfly Wings, ultima testimonianza videoclippistica dei capelli di Corgan e primo singolo estratto dall’album e apertura del lato Dusk (crepuscolo). Anche per questo brano si è andati a pescare dal periodo Siamese Dream (lo si può intendere dalle sonorità), ci sono sessioni e registrazioni in loop del 1993 che testimoniano la genesi di questo brano e del suo celebre riff di chitarra.

Ho fatto riferimento più volte all’era di Siamese Dream in quanto a cavallo tra la fine del tour e l’inizio delle registrazioni di Mellon Collie, Corgan ha scritto la bellezza di 56 brani… WOW.
Vabè l’ultimo di questi è stato 1979. Corgan lo considera come il brano più intimo di tutto l’album in quanto racconta il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza, la delicatezza e la tenerezza con la quale imprime i suoi ricordi da dodicenne (lui è del 1967) nel brano sono perfettamente riscontrabile nel sorriso genuino e nei momenti che ci mostra nel videoclip.

Mellon Collie è un disco infinito, un falso-piano all’apparenza piatto, ma quando lo affronti ti coinvolge, ti prende e ti accompagna per tutta la durata in un mondo sospeso, etereo. E’ una colonna sonora, è come vivere in una fotografia e per questo non voglio proseguire nel racconto ma credo sia giusto fermarsi con 1979.

Jeff Buckley – Grace

Jeff Buckley - Grace

Quando si è giovani, belli e baciati dalla dea della musica ti puoi sentire invincibile, puoi perdere contatto con la realtà e dimenticare la tua condizione di mortale. Probabilmente Jeff Buckley non è stato sfiorato da questo, con l’esempio di un padre distrutto dall’abuso di droga, Jeff è stato uno dei pochi casi in cui il figlio è riuscito a “sopravvivere” alla fama del padre.

“La sua sola influenza è quella della sua assenza”, dirà di lui. Forse questa frase – che nasconde un velo di delusione – spiega come Jeffrey Scott sia riuscito a percorrere il proprio sentiero – nonostante il fardello di un cognome pesante – regalandoci a modo sue forti emozioni come fece Tim Buckley.

Entrambi sono stati strappati troppo presto dal destino che li ha relegati nell’Olimpo della musica, privandoci della loro presenza e del loro carisma artistico. Nonostante il loro passaggio sia stato tanto breve quanto intenso. Ma si sa che muore giovane chi è caro agli dei.

Grace – considerando l’anno in cui è concepito – risulta un disco prettamente anacronistico con un sound ibrido e fuori dal contesto storico in cui si trovava; forse il termine esatto è senza tempo. Il fulcro di Grace risiede nella voce di Jeff, cristallina ed espressa al massimo all’interno del disco, oltre che nella capacità di elaborare le proprie influenze attraverso uno stile personale e distaccato.

Grace è un lavoro soggetto ad un periodo discretamente lungo di lavorazione, dove è stata data carta bianca a Jeff Buckley. La pubblicazione è slittata più volte a causa dell’incapacità di Jeff nel finalizzare i brani; la spinta per concluderlo proviene dalla morte del padre di Rebecca Moore (sua compagna durante il periodo della registrazione). La stessa Moore è stata una figura centrale e d’ispirazione per brani quali Grace, So Real, Last Goodbye e Forget Her (canzone scritta successivamente alla conclusione della storia con la stessa Moore).

La ricezione del mercato musicale non è stata delle migliori, ma progressivamente Grace è cresciuto, diventando un disco di culto da possedere nei propri scaffali. La celebrità è conseguenza soprattutto della reinterpretazione di Hallelujah di Leonard Cohen, resa più più più …. non ho un aggettivo adatto per esprimere l’apporto di Buckley… diciamo resa PIU’ e basta.

La bravura di Jeff è stata quella di rendere immortale un brano immortale di suo, cantando Cohen senza scimmiottarlo, rispettandolo ma imponendo la propria impronta. Così ha ridato la vita ad Hallelujah.

Si dice che lo stesso Cohen abbia affermato:

‘I wrote the lyrics, but it is definitely a Buckley song’

Last Goodbye è il singolo di maggior successo, nel quale ci viene raccontata una storia d’amore giunta alla conclusione nella quale però manca la rassegnazione, in quanto è l’amore che se ne va, non la persona amata. In principio, come rivelato da Mary Guibert (madre di Jeff) – alla quale è stata spedita la cassetta della demo dallo stesso Buckley durante la sessione di registrazione – il titolo doveva essere Unforgiven

Altro singolo estratto dall’album è So Real. Una canzone scritta all’ultimo minuto – registrata alle 3 del mattino – una interpretazione perfetta, ad album pressoché terminato. So Real è andata a sostituire Forget Her. Anche in questo caso la tematica dominante è l’amore contrastante e contraddittorio (Ti amo, ma ho paura di amarti) sempre con riferimento alla storia con la Moore. Il videoclip è stato seguito in prima persona dallo stesso Jeff Buckley che ha affiancato la regista Sophie Muller.

