Elza Soares – A Mulher do Fim do Mundo

Ebbene sì! Siamo alle battute finali, sento il friccicorio nell’aria di questo ciclo di pillole che si va esaurendo, e lo fa con un mini botto, con un minicicciolo, con un pop-pop, con una miccetta (senza scomodare raudi, zeus e mefisti vari).
Molti di voi staranno tirando un sospiro di sollievo, finalmente si torna a parlare di altro, ma in fondo la divulgazione è anche cercare di pisciare – in qualche modo – fuori dal seminato. Mi rendo conto di averlo fatto abbondantemente. 

Sono lieto però di dedicare proprio in calcio d’angolo un posto a Elza Soares: un caposaldo della musica brasiliana
[la metafora calcistica, come avrete modo di leggere, è pertinente; e prima di continuare con la lettura, vi consiglio caldamente di avviare A Mulher do Fim do Mundo, in modo da creare il pathos di cui abbisogniamo ndr]. 

La storia che andremo a rivivere è di quelle che gaserebbe Carlo Lucarelli, pertanto se doveste trovarvi a leggere le righe che seguono col suo tono di voce non fatene un dramma. 

Tornando a noi: certo, non molti conoscono Elza e di questo lungi da me dal farvene una colpa [mi rendo conto di aver tirato fuori dei nomi nel corso di questi mesi che solamente Max De Tomassi ei suoi ascoltatori avranno un minimo masticato ndr], ma chi la conosce forse non sa che la signora in questione è stata la moglie di Garrincha, per qualche anno e lo ha accompagnato in Italia nel periodo in cui Mané bazzicava i campi del Sacrofano

L’amore tra i due è di quelli che strappa i capelli (per dirla alla De André) e destano scalpore, tanto che Elza arriva a rasarsi il capo come pegno d’amore per fare desistere Mané dal vizio dell’alcool.  

Ma andiamo con calma. Lo scenario è il seguente: lui già sposato e padre di 7 figli, abbandona la moglie per Elza, che l’opinione pubblica investe del titolo di guastafamiglie.  

Alea iacta est.  

I due si sposano ma, il retrogrado bigottismo che ammanta Rio de Janeiro, li rende facili bersagli del rancore di una popolazione indolente verso lo star system ed i vezzi dei suoi protagonisti. 

Elza Mané prima si muovono in direzione San Paolo, ma dopo un susseguirsi d’eventi tragici che sconvolgono ulteriormente le loro vite (tra i quali la morte della madre di Elza in un incidente automobilistico nel quale Garrincha guidava l’auto, a cui è seguito un tentato suicidio), scelgono un ambiente più tranquillo e lontano dai riflettori.
Approdano così a Roma, città nella quale Garrincha torna a calcare i campi di calcio.  

Dopo un paio di anni trascorsi nel Bel Paese, nel 1972 decide di tornare in Brasile (nello stesso anno in cui rientrò Caetano Veloso dall’Inghilterra), da lì in poi il vortice della depressione e dell’alcoolismo si rivelerà incontrollabile. Arriva a malmenare Elza durante un eccesso di rabbia e i due rompono.
Dopo di questo solo una fine indecorosa spetta a uno dei calciatori più gloriosi della storia del Brasile, mentre Elza si trova a risistemare i cocci di un matrimonio che ha lasciato strascichi pesanti, tra i quali anche un figlio morto all’età di 9 anni. 

Tutta questa storia cosa c’entra col disco?  

In primis: avete ora avete contezza di chi siamo andati a scomodare con questo scritto e questo non fa mai male.  

In secundis: certo non si è ancora parlato di musica finora, ma ciò non significa che rispetto al passato non ci sia niente da dire su questo disco. 

Sì. Perché A Mulher do Fim do Mundo è di una cupezza unica, corrusca, attraente, nel quale è meraviglioso crogiolarsi: dall’apertura con la poesia Coração do mar di Oswald De Andrade  (musicata José Miguel Wisnik) all’apocalittica Comigo che si conclude con la preghiera laica in ricordo della madre, passando attraverso la title-trackLuz Vermelha o la danza stonata di Dança e Benedita o il flow navigato in Maria Da Vila Matilde

Un disco che ha avuto grande risonanza internazionale, che non dimentica le origini samba (Pra Fuder) ma le spinge più in là, nel pieno rispetto del manifesto antropofago; si impone e sorprende per la sonorità aggressiva che combinata alla grinta di una – all’epoca – 85enne, mette in luce tutta la freschezza mentale e spirituale di Elza Soares, capace di trattare temi come la violenza domestica, la negritudine, la transessualità e il degrado urbano. 

Mulher do Fim do Mundo è un Derelict riuscito magnificamente. 

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Caetano Veloso – Abraçaço

Abraçaço è un’estasi, di quelle che ti scombinano fortemente la vita.  

Ricordo benissimo il giorno in cui l’ho ascoltato la prima volta, Il frevo della title-track è entrato con martellante convinzione nella mente, senza che essa riuscisse a porre troppe resistenze. 

Il pensiero balenato è stato “ma siamo seri?”.  

Sì perché un disco come questo ti sorprende anche se conosci abbastanza bene la parabola disegnata da Veloso negli anni, la sua poetica e il suo passato.  

Per chi avesse dubbi, o fosse puramente reticente riguardo la discografia di Caetano Veloso, questo è il classico esempio che aiuta a scopare via ogni singolo dubbio: chi è capace di tirare fuori a 70 anni un disco simile merita solo ammirazione. 

La freschezza che traspare da Abraçaço è non solo attuale, ma anche corroborante. Possibile che le produzioni più originali provengano sempre dai “dinosauri” anziché dalle giovani leve? La domanda è lecita e Abraçaço ci lascia intendere che il ricambio generazionale non c’è stato, o se c’è stato è debole e con un flebile battito. 

