Brian Eno – Another Green World

Brian Eno - Another Green World

Capita a tutti di improvvisare, di arrivare ad un appuntamento completamente impreparati. Qualche volta (poche volte a dire la verità) fila tutto liscio, altre vieni sgamato in maniera miserabile.  

E dato che prevenire è meglio che curare, Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno ha l’idea giusta per affrontare il problema “mi circondo di musicisti coi controcazzi”. 

Non serve altro, ascoltatevi l’assolo di Robertino Fripp in St. Elmo’s Fire (nell’unico intervento che fa in questo disco), è l’immensità. Poi consideriamoci anche il contributo più consistente del buon Filippo Colline e Giovanni Cala (al secolo Phil Collins e John Cale con il quale ha anche collaborato nel concerto con Kevin Ayers e Nico [registrato in un disco dal fantasioso nome June 1, 1974 data dell’evento ndr]). 

Dopo tutte queste parentesi su parentesi, chiudiamo l’articolo qui? Che ne dite? 

Comunque, come avrete già notato da tempo, anche io ad inizio articolo improvviso quasi sempre: la “carta” bianca mi spaventa, ma appena vedo un paio di righe sommarsi in modo sconnesso – come i tetramini nel tetris – mi infervoro e mi appassiono. Direi quindi che ora posso smettere di scrivere cazzatelle e concentrarmi sul tema odierno. 

Torniamo su quanto scritto inizialmente, riguardo il concetto di improvvisazione. Brian Eno in principio paga per questa scelta, diversi sono i giorni passati a lillarsi in studio senza combinare nulla, non proprio la scelta più saggia pensando al costo d’affitto giornaliero pari a 420 sterline.  

Preso male dalla situazione – come un ragazzino delle medie in gita scolastica – tira fuori il mazzo delle strategie oblique, come fossero le carte UNO, e risolve tutto. Ora chiunque di voi conosca un po’ pillole ed il ciclo relativo alla Trilogia Berlinese, ascoltando Another Green World si imbatterà in una serie di idee musicali che Bowie mutuerà per Low, non sorprendetevi (l’attacco di Sky Saw vi apre un mondo in tal senso), fa tutto parte di un grande puzzle meraviglioso che disco dopo disco comincia a comporsi in questo spazio digitale. 

“Ogni giorno prendevo uno strumento diverso. Un giorno era un violoncello, un altro una marimba, un trombone… qualsiasi cosa. Non sapevo suonarne nessuno […]”, naturalmente tutto veniva registrato e qualche volta le idee che ne uscivano consentivano di cominciare lo sviluppo di nuove composizioni “non verticali” ovvero non canoniche o narrative, ma assimilabili alla kosmische musik e al minimalismo.  

In un processo di addizione perpetua (sovraincisioni ed idee confuse), vengono cavate fuori una trentina di idee. Successivamente, vengono ridotte a 14 ceppi musicali da sviluppare in canzoni, su di questi avviene un lavoro di sottrazione volto ad eliminare l’inutile (simile al concetto giapponese di muda).  

È qui che la creatività di Eno prende il sopravvento compensando i limiti tecnici; chi di voi ha il disco originale, avrà notato la presenza di strumenti mai sentiti nominare come la desert guitardigital guitar e snake guitar 

In un’intervista – rilasciata alla pover’anima di Lester Bangs – Eno spiega tutto “tutte queste parole sono le descrizioni di come dovrebbero essere suonati gli strumenti, o il suono al quale vorrei somigliassero; ad esempio la snake guitar volevo che mi facesse pensare alle movenze di un serpente […] energico e veloce. La digital guitar è una chitarra con un delay digitale ma ha generato molto feedback su sé stessa fornendo un suono che sembra fuoriuscito da un tubo di cartone. La Wimhurst guitar in St. Elmo’s Fire, deriva da un’idea che ho condiviso a Fripp ‘Conosci la macchina di Wimhurst?’, praticamente è un dispositivo che genera dei voltaggi estremamente elevati tra due poli, ed ha una forma erratica, perciò gli ho detto ‘Immagina una linea di chitarra che si muova velocissimamente e imprevedibilmente’, e Frippone ha suonato un solo che per me è veramente molto Wimhurst [anche il titolo della canzone, il fuoco di Sant’Elmo, fa riferimento ad un fenomeno che crea una sorta di plasma… la smetto di addentrarmi in cose che non so, approfondite voi, non scambiatemi per Alberto Angela o Neil Degrasse Tyson ndr]”. 

Quando la struttura musicale assume un senso, Eno comincia a mugolarvi sopra le linee vocali, per assonanza poi butta giù i testi delle canzoni, ed è così che si viene a creare Another Green World, titolo che prova a descrivere i panorami – tanto inquietanti quanto verdeggianti – immaginati da Eno ascoltando le canzoni che compongono il disco.  