 

Morphine – Good

Morphine - Good

Dududu du dududu du dududu du

Papa pa papa pa papa pa pa papa

You’re good- good- good

Penso ai Morphine, a quel giro di basso che arriva dritto allo stomaco, al sax capace di martellare come il volo di un calabrone, al lirismo e al confine tra musica borghese e accessibile. Non posso esimermi dai soliti paragoni, per quanto continuamente Sandman venga posto alla stregua di Tom Waits e Nick Cave esso si esprime con una identità più naturale e genuina, meno teatrale, diretta.

Non è un caso che sia stata una delle band di riferimento degli anni ’90, capace di insinuare nel panorama musicale elementi tipici del jazz e blues con quelli che erano gli strascichi degli anni ’80 basati su new wave e depressione cronica.

Pronti, via, Sandman piazza già la hit di apertura con la title track, il basso a due corde vibra senza sosta, un crescendo che fa vibrare ogni cellula, ed una voce tanto cupa quanto densa. Tutto quanto si sposa da dio con il sax di Dana Colley che entra sempre in punta di piedi intrecciandosi e vestendo i giri di basso con naturalezza. Ne nasce un sound torbido, contraddistinto dalla voce baritona di Sandman, che a tal proposito ha dichiarato:  “ Siamo persone baritone e l’effetto cumulativo di tutti questi strumenti genera un sound decisamente grave, ma si riesce comunque a distinguere cosa accade tra gli strumenti. Scatena sul corpo una serie di vibrazioni che piacciono tanto a molte persone”.

Quello che si trova dentro questo album è un tesoro di cui ognuno ha il diritto di usufruire. La suggestione scatenata da Good è quella di trovarsi in un film noir senza tempo, in un pub con il bancone in legno ed una nebbia da fumo degna della Londra autunnale. C’è una rincorsa continua all’amore, l’unicità, le incomprensioni, dichiarazioni surreali, fughe, la capacità di essere parte e di specchiarsi in tutto ciò.

Se dovessi cercare di tracciare una linea dritta per definire quest’album sceglierei questo trittico di canzoni: GoodYou Speak My LanguageI Know You (part II).

“Something tells me you can read my mind” “Everywhere I go no one understand me, but you speak my language” “Cause you’re just like me and I know you”, sono delle dichiarazioni d’amore esplicite e romantiche che dimostrano quanto questo sia il tema principale dell’album, l’aver trovato qualcuna con cui condividere tutto, senza però apparire melenso o fuori fuoco.

I Morphine, al contrario di quanto si possa pensare, devono il loro nome non alla morfina, quanto a Morfeo, il dio del sonno:

“Ho saputo che c’è una droga che si chiama morfina (morphine), ma non veniamo da lì… noi stavamo dormendo, Morfeo è apparso nei nostri sogni… così ci siamo svegliati e abbiamo cominciato la band… eravamo così avvolti dal messaggio apparso in sogno, che siamo stati costretti a fondare la band.”

Mark Sandman ricalca l’archetipo del bluesman che viene sopraffatto dagli eventi della vita, elevando la sua condizione d’artista ad uno stato di grazia che lo guidano ad una immedesimazione completa in ciò che scrive. La morte prematura di due suoi fratelli e un accoltellamento al petto hanno inciso in maniera probante sulla sua vita, andando a gravare successivamente sulla sua ipertensione arteriosa… ma questa – purtroppo – è un’altra storia.

 

 

Slint – Spiderland

Slint - Spiderland

“Hey, veniamo da Louisville e pensiamo voi dobbiate sentire questo” era il 1987 e dei ragazzetti si apprestavano a suonare dal vivo Cortez The Killer e la loro aspirazione principale era la creazione di un nuovo On The Beach.

La terra dei ragni sedimenta in queste parole, in un live del tour di Tweez, non tanto per Tweez, ma mai parole furono più profetiche. Uno sceneggiatore non avrebbe potuto ideare un finale più bello e pregno di significato per una band, che con Spiderland eleva le proprie atmosfere e sensazioni ad un apice che difficilmente sarebbe stato replicabile dagli Slint. Un canto del cigno sbalorditivo per come si è venuto a creare e valutando anche dalla provenienza dei componenti del gruppo (università, lavoro ed altre situazioni che naturalmente privavano i protagonisti di questa storia di un impegno totale nei confronti del progetto).