Quel flebile battito nel disco si registra con la presenza del figlio Moreno, che lo segue da tempo nei tour dal vivo e che abbiamo ritrovato con gli altri due figli di Caetano durante lo spettacolo Ofertório. Proprio grazie a Moreno Veloso è legata la partecipazione ad Abraçaço del suo vecchio compagno di scuola Pedro Sé, colui che ha contribuito a far coesistere la musica elettronica alla samba in questo disco. La mescolanza di idee e di impulsi musicali dimostrano quanto l’ideale tropicalista non sia morto, bensì batta ancora forte in Caetano Veloso anche a distanza di oltre 40 anni dalla registrazione del disco. 

Ed è proprio il battito uno degli elementi cardine di questo disco. In un’intervista per il tour italiano relativo al disco, Veloso ricorda i tempi dell’esilio in Inghilterra, quelli che hanno contribuito alla registrazione di Transa.
Proprio in quegli anni ha sviluppato la sua tecnica chitarristica cavando le note dal battito della mano sulle corde. Quel battito è stata la chiesa al centro del villaggio per la costruzione degli arrangiamenti di Abraçaço: un occhio al futuro con il cuore ancorato al passato, capace di rivelare all’ascoltatore un compendio della musica brasiliana contemporanea. 

Questo spirito avvia il disco con l’incedere risoluto e marciante di A Bossa Nova É Foda un saluto alla nuova era della bossa nova, un modo anche di porre l’accento sul pensiero che la bossa nova non morirà mai [hey hey, my my, bossa nova never die ndr].
Poi troviamo lo stesso spirito scalpitante nell’eternità di Um Comunista, una prosa alla Neil Young o alla Nick Cave, nella quale Veloso celebra Carlos Marighella, martire comunista di origine italiana assassinato ferocemente a San Paolo dagli squadristi di ALN (Ação Libertadora Nacional).
Nella canzone c’è una esaltazione romantica dell’ideologia di gucciniana o lolliana memoria, quando “i comunisti custodivano i sogni”: 

“[…] Quando la canto in Brasile ci sono reazioni molto forti, la gente canta il ritornello, applaude, urla il nome di Marighella, è un pezzo che piace e il pubblico rispetta la storia che racconto, anche i giovani, trovano commovente raccontare di un comunista che guardava verso un sogno. Io non sono mai stato violento, ma quella storia mi piaceva, nel pezzo ci sono tutte le contraddizioni del caso, non l’ho mai incontrato e non sono mai stato vicino a quelle storie, anche se a un certo punto lo sono stato, più di quanto pensassi, perché una mia amica fu imprigionata e torturata perché faceva parte di quel gruppo, ma per fortuna lei è sopravvissuta ed è ancora mia amica. Mi chiese di aiutarli logisticamente, io dissi sì, ma non feci granché perché non avevo il tempo e la possibilità di aiutarli realmente.” 

Trovo una curiosa analogia tra quanto accaduto a Caetano Veloso e quanto raccontato nello spazio dedicato a Tom Zé. Ricordate come Tom sostenesse quasi di non essere all’altezza di Caetano Gilberto Gil riguardo la dissidenza politica, la sensazione di aver fatto troppo poco – o nulla – nonostante fosse stato imprigionato per ben due volte.  

Quando Veloso sostiene di non aver fatto molto per aiutarli realmente, è mosso da un simile senso di inadeguatezza nei confronti di Carlos Marighella, il cui epitaffio composto da Jorge Amado recita: “non ebbe tempo per avere paura”.  

Si attiva sempre il dannoso e viscido meccanismo del “senno di poi” quando si verificano drammi come quello occorso al Brasile, si ha la sensazione che si sarebbe potuto fare di più, questo Oskar Schindler lo ha insegnato a tanti, anche a chi ha avuto la fortuna di non vivere questi momenti.  

Forse con Um ComunistaVeloso, ha provato a colmare quel senso di inadeguatezza intimo  andando a raccontare la figura di un uomo vittima di omicidio politico e dei suoi ideali, rendendoli immortali.

Sivuca – Sivuca

Citato a più riprese nel corso di questo ciclo di pillole brasiliane, finalmente il principe del forró approda in questo spazio digitale. È anche più sorprendente il fatto che riguardo lui si trovi poco o nulla in giro, e ogni singola riga di questo scritto è stata cavata fuori come sangue dalle rape, d’altronde secondo voi è un caso che mi stia tanto dilungando in questa introduzione senza aver detto nulla di strettamente memorabile? Vi rispondo io: no.  

Ora che ho terminato di disperdere battute a muzzo, vi butto là qualche primizia riguardo al buon Severino Dias de Oliveira, uno dei migliori fisarmonicisti della storia del Brasile. Anzitutto a giudicare dalla copertina di questo eponimo disco, ho sempre creduto che Sivuca fosse un vecchio in età pensionabile già ai tempi di questo album, mentre scopro che – oltre ad aver dato il proprio nome al disco, obbligando a specificare se il soggetto della frase è il disco o l’artista – Sivuca [album] ha visto la luce nel 1973, quando il buon Severino aveva appena 43 anni. 

Per me Sivuca è un personaggio mitologico: sarà perché si trovano pochissime informazioni a riguardo; o forse per quella sua figura mistica e ieratica alla Moondog [sinceramente credevo fosse anche cieco visto che nella maggior parte delle foto disponibili o nelle copertine in cui presenzia lo troviamo con gli occhi chiusi ndr]; o per l’albinismo che lo fa apparire ancora più eccezionale.
Con Moondog condivide anche la città nel quale vive; Severino decide di trasferirsi a New York ove vivrà dal 1964 al 1976, in questo periodo si spenderà come turnista in diversi tour, accompagnando – tra gli altri – Miriam Makeba e Harry Belafonte

Sarà proprio durante la parentesi americana che il disco Sivuca viene inciso, difatti c’è poco o niente di brasiliano negli accrediti del disco, anche le coriste – seppur bravissime e senza alcun accento o inflessione che tradisca la loro provenienza – sono a stelle e strisce.
Il buon Severino si trova a suonare un botto di strumenti e a cantare in alcuni brani, riuscendo ad imprimere comunque un’impronta riconoscibile al disco, che analogamente a Elis & Tom sarà anche stato registrato negli states (tutt’altra costa) ma suona dannatamente ed esclusivamente brasiliano. 