Come notate sto cercando di togliermi dalle balle il vezzo di commentare brano per brano, vorrei perciò che sognaste ascoltando il disco, il dettaglio avrete modo di carpirlo all’ennesimo ascolto che sicuramente affronterete.  

Godete del lavoro di Eno Rhett Davis, senza preconcetti, senza paura.  

Matching Mole – Matching Mole

Matching Mole - Matching Mole

“Hey sì, pronto? Parlo con il signor Ellidge? Salve, come sta? È la CBS che parla. Sa, abbiamo saputo che ha mollato i Soft Machine, è un vero peccato. Ma indubbiamente lei merita di avere carta bianca ragazzo, è veramente un bel soggetto e crediamo che debba formare un nuovo gruppo con il quale registrare un album. Che ne dice? Ah… dimenticavo, ovviamente niente cloni di The End of An Ear.”

E così venne il giorno in cui Robert lasciò i Soft Machine, dopo un periodo più che depressivo (triste costante per Wyatt), non tardò molto prima che venne la CBS in suo soccorso, così con Dave Sinclair (ex Caravan e musicista in The End Of An Ear), il vicino di casa Bill MacCormick e Phil Miller (ex collega di Lol Coxhill), vengono a formarsi i Matching Mole.

Lo spirito di Edward Lear scorre forte in Robert, che per il nome della band si ricorda di uno dei primi tour con i Soft Machine avvenuto in Francia, dove – in pieno spirito nazionalista francese – vengono presentati come Machine Molle. L’assonanza con Matching Mole è voluta ed appare come un modo per salutare raffinatamente – non senza rancore – i colleghi che lo hanno esautorato, tant’è che rafforza il concetto con l’immagine di copertina, con due talpe che si trovano una di fronte all’altra, tra la sorpresa ed il rincoglionimento [matching mole tradotto vorrebbe dire talpe accoppiate ndr].

Quando poi si parte con O’Caroline e Signed Curtain, si percepisce proprio il bisogno di una boccata d’ossigeno per Wyatt. La voglia di divagare e scherzare con due canzoni dalla struttura apparentemente semplice appare palese: la prima è una canzone d’amore melensa dedicata a Caroline Coon (nominata nell’articolo su The End of An Ear e con la quale Robert ha avuto un intrallazzo), la peculiarità di questo brano è l’inizio nel quale Wyatt in fase di scrittura descrive la situazione che si configurerà in fase di esecuzione del brano “David’s on piano and I may play on a drum“; nella seconda questa idea si incanala verso il non-sense, pronta ad abbattere la quarta parete in una comunicazione continua con l’ascoltatore, al quale viene descritto ogni singolo passaggio della canzone.

Questo non significa che le composizioni sopra citate fossero qualitativamente poco valide, anzi… come detto sembra quasi uno scherzo architettato sapientemente da Wyatt, perché entrambe le canzoni non terminano ma proseguono in altre idee piuttosto articolare come Instant Pussy e Part of the Dance. Per un ascoltatore poco attento apparirebbe che il batterista uscente dei Soft Machine – proveniente da Third e da The End of An Ear – abbia quasi le idee siano confuse.

Invece no, Wyatt seppur istintivo, ha di fondo un’identità musicale estremamente definita, talvolta il focus potrebbe essere nebuloso ma inconsciamente sa già dov’è il traguardo da raggiungere. I Matching Mole quindi garantiscono a Wyatt di assecondare il proprio estro, un’evasione dalla razionalità imposta dal dittatoriale Ratledge.

E quindi non a caso troviamo Instant Pussy ed Instant Kitten ad inebriare le orecchie più raffinate ed esigenti, alla ricerca di altri esempi del “Wyatt strambo”, oppure l’ammiccamento a Canaxis 5 in Immediate Curtain, un brano a mio avviso meraviglioso e quasi prodromico in un certo senso di Rock Bottom per le atmosfere compresse e fosche.

Matching Mole è il progetto che lascia intravedere altro potenziale di Wyatt, per chi non lo conoscesse questo è un disco da ascoltare ed apprezzare perché contiene tante intuizioni e perle che troverete nel proseguo di carriera del dio-batteria.

Robert Wyatt – The End Of An Ear

Robert Wyatt - The End Of An Ear

La fine di un orecchio, il gioco di parole è sottile ma semplice da cogliere per chi ha una conoscenza seppur minima dell’inglese. Sinceramente non pensavo che mi sarei trovato a parlare di questo disco – per il quale Wyatt si è profondamente ispirato a Scatman John (ve ne accorgerete ascoltando con perizia Las Vegas Tango Pt.1) – ma i tempi cambiano e si rivelano maturi per spendere due parole su Pillole.