Quello che gli Slint hanno rappresentato è stata l’anomalia; i gruppi dell’epoca vivevano la band suonando dal vivo a più non posso, loro no… e se capitava passavano quasi in sordina – una presenza ai limiti del vacuo – stato esistenziale ben rappresentato dalla copertina del loro album, quasi a ricordare una scena tratta da Stand by Me.  La loro vacuità è tale da aver scosso – a livello sociale – un segmento di giovani sopiti ed intorpiditi, ispirandoli e consentendo loro un business più redditizio ed imponente – seppur con minor impatto emotivo ed estro – agevolandone la loro ascesa.

Steve Albini, produttore ai tempi di Tweez fu chiaro con loro e mise subito le cose in chiaro: “Io non penso ragazzi che voi sarete mai grandi, ma diventerete veramente influenti”.

Le melodie di Spiderland vengono composte in toto durante la pausa dopo il tour di Tweez, si entra nel River North Studios nell’Agosto del 1990 con sei tracce senza alcuna linea vocale. La semplicità e la rapidità con la quale McMahan e Walford scrivono i testi nello studio di registrazione è tale da legittimare la loro unicità. Mantenere una coerenza nel livello dei testi e della musica è un elemento di una complessità assurda, naturalmente le tempistiche del tutto ne aumentano il coefficiente di difficoltà.

Brian Paulson (successivamente collaboratore di Beck e Dinosaur Jr) famoso per il LiveSound delle sue sessioni, ricorda così quel periodo: “Era strano quello che stavamo facendo, mi ricordo che ero seduto, ed ero cosciente che c’era qualcosa. Non avevo mai ascoltato nulla di simile. Stavo veramente portando alla luce qualcosa di fottutamente strano.” Le sessioni furono molto veloci ma altrettanto stressanti.

Pajo parla di una evoluzione che li stava investendo tra primo e secondo album, un cambio di rotta, una necessità di destrutturare il loro livello, provando a riprodurre il confronto presente nell’hardcore per creare un’atmosfera poco confortevole. “Anche dopo tutto questo tempo, quelle urla mi fanno venire i brividi. Se Brian non si fosse reso vulnerabile durante queste registrazioni, non ne staremo parlando ora”. “Mi ricordo che appena finì di urlare corse in bagno. E quando tornò disse ‘Io sto male’”.

La vulnerabilità e la malattia sono strettamente riconducibili al fatalismo crescente che ha condizionato il “miracolato” McMahan, vittima di un incidente accadutogli nel tentativo di soccorrere un guidatore lungo la highway, che lo ha trasportato in un pericoloso vortice depressivo. Il senso della vita pervade lo scantinato della madre di Walford, dove i ragazzi erano soliti frequentare per le prove, con un McMahan che in formato reminder impallato soleva ripetere a chiunque fosse presente: “Ricordati che devi morire”.

“Io non credo che i ragazzi fossero a conoscenza di ciò, ma diventare adulto, passando per la scuola, cercando di soddisfare le aspettative dei miei genitori, di tutti quanti… era dura. Il raggiungimento della maggiore età a Louisville non è cosa semplice. Per tutta l’autonomia di cui giovavamo da bambini, non c’era alcun sbocco creativo. Mi provavo ad immaginare ‘Come farò tutto questo?’ Mio nonno paterno era un musicista. Grande persona, ma non sembrava riuscire a raccimolare due spicci. Mio padre in particolare era come se sentenziasse questa mia scelta: ‘E’ un grande errore’. Ho un fratello di 5 anni più giovane. Non dico che Good Morning Captain fosse su di lui, ma quelle frasi che dicono ‘I’m sorry. I miss you’, sono dirette a tutte le cose che avrei lasciato indietro, Louisville e lui. Stavo pensando a mio fratello che andava incontro a tutte quelle esperienze che avevo già vissuto, quando tutto stava cominciando a diventare troppo. Io non ricordo che stavo diventando malato. Quella parte è solo una distorsione.”

Come una sentenza, il giorno dopo il termine delle registrazioni, gli venne diagnosticata una forma di depressione, con conseguente uscita dal gruppo e scioglimento degli Slint.

Spiderland deve il suo nome all’impressione che il fratello di McMahan ebbe ascoltando il lavoro di Brian, ovvero, sembra simile ad una ragnatela (spidery). Effettivamente per come le note cadono delicatamente e per come vengono ridotte a trama, mai aggettivo fu più consono a definire questo lavoro, mentre Lou Barlow lo identifica come un creolo, dalla calma al rumore senza apparire né indiegrunge.

Pajo ha capito quanto sia stato importante sciogliersi quando nessuno se lo aspettava, senza un tour, senza promozione, senza un progetto promozionale a degno supporto del lavoro degli Slint, ma quanto tutto questo fosse secondario. Spiderland prova questo: “eravamo una band che si era sciolta, con un album con una cover in bianco e nero. Nessun tour, nessuna informazione. Sei canzoni, che hanno connesso la gente”.