Fatto sta che per raccontarvi di lui ho scelto un album difficile da trovare: non presenzia su Spotify ed è sospeso su YouTube, nel quale fortunatamente è possibile pescare qua e là qualche brano in un collage fai-da-te che funziona sempre (anche se riduce l’esperienza d’ascolto drasticamente). 

Sivuca suona a tratti come un disco di library music, o di colonne sonore per film degli anni ‘50’60 (pescando dai nostri Piero UmilianiPiero PiccioniArmando Trovajoli e compagnia bella), non dimenticando di ammiccare al forró e a quel clima festaiolo come nella combinata Arrastapé Você Abusou – dal sapore di festa di paese – o nella delicatezza di Lament of Berimbau (in cui il suono del berimbau viene riprodotto in modo eccellente dalle corde di nylon della chitarra classica). 

Questo album , che è la vetta artistica raggiunta dal Sivuca solista, è debitore della propria notorietà alla presenza di Ain’t No Sunshine -successone internazionale di Bill Whiters -, una versione con arrangiamento da paura che differisce dall’originale prendendo vita propria. Anche il brano scelto ad apertura del disco non è inedito, Adeus Maria Fulô, composta con Humberto Texeira e registrata nel 1951 (da Miriam Makeba nel 1967 e magistralmente dagli Os Mutantes nel disco raccontato in questo non luogo).  

Ecco questo disco suona tipicamente nordestino, i fisarmonicisti provenienti dalla zona hanno nel sangue l’uso delle armonie con tonalità sottodominanti, per questo motivo sono capaci di costruire melodie desuete ed estranee alla scuola del sud del paese. E Sivuca in quest’arte era un Maestro riconosciuto e certificato. 

Tom Jobim & Elis Regina – Elis & Tom

Dopo un lungo peregrinare siamo giunti a uno dei capisaldi della musica popolare brasiliana. Un disco – reso celebre dal brano di apertura, l’inno della beleza e alegria brasiliana, Águas de Março – che ha stabilito lo standard sofisticato di riferimento per molte delle cantanti di jazz contemporanee [lo stesso che a molti fa esclamare: “Madonna che coglioni la musica brasiliana” ndr]. 

Eh già… non me la sento di darvi completamente torto, ma è anche giusto provare ad ampliare i propri orizzonti ed esplorare situazioni non propriamente ideali: in fondo se venisse a decadere questa condizione, si resterebbe ancorati nel proprio cantuccio a cantare ad libitum le canzoni del cuore per tutta la vita.
Per carità, legittima anche questa scelta, ma che due palle eh! 

Elis & Tom è stato registrato negli Stati Uniti, lo scenario di riferimento è il seguente: Tom Jobim è l’artista di punta del Brasile, musicista acclamato a livello internazionale che vanta notevoli collaborazioni con Frank Sinatra e Stan GetzElis Regina è in una condizione non invidiabile, cantante di punta e simbolo di un regime che esalta i propri diamanti, succube della situazione fuori dal confine nazionale non gode di grande fama.
In tal senso, per premiare i 10 anni di carriera, l’etichetta della Regina gioca la carta Jobim nel tentativo di farla sfondare nel mercato internazionale. Viene predisposta, pertanto, la registrazione del disco in Los Angeles, anche se l’album in questione non avrà una beneamata cippa di americano. 

Le due personalità cozzano di brutto e nessuno arretra dinanzi l’altro, questo clima di frizione non filtra più di tanto dalla registrazione. Il duetto brioso e giocoso in Águas de Março o la dolcezza in Soneto De Separação sono per nulla presaghi di malumore.  

Durante le registrazioni sono trapelate le seguenti parole – discretamente diplomatiche – esternate dalla Regina:  

“è una merda [in riferimento al disco ndr], non c’è niente di buono, Tom è uno stronzo, un noioso, se la prende sempre con l’attrezzatura elettronica, dice che sono stonati e sintonizzati non so cosa, fa così, e la registrazione è scadente, sembra bossa-nova.” 

Ai suoi occhi, Jobim, aveva compiuto la tediosa metamorfosi da idolo a essere umano. Passati gli scazzi iniziali – e vedendo il materiale venuto alla luce – la situazione tra i due è andata migliorando, ed è lo stesso Jobim che ricorda la professionalità di Elis Regina con le seguenti parole  

“Conosce il mio repertorio meglio di me. Elis ricordava arrangiamenti che avevo già dimenticato. Qualcosa di incredibile.” 

Aldilà di Águas de Março (che giustificherebbe da sola la presenza di un disco del genere in codesto spazio digitale) ci sono altri grandissimi brani in scaletta che valgono di brutto il prezzo del biglietto: come Chovendo Na Roseira deliziosa bossa disorientante per il tempo dispari (che ad esempio troviamo sovente nella discografia degli Elii [sì, lo so, li tiro sempre in mezzo ndr]); o la magnetica Fotografia, istantanea minimale scritta da Jobim nel 1959

Fotografia è intimità pura, delicatezza disarmante, moderna ancora oggi, probabilmente il momento più alto del disco; in grado di descrivere un amore in procinto di esplodere durante un tramonto al mare. 

Águas de Março invece è concepita appena due anni prima della pubblicazione di Elis & Tom ma il successo lo ottiene grazie all’interpretazione di Elis Regina, che la veste con la sua voce e personalità.
Ispirata dalle piogge che solitamente affliggono Rio de Janeiro nel mese di marzo, è nata in un momento in cui Jobim voleva riposare, ma disturbato dal tarlo della creatività la mette nero su bianco in appena un pomeriggio. La canzone si presenta con una progressione discendente, riuscendo nell’obiettivo di rappresentare la forza del torrente che travolge tutto. 

Il testo si adegua all’impeto della musica, alternando picchi di positività a depressione, iperboli ed antitesi, tra grande ispirazione dalla poesia di Olavo Bilac Il cacciatore di smeraldi  (“Foi em março, ao findar da chuva, quase à entrada / do outono, quando a terra em sede requeimada / bebera longamente as águas da estação […]“), e in parte da un ponto de macumba di J.B. de Carvalho che comincia proprio con la linea “É pau, é pedra, é seixo miúdo, roda a baiana por cima de tudo” e per il quale Jobim è stato accusato di plagio. 