Wyatt è un maestro capace di galleggiare nella sottile linea tra significato e significante alla Edward Lear (campione del limerick), mostrando uno spiccata volontà di fornire varie chiavi di lettura a chi ascolta e interpreta, “C’è la parola ‘play’, che può avere differenti significati. Io cerco di metterli tutti insieme. Giocare come giocano i bambini, quasi l’opposto di lavorare, o suonare gli strumenti come i musicisti [non ho avuto modo di rendere l’idea delle parole di Wyatt per via della polivalenza della parola play, nell’intervista dice Play as in children playing, almost the opposite of working, and then musicians play instruments. Ndr]. Per me, suonare o giocare coincidono, così come tutti differenti significati della parola ‘play’ coincidono quando lavoro, suono o come diavolo vuoi chiamare ciò che faccio”.

Come per Third, The End Of An Ear è un’opera indefinibile, profondamente ispirata al free jazz di Davis, con Bitches Brew (vera e propria epifania per Wyatt) capace di imporsi come disco seminale per la deriva della cricca di Canterbury (e non solo). Gli ascoltatori più attenti noteranno nei vocalizzi e nelle strutture compositive delle similitudini con Moon In June. La risposta è: EEEEEEEEEEESATTA! (se non ci avevate pensato non vi siete applicati e vi consiglio di studiare nuovamente da capo i vecchi articoli).

Tant’è che questo disco viene proposto a Wyatt dalla CBS – etichetta detentrice dei diritti sui Soft Machine – per cercare di replicare il successo di Moon In June, unico brano cantato in Third dalle venature più pop rispetto al contenuto presente nel disco. Già, non vi suscita una risata pensare che la CBS considerasse Moon In June un brano pop (dalla durata di ben 19 minuti)?

Vabè, Wyatt accetta di buon grado, la CBS tronfia dell’accordo in tasca non immagina con chi ha a che fare e trova un Robertino frustrato da morire per esser stato relegato a ruolo di comparsa nei Soft Machine. Stanco della routine nelle Macchine Soffici, da sfogo a tutta la propria creatività repressa, senza però venir meno ai patti con la CBS, lo stile adottato nel brano di apertura del disco Las Vegas Tango Pt.1 prevede un ampio uso del multi-tracking alla Moon In June… peccato non ci sia una parola sensata in tutto il disco, solo un miscuglio di suoni gutturali.

Dice il buon Wyatt di aver tratto molta ispirazione dai dipinti di Chagall e Picasso, nel tentativo di rappresentare musicalmente le pennellate ed i colori dei due artisti, così prende forma un disco senza punti deboli. Gli riesce anche di fare un saluto a tutta la cricca canterburina e non, ogni canzone viene intitolata ad una persona o ad una band vicino a Wyatt:

  • To Mark Everywhere, dove Mark Ellidge è il fratellastro che suona il piano nella canzone;
  • To Saintly Bridget, a Bridget St. John;
  • To Oz Alien Daevyd and Gilly, a Daevid Allen dei Gong e alla sua Gilli, noché co-fondatore dei Soft Machine;
  • To Nick Everyone, al compagno nei Soft Machine Nick Evans;
  • To Caravan and Brother Jim, beh i Caravan sono i Caravan, mentre Jim è Jimmy Hastings, turnista più che conosciuto della scena canterburina;
  • To The Old World, dedicata a Kevin Ayers e alla sua band tra i quali figurano i nostri amici Bedford, Coxhill, Oldfield (lo avreste potuto desumere dall’uso del kazoo – quasi a voler scimmiottare la sezione dei fiati della band – se foste stati preparati);
  • To Carla, Marsha and Caroline, per Carla Bley (amica e jazzista di caratura enorme per chi non la conoscesse), Marsha Hunt ex moglie di Ratledge alla quale il buon Jagger dedicò Brown Sugar e con la quale ebbe una figlia rinnegata per tempo dal viscidone (momento gossip paxxissimo!1!1!!), e Caroline Coon che ha ispirato O’Caroline dei Matching Mole (che andremo poi ad approfondire nell’articolo dedicato alle talpe). Ciò che unisca queste tre figure è un mistero.

Las Vegas Tango è l’unico brano che non nasce dalla farina del sacco di Wyatt, bensì è un tributo a Gil Evan, che poi viene ripensato in maniera brillante da Robertino.

Con The End of An Ear non solo Wyatt vuole tracciare un solco con il passato e con i Soft Machine – band formata e dal quale è stato estromesso – ma vuole incuriosire guidando ad un ascolto differente, avvicinando ad un’idea differente di musica. Ecco che in questo l’ispirazione dettata da Chagall e Picasso assume consistenza e senso, perché entrambi a modo loro hanno contribuito ad ampliare il concetto di bellezza, uscendo dal seminato, da standard precostituiti.