Naturalmente l’accusa di plagio è decaduta e passata in giudicato come citazione colta da parte di Jobim, resta però il fatto che mi sono dilungato eccessivamente e di questo disco ho scritto poco o nulla, anche se – per quante informazioni si trovano in giro – rispetto a tanti altri dischi di cui abbiamo discusso ci sia molto meno da scrivere. Va bè, il tempo a nostra disposizione si sta esaurendo, anche se il tempo lo decido io potrei plasmarlo in base alle mie esigenze, ma fottesega per dirla alla francese. 

Ascoltatevi il disco e perdetevi nei fraseggi di Elis & Tom, vi assicuro che lo ascolterete più e più volte senza esservene resi conto: vi entrerà sotto pelle. Non è una minaccia. 

Tom Zé – Estudando o Samba

La parabola di Tom Zé, se non fosse reale, sembrerebbe provenire da una narrazione cinematografica statunitense intrisa di stucchevole retorica, ma essendo reale è capace di offrire un insegnamento senza tempo: mai desistere, se la qualità è reale prima o poi il mondo se ne accorgerà.  

Solitamente la vita si fa beffe degli artisti, non è casuale il rapporto tra morte e successo; come se la dipartita fosse un sigillo di garanzia per coloro che se ne vanno, una sorta di autentica del valore artistico di qualcuno che in vita ha visto la meritata considerazione col binocolo. 

Certo, la statistica è un monito, ma non mancano le volte in cui lo sfizio della ribalta mediatica in vita qualcuno se lo riesce a togliere. È il caso di molti degli artisti ospitati in questo spazio digitale, a cui fortunatamente va ad aggiungersi Tom Zé che – nonostante avesse partecipato alle turbolente manifestazioni tropicaliste – , ha inciso molti album di pregevole fattura, ma non avendo più appeal di critica e pubblico si è visto costretto ad abbandonare malinconicamente tutto per andare a fare il benzinaio. 

Per chi non lo conoscesse, Tom Zé è un fico assoluto, un giovane vecchio che maschera di rughe una giovinezza inscalfibile, un freak che a più di 80 anni ancora si tinge i capelli e presenzia sui social con più convinzione ed efficacia di me. Della mia stessa idea è David Byrne artefice di questa sua rinascita artistica e del successo internazionale che ha investito Tom

La partecipazione alla prima ondata tropicalista non è scontata, Zé si definì per gioco vanguardista retardista (nel senso di avanguardista che si ispira al passato anziché al futuro) dimostrandosi atipico rispetto agli altri artisti. Fatica con la teoria ma vola con le idee e la pratica: influenzato dalla musica dodecafonica ha saputo creare una dimensione parallela nell’ambito della musica popolare brasiliana.  

Sperimentava con maggiore decisione rispetto ai colleghi del periodo (potete confrontare la sua discografia con quanto offerto in Araça Azul, che risulta un pelo più sterile).
Nonostante ciò Zé ricorda con umile reverenza il periodo in compagnia di Veloso Gil, esaltandone la creatività e la verve politica due e lamentando di fatto una propria incapacità nel saper essere ficcante quanto loro nel dibattito nazionale e contro il regime.
Eppure per lui non c’è stato esilio bensì due arresti passati nelle carceri brasiliane, e nonostante ciò ha avuto il coraggio di partorire perle di dissidenza criptiche, come ad esempio la copertina del grandioso Todos Os Olhos sul quale campeggia un buco di culo con una biglia in mezzo (che può essere tranquillamente confuso per un occhio da lontano o per una bocca atta a imprigionare una biglia tra le labbra).  

Insomma, materiale che ridimensiona notevolmente gli individui che al giorno d’oggi si spacciano per sovversivi e dominano le nostre vite mediatiche con i loro 15 minuti di celebrità [spengo immediatamente la polemica da matusa ndr]. 

Detto ciò, è un’altra copertina che fa svoltare la vita a Tom, quella di Estudando o Samba, nella quale il filo spinato si intreccia ai cavi, definita da stesso [perdonate il gioco di parole da trattoria ndr] “una trappola” con la quale è riuscito a ghermire un innocente David Byrne – recatosi a Rio de Janeiro per un festival del cinema nel 1986.
Byrne rimase stupito dal fatto che su un disco di samba non ci fossero dei culi in copertina.  
 ha ideato una gabola da pubblicitario navigato che tende a catturare l’attenzione grazie al sapiente uso della parola samba accompagnata – con carattere minuscolo – dal gerundio “estudando” in riferimento agli “studi” che fanno parte del ramo della musica classica. 

In aggiunta, la deliziosa scaletta posizionata sul retro-copertina, sembra redatta in base agli stilemi della poesia futurista fatta di monosillabi e bisillabi (ad eccezione dell’interpretazione di A Felicidade del duo Jobim Moraes, e Índice):  

TocVaiUi!DoiMãeHein?Se

David Byrne resta folgorato dall’ascolto di questo disco [l’influenza che ha avuto sulla concezione di musica pop di Byrne è tangibile, basti pensare a Toe Jam ndr] e un paio di anni dopo riesce a mettersi in contatto con Tom Zé; lo strappa da un destino lontano dal mondo musicale, e lo mette sotto contratto con la sua casa discografica, garantendogli la giusta visibilità che avrebbe meritato già da tempo. 

In tutta questa tempesta Tom Zé ha mantenuto la barra dritta, dimostrando la sincerità di chi non si piega a nessuna logica di mercato, sacrificando – in misura – il successo in confronto ad altri colleghi più quotati ma meno incisivi. Ha sempre rispettato la propria urgenza artistica, farlo per oltre cinquant’anni non è mestiere per molti e questo penso che sia un motivo valido per ascoltare questa pietra miliare della musica mondiale. 

Caetano Veloso – Araçá Azul

Dopo Transa è difficile non pensare di avere tutti gli occhi puntati su di sé. Perciò per dissimulare l’ansia da prestazione, Caetano, decide di sbatterci in copertina il pacco in bella vista, come a dire: “se il contenuto sarà di merda, la copertina non sarà da meno”.  

Naturalmente il contenuto non è una merda [e la copertina nemmeno ndr], anche se è palese che con Araçá Azul Veloso abbia voluto disorientare critica e pubblico proponendo un disco sperimentale e disattendendo le aspettative commerciali dopo il successo ottenuto con Transa. Anche se lo sperimentalismo puro per me è altra cosa, è innegabile che presentare un lavoro del genere sia un atto di coraggio consapevole e,  come potete dedurre dalla presenza su questo spazio digitale, a me Araçá Azul ha garbato parecchio (e continua a garbare).  

Certo c’è sempre da tener conto dei suoi limiti e degli spunti positivi, uno fra tutti: la voglia da parte di Veloso di non adagiarsi sugli allori, mettendosi sempre in gioco con scelte musicali ai limiti e controtendenza. 

Quando si ascolta Araça Azul la sensazione pervadente è quella di trovarsi di fronte ad un sogno sconclusionato nel quale i freni inibitori saltano. O meglio, un sogno indotto da una sbornia, di quelli fastidiosi che ti provocano dolore a tempie e cervicale (come per la caciara che domina Sugar Cane Fields Forever, un tributo ai Beatles di Sgt. Pepper, per il nome scelto e per gli archi stile A Day In the Life). 

Un calderone di idee che travalica la diga del buon senso dando vita ad un incontrollabile flusso di coscienza nel quale si incontrano pensieri sciolti: come nel caso del brano De Conversa che si lega in maniera convincente a Cravo e Canela di Milton Nascimento (che i più attenti hanno già ascoltato in Clube da Esquina) ed in cui è possibile trovare ispirazioni più o meno velate; o per l’ennesimo tributo ai The Beatles di Revolution 9 e ai relativi esperimenti con il collage di nastro magnetico; non ultimo i giochi gutturali, gli studi della voce di Yma Sumac o di Cathy Berberian e la sua Stripsody (che anticipano di qualche anno i calembour vocali di Demetrio Stratos). 

Tutto questo bailamme sperimentale, che principio ed ispirazione trae dai poeti concretisti della scena paulista, viene prodotto in una sola settimana agli Eldorado Studio di San Paolo. Troviamo nuovamente Tuti Moreno alle percussioni e Moacyr Albuquerque al basso, per il resto il personale è ridotto all’osso (dobbiamo la chitarra cattiva di De Cara a Lanny Gordin). Ospite vocale d’eccezione è Dona Edith do Prato, conosciuta come Edith Oliveira, maestra del Samba de Roda che troviamo a inizio disco con Viola Meu Bem e poi nel sogno di Sugar Cane Fields Forever

Capire il dritto dal rovescio sarebbe complicato se non intervenisse lo stesso Caetano in nostro aiuto, raccontandoci nella title-track – relegata a fine disco – a cosa andiamo incontro, nel punto forse più alto dell’intero disco:  

Araçá azul é sonho-segredo  (Araça Azul è un sogno segreto) 
Não é segredo  (Non è un segreto) 
Araçá azul fica sendo (Araçá azul è qui) 
O nome mais belo do medo (Il più bel nome della paura) 
Com fé em Deus (Con fede in Dio) 
Eu não vou morrer tão cedo (Non voglio morire così presto) 
Araçá azul é brinquedo (Araçá azul è un giocattolo) 

Araça Azul fa presupporre che l’origine di questo disco sia mistica e contraddittoria; un sogno ad occhi aperti, uno scherzo che ci dobbiamo raccontare per rompere lo schema convenzionale della vita. Araçá Azul è un gioco, e come tale esiste, ma essendo tale si pone come eccezione in un mondo scorbutico, arido e privo di gioia come quello vissuto all’epoca da Caetano Veloso (e che viviamo tuttora). 

Caetano Veloso – Transa

Dopo Tropicalia: ou Panis et CircencisCaetano Veloso e Gilberto Gil, godono di una forte esposizione mediatica, i loro dischi di esordio sono sulla bocca di tutti, il manifesto tropicalista si è diffuso e ha fatto numerosi proseliti.  

Come sostenuto da Gilberto Gil in ricordo del periodo: non vi era piena coscienza dell’impatto di Tropicalia, quanto più che altro consapevolezza di un cambiamento nella propria musica; un’onda a trazione globale (guardando anche agli eventi negli Stati Uniti e in Europa). Naturalmente questa si riverbera sulla società.  

In fondo il cambiamento si pone sempre come un’urgenza di comunicare verso chi si trova in condizioni similari, e tropicalia si è dimostrato un centro di concepimento fertile. 

Accade però che nella prima metà del dicembre 1968, il governo in carica emana l’AI-5 – un atto istituzionale che conferisce poteri assoluti al Presidente della Repubblica – e di fatto sbaraglia ogni tipo di attività sovversiva o opposizione. Istituisce i tristemente noti squadroni della morte, e va a censurare ogni forma artistica (e che indurrà i vari Chico BuarqueMilton Nascimento e gli altri di cui abbiamo raccontato, ad ingegnarsi per aggirare ogni forma di veto per far vedere la luce alle proprie creature intellettuali).
Passano appena due settimane, quando un provocatorio Caetano (divenuto, assieme a Gilberto Gil, ospite fisso del programma televisivo dei tropicalisti Divino, Maravilhoso in onda su TV Tupi [Tupy or not Tupy… ndr]), si punta la rivoltella alla tempia mentre interpreta Boas Festas di Assis Valente.  

Dopo 3 giorni vengono entrambi arrestati guadagnandosi 2 mesi di prigione a cui seguono 4 di domiciliari per attività sovversiva e vilipendio del paese. Il programma non è che fosse stato preso in simpatia dalle sfere alte e l’ultima performance di Veloso è stato il classico eccesso che ha fatto vacillare la pazienza dei potenti. Il Governo invita caldamente i due dissidenti ad “auto-esiliarsi”; Veloso Gil colgono la palla al balzo per andarsene a Londra (con tappe poco degne di nota a Lisbona Parigi) non prima di aver organizzato un concerto di commiato – o meglio di raccolta fondi – per pagarsi il biglietto aereo. Nei due anni e mezzo spesi nella Big SmokeCaetano Veloso produce due dischi: un omonimo (tanto per cambiare) e Transa

Durante il periodo d’esilio, a Veloso viene concesso di tornare in Brasile per le celebrazioni del quarantesimo anniversario di matrimonio dei suoi genitori. Nella breve permanenza è sottoposto ad interrogatorio dal personale militare, che ne approfitta per richiedere la composizione di una canzone che elogi la nuova opera pubblica sulla bocca di tutti: l’autostrada Transamazônica.
Come lecito aspettarsi, Veloso si rifiuta, ma tornando a Londra registra Transa, disco che poi vedrà la luce nel 1972 proprio in Brasile, quando grazie all’intercessione pubblica di João Gilberto – che accetta di tornare in televisione dopo 10 anni di assenza a patto che partecipi anche il suo figlioccio artistico – Veloso tornerà in patria. 

Caetano constata che la situazione è più distesa rispetto a due anni prima, e decide di fermarsi nel suo paese per continuare la dissidenza in loco. Transa è un ulteriore schiaffo ad un regime che ha dimostrato a più riprese i propri limiti intellettivi. La richiesta da parte dei militari di registrare un album ufanista è stata rigettata, ma a questo affronto, Caetano Veloso, risponde con una provocazione: elidendo la parola Transamazônica nella più semplice Transa (che l’urban dictionary traduce in “scopare”).  

Alla luce di questo, Transa, va a collocarsi con vigore tra i picchi raggiunti da Veloso durante la sua infinita carriera [invito a leggere la valida considerazione a proposito sulla scarsa notorietà del disco in questo paese a scapito di album come Estrangeiro ndr], evito di dilungarmi in una tediosa analisi del disco, in quanto ahimé è stato scritto di tutto e di più a riguardo.  

Ho piacere però nel soffermarmi sul valore puro di Transa, di come risuoni decisa l’integrazione tra due mondi musicali, come dimostra nell’audace – per i canoni dell’allora pubblico – rilettura di Mora na Filosofia di Monsueto Meneze e Arnaldo Passos, nella citazione a The Long and Winding Road dei The Beatles (pallino non solo di tutto il mondo occidentale ma anche dei giovani tropicalisti), o nel reggae scoperto a Portobello Road e assimilato brillantemente in Nine Out Of Ten.  

Ma la bellezza di questo disco a mio avviso giace nella naturalezza dimostrata da Veloso nel disorientare l’ascoltatore passando dal brasiliano all’inglese, senza forzature e in armonia; una proprietà che ha mostrato più volte nel corso della sua lunga carriera (anche con lo spagnolo e l’italiano) così come hanno dimostrato di saper fare Gilberto Gil e Chico Buarque.    

Con questa spontaneità si svela al mondo con You Don’t Know Me, in apertura del disco, arricchita dai puntelli vocali di Gal Costa. Per le registrazioni di TransaVeloso si è affidato a Ralph Mace (ei fu produttore di The Man Who Sold The World) e ha chiamato a raccolta i propri sodali, oltre a Gal Costa partecipano anche: MacaléMoacyr AlbuquerqueTuti Moreno e Áureo de Sousa (entrambi alle percussioni). Con la volontà di registrare tutti i brani come se provenissero da uno spettacolo dal vivo, ricreando una situazione da band (la prima nella carriera di Veloso), che risultasse genuino.  

Transa è un grande valore aggiunto nella discografia di Caetano Veloso, un disco che evidenzia – se ce ne fosse stato bisogno – l’eclettismo di chi nei successivi 50 anni avrebbe continuato a distribuire perle di rara sensibilità artistica.

Gilberto Gil – Louvaçao

Non si può raccontare di tropicalismo senza portare in cascina almeno un disco di Gilberto Gil, e allora perché non scrivere del suo esordio discografico? Prima di tutto tengo a fare una precisazione su Gilberto Gil: ad inizio carriera sembrava molto più vecchio e cattivo rispetto ad oggi; sarà per quel pizzetto che già negli anni ‘60 appariva anacronistico, per gli occhi luciferini, o per altro, ma comunque dimostrava 40 anni quando ne aveva poco più di 20 anni. 

Gilberto Gil è un autentico monumento della cultura e della musica brasiliana, alfiere della rivoluzione sonora che ha investito il paese nel quale si è sempre contraddistinto per il grande spessore umano. Sin da bambino ha dimostrato di avere le idee chiare riguardo il suo futuro: “Quando avevo due anni e mezzo, ho detto a mia madre che sarei diventato un musicista o Presidente del mio paese” 

La congiunzione da disgiuntiva per poco non si è trasformata in semplice, difatti oltre ad aver intrapreso sin da piccolo il percorso musicale la via politica non è stata accantonata: da tropicalia alla dissidenza – col conseguente arresto e l’esilio nella terra d’Albione -, Gilberto ha continuato a mantenere una coscienza politica molto radicata, prendendo spesso posizioni distinte sull’apartheid e sul fronte antropologico (il documentario Gil Viramundo, prende proprio il titolo dal brano Viramundo contenuto in Louvaçao), arrivando a raggiungere la carica di Ministro della Cultura durante il primo governo Lula

Tornando alla sua carriera musicale, la madre è colei che crede fermamente nelle capacità di Gilberto, comprandogli anche una fisarmonica (sulle orme di Luiz Gonzaga), strumento che troviamo nella già citata Viramundo; apprende inoltre i rudimenti della batteria e della tromba. Sempre in giovane età incontra Dorival Caymmi – proveniente direttamente dalla epoca de ouro della musica brasiliana – che influenza il suo stile con il suo modo di intendere la samba. Ulteriori elementi che catalizza l’attenzione di Gilberto sono gli artisti di strada e i musicisti forró tipici della tradizione nordestina

In ultimo, con la ventata della bossa nova portata da João Gilberto e Tom Jobim, sceglie come strumento principale la chitarra, che lo accompagnerà per tutta la carriera artistica. 

Tutte queste influenze si uniscono in Louvaçao, un disco che a dispetto di quanto scritto riguardo tropicalia, non si nutre delle altre culture (tranne che nel testo della marziale Lunik 9 nel quale affronta un tema caro alla corrente tropicalista come l’esplorazione spaziale), bensì radica la propria esistenza nelle ricchissime fondamenta melodiche del Brasile, come dimostra Ensaio Geral, singolo che lancia il disco, risultando un abile compendio del forró, della samba, della bossa nova, del baião nordestino, senza tralasciare il tema religioso – che spicca in Procissão – che si inserisce tra i testi dallo spiccato accento sociale (come Roda o Água de Meninos che racconta dell’incendio divampato nelle banchine del porto, avvenuto durante l’omonima fiera molto comune nei piccoli centri abitati del nordest). 

Louvaçao vive anche del sodalizio tra Gilberto Gil e gli altri parceiros José Carlos Capinam e Torquato Neto, quest’ultimo co-autore di molti dei brani presenti in questo esordio e che abbiamo già visto in Vento de Maio, brano dell’omonimo disco di Nara Leão. Al disco partecipa anche Caetano Veloso, che lo stesso Gilberto ha conosciuto nel 1963 presso l’Università Federale di Bahia a cui son seguiti gli incontri con Tom ZéMaria Bethania e Gal Costa, coi quali saranno gettate le basi del tropicalismo (come abbiamo avuto modo di vedere in Tropicalia: ou Panis et Circencis). 

Caetano regala a Gil un prototipo di canzone, Beira-Mar, chiedendogli di completarla. Gilberto si è interrogato a lungo sulla bontà del testo già steso da Veloso, recalcitrante nel mettere mano a qualcosa che reputava già buono ha poi trovato le parole giuste per completarlo ed interpretarlo, incastrandosi naturalmente nella tracklist di questo disco d’esordio. Louvaçao, molto più di altri dischi presentati in questo ciclo, offre un ampio spettro delle sonorità brasiliane; un disco che ai primi ascolti può apparire sottotono, ma che acquisisce uno spessore di volta in volta che risuona.  

Sono sicuro troverete un posto nel vostro cuore per questi 41 minuti e 50 secondi. 

Novos Baianos – Acabou Chorare

Ci metto la mano sul fuoco: questo album e una delle cose più fiche che ascolterete in questo 2021 [naturalmente nel caso in cui non lo aveste mai ascoltato ndr]. I Novos Baianos spaccavano di brutto e sono sinceramente contento che sia arrivato il momento di ospitarli in questo cantuccio digitale. 

Forse per i neofiti è meglio fare una piccola introduzione su chi fossero i Novos Baianos ed il perché sia così gasato. Un gruppo che cominciava a presenziare a concerti e festival senza nemmeno avere un nome definitivo, non può che conquistare da principio le vostre simpatie. Nel 1969, durante la partecipazione al Festival della Musica Popolare Brasiliana [come spesso accade nei nostri racconti ndr] il coordinatore del festival urlò “fate salire questi nuovi baiani!”, da lì nasce ufficialmente l’epopea dei Novos Baianos, con il primo disco che vedrà la luce di lì a un anno e con l’arrivo poi nel 1972 di quello che sarà universalmente riconosciuto come il capolavoro della band di Salvador

Ogni volta che lo lascio risuonare, Acabou Chorare riesce a sorprendermi per la freschezza del suono e delle vocalità: di una potenza unica; divertente; dalle chitarre rampanti di Pepeu Gomes e dal ritmo che infervorerebbe anche i culetti più statici; pulito; con un’idea musicale dirompente. 

Insomma è un disco che ha quasi cinquant’anni ma ne dimostra molti meno, senza ausilio di lifting. Pensate, è stato insignito del titolo di miglior album della storia brasiliana da Rolling Stones Brasil lasciando un’impronta più che riconoscibile nella scena verdeoro e diventando un riferimento ingombrante per chiunque abbia deciso di misurarsi con un’idea musicale similare e trovando ancora oggi nipoti degni di portare avanti questo retaggio musicale (tra cui Céu Marisa Monte). 

Indagando nel dettaglio, è divertente scoprire come il disco raccontato debba pagare un grande pegno a João Gilberto, amico d’infanzia dell’autore dei testi dei Novos Baianos, ovvero Luiz Galvão. Insomma Galvão chiede a Gilberto di raggiungere i ragazzi – intenti a buttar giù pensieri sfusi riguardo il nuovo disco – rinchiusi in un appartamento di Rio Janeiro; il maestro della bossa nova accoglie con queste parole l’invito del suo amico: 

“Ho sempre sognato di avere un gruppo con cui convivere. L’ho sempre desiderato. Non ce l’ho mai fatta”. 

I membri della band giovano subito della presenza di Gilberto, nonostante inizialmente lo avessero confuso per un poliziotto in borghese per via del suo aspetto così distante dall’estetica hippyGilberto si erge subito a padrino – spinge le sonorità della loro musica verso lidi fino a quel momento nemmeno ponderati, mettendo ordine così al caos nel quale regnavano la moltitudine delle loro idee musicali: unire l’amore per Jimi Hendrix e Janis Joplin con il ritmo nordestino, la bossa e la samba

Il brano ad apertura del disco è Brasil Pandeiro [il pandeiro è il tamburello ndr], un samba composto da Assis Valente per Carmen Miranda (la ricorderete in Los Trés Caballeros), che lo ha rifiutato malamente sostenendo che facesse schifo. È stato proprio João Gilberto a suggerirlo, sfidando i baiani a svecchiare un brano nato apparentemente sotto una cattiva stella. I Novos Baianos lo interpretano a 3 voci – di Baby ConsueloMoraes Moreira e Paulinho Boca de Cantor – come se fosse una preghiera, che progressivamente grazie all’aggiunta della chitarra acustica di Moreira, i contrappunti innervati da Pepeu Gomes ed il cavaquinho di Jorginho Gomes, si trasforma in una festa nella quale le percussioni brasiliane confluiscono nel suono riconoscibile e unico di Acabou Chorare

La scelta del titolo dell’album è un tributo a João Gilberto da parte dei baiani: la title-track viene costruita sullo stile del maestro João Gilberto, con il quale condividono anche la ferma volontà di voler dire basta alla tristezza con quel “basta piangere” (acabou chorare) parafrasando lo “chega de saudade” che ha inaugurato l’era della bossa nova. Ma la scelta di questo titolo si pone anche come un invito a smettere i panni della tristezza tramite la quale la musica popolare brasiliana ha costruito un impero degno di quello di Gino Paoli [gli Elii docet ndr] per farsi portatori di allegria e spensieratezza.
In quest’ottica brani come Preta Pretinha (che racconta come Moreira è stato pisciato da una squinzia quando era convinto di averla conquistata), A Meninha DançaBesta é Tu e Tinindo Trincando sono un inno alla vita e alla spensieratezza. 

Per intenderci, l’avvento di una scelta musicale così allegrotta e spregiudicata, fatta di chitarre elettriche aggressive, è idiosincratica allo zoccolo duro dei fan di un Chico Buarque… insomma è inviso a chi percepisce la musica unicamente per le tematiche. 

Moreira, che purtroppo ci ha lasciato redentemente, ricorda così la nascita di Acabou Chorare e di come la visione di João Gilberto fosse stata piano piano assimilata anche dai Novos Baianos

“In un’epoca in cui il Brasile era triste, grigio, apparivamo nella più grande gioia cantando canzoni come: Besta é Tu [La bestia sei tu ndr]. Nessuno lo capiva molto. E João ci disse: ‘guarda come è bello il Brasile’. Nessuno stava vedendo quel Brasile. Solo Lui. Abbiamo così cominciato ad accogliere questo Brasile.” 

Spero di non essermi dilungato troppo, ce ne sarebbero di altre cose da dire, ma non voglio privarvi di altro tempo, fiondatevi su questo disco e ascoltatelo fino allo sfinimento, e appena avrete finito di ascoltarlo comincerete da capo, così ad libitum. Ne sono convinto. 

Os Mutantes – Os Mutantes

Con gli Os Mutantes immagino abbiate già preso confidenza; ma per darvi ulteriore dimensione del loro spessore (se ne aveste bisogno e non vi fidaste delle parole da me già spese), hanno goduto della stima di David Byrne e Kurt Cobain, e trovo che si siano dimostrati l’ingranaggio essenziale del tropicalismo.  

Gli Os Mutantes probabilmente hanno incarnato nel migliore dei modi i valori del movimento, dimostrando di saper coniugare la forte influenza di Sgt. Pepper’s e la psichedelia dei Pink Floyd barrettiani all’interno della musica brasiliana, cannibalizzando i suoni che, metabolizzati, hanno creato un’identità rispettosa dei paradigmi suggeriti dal Manifesto Antropofago di Oswald de Andrade

Con l’ascolto di Tropicalia: ou Panis et Circencis vi siete sicuramente spoilerati gran parte delle canzoni presenti in questo disco d’esordio, ma l’ascolto col sound psichedelico e la voce di Rita Lee ed i fratelli Dias propone una chiave di lettura di differente intensità rispetto a quanto offerto nel lavoro collettivo di Tropicalia (che cronologicamente trova pubblicazione un mese dopo l’esordio discografico degli Os Mutantes).  

L’ascesa degli Os Mutantes è rapida e il merito è imputabile al compositore Rogério Duprat reo di aver messo in contatto il gruppo con Gilberto Gil, col quale hanno partecipato al Festival della Canzone. Questo primo evento si rivela un domino che fa svenire le tessere una dopo l’altra, in un annodare continuo di relazioni e collaborazioni con altri interpreti della scena e culminante con la registrazione del manifesto tropicalista

Os Mutantes conta su molti brani prestati da altri autori piuttosto che composizione autonome, difatti: Gil Veloso offrono il candomblé di Bat Macumba e il carosello onirico di Panis et Circencis, che stando alle parole di Rita Lee fu scritta in appena 15 minuti; lo stesso Caetano regala l’iconica  Baby, che catapulta l’ascoltatore in una lanchonete paulista nel pieno clima Iê-Iê-Iê; da Jorge Ben JorRita Lee si fa regalare il samba di A Minha Menina e riesce ad ottenere la presenza di Jorge alla chitarra; dai Mamas and Papas prendono in prestito Once Was a Time I Thought adattando la versione scritta da John Phillips in Tempo no Tempo (cucendogli un arrangiamento in pieno stile antropofago), stessa sorte tocca a Le Premier Bonheur du Jour (reinterpretata in versione mistico-gregoriana in stile Vashti Bunyan), che forse avrete sentito nell’interpretazione di Françoise Hardy; in ultimo Adeus Maria Fulô composta dal divino Sivuca (che avremo modo di conoscere nei prossimi racconti) con Humberto Texeira ed edita nel 1951, scelta da Rita Lee per dare un tocco di brasilianità al suono del gruppo. 

Quindi dopo questo paragrafo infinito, nel quale è stato difficile anche prendere il fiato, avrete avuto modo di constatare ulteriormente quanto gli Os Mutantes abbiano lavorato – più che proporre brani di proprio pugno – nel rendere inediti brani già editi, fornendo un’impronta sonora unica, riconoscibile, lavorando sulla modernizzazione richiesta da Oswald de Andrade. In quest’ottica rientra anche la scelta della copertina, nel quale gli Os Mutantes sono ritratti da Olivier Perroy in abiti fuori contesto (un poncho indiano, un mantello di velluto nero e un kimono), ma che comunque contribuiscono all’identità che i membri del gruppo hanno forgiato.  

Os Mutantis è un disco seminale, piacevole, scorrevole e – per il periodo in cui ha visto la luce – di rottura; ha scosso violentemente il panorama musicale brasiliano e ancora oggi viene vissuto come un lavoro di culto da molti ascoltatori internazionali, a dimostrazione di quanto il pensiero di Oswald de Andrade fosse condivisibile a più livelli e non solo entro le mura domestiche verdeoro.