Così Wyatt ha creato un nuovo luogo di ascolto, la fine di un orecchio, ma anche la fine di un’era. Wyatt ci ha aperto gli occhi, o meglio, ci ha stappato le orecchie.

Gong – Flying Teapot

Gong - Flying Teapot

Have a cup of tea, have another one, have a cup of tea.
High in the sky, what do you see?
Come down to Earth, a cup of tea
Flying saucer, flying teacup
From outer space, flying teapot

La “teiera volante” è in viaggio nello spazio, ricolma di gnometti provenienti dal pianeta Gong e pronti ad offrire una tazza di te a chiunque la desideri.

Al primo ascolto – se dei Gong siete digiuni – esclamerete un sincero quanto perplesso “ma che cazz…???”

A dire il vero, credo sia una reazione più che comprensibile, quando ti trovi dinanzi un puttanaio di idee. Idee distanti numerosi parsec l’una dall’altra e tenute assieme da massicce dosi di LSD e grazie alle evoluzioni musicali di Malherbe, Blake e Hilllage capaci di fondere scale arabe, musica cosmica e jazz.

Flying Teapot è un titolo che lascia presupporre una grande fertilità creativa – qualità di cui Daevid Allen sicuramente non peccava – e mette in mostra tutto l’estro fantasioso dei Gong, nel primo capitolo della trilogia Radio Gnome Invisible pensata con Giorgio Gomelsky (Invisible da pronunciare rigorosamente in francese). Flying Teapot (album per il quale Allen ha anche illustrato la cover ed ispirato alla teoria della teiera di Russell) è la sublimazione di un’idea musicale che vede mischiare psichedelia della west coast e scena canterburina, in una propria visione cosmologica (conosciuta come Mitologia dei Gong [approfondirei ma ci sarebbe da scriverne un trattato ndr]) che va oltre il fantasy e nella quale i principali attori sono gnomi spaziali (pot head pixies), streghe (Yoni), eroi (Zero) ed il consumo cospicuo di te (corretto talvolta con droghe magiche)… insomma tutti gli attori previsti da Propp nella morfologia della fiaba.

Di Allen ho già parlato nell’articolo dedicato al primo album dei Soft Machine, penso che abbiate avuto modo di capire che tipo fosse, un uomo formatosi con le esperienze, i viaggi e le persone incontrate, come quando a Parigi ha avuto modo di incontrare Burroughs o di lanciare un progetto di poco successo con Terry Riley [possiamo anche immaginare il motivo ndr].

Parigi può essere sintetizzata però come la fine dei Soft Machine e l’inizio dei Gong, reso possibile dall’incontro con Gilli Smyth; Daevid quindi vede e rilancia le sue fiches in un progetto diverso – ma non per questo meno affascinante – da quello dei Soft Machine (probabilmente se Allen fosse stato ancora nei Soft, non ci sarebbe stato l’effetto domino che ha spinto Ayers verso altri lidi, con conseguente mutazione dei Soft Machine nel sound e nell’animo che ha condotto all’estromissione di Robert Wyatt).

Sono certo che ascoltando Flying Teapot canticchierete – per tutto il giorno- sovrappensiero ed in allegria il jingle “Banana, nirvana, mañana“, un predecessore di Hakuna Matata, con quella psichedelia in più che lo rende maggiormente efficace del ritornello di Timon e Pumbaa.

E se mai doveste sentirvi dispersi, impauriti e non riusciste a trovare una persona in sintonia con le vostre idee ricordate

“Radio Gnome è una frequenza segreta con la quale le persone affini riescono a sintonizzarsi immediatamente con le idee degli altri”
Parola di Daevid e dei pot head pixies a bordo della loro flying teapot.

Henry Cow – Unrest

Henry Cow - Unrest

Gli Enrico Mucca sono stati un gruppo strafico, anch’esso proveniente da quel buco di culo di Canterbury. In futuro mi auguro di avere tempo per poter impostare delle ricerche socio-musicali al fine di comprendere come sia possibile che da una cittadina si venga a formare una catena virtuosa dove ogni anello è capace di alimentare quello che lo precede (non parlo solo di Canterbury, ma anche delle altre località che hanno dato vita a movimenti socio-culturali di impatto mondiale).

Va beeene, torniamo agli Enrico Mucca! Per chi non ne avesse sentito parlare, sono anche conosciuti come la band del calzino (merito dei pedalini illustrati da Ray Smith presenti in alcuni dei dischi prodotti dagli Enrico). Grandissima gruppo composto da fior fiore (non Coop) di musicisti, in grado di tirare fuori un secondo disco capolavoro, un misto tra lo Zappa orchestrale/jazz ed i Soft Machine di Third (e perché no il Lol Coxhill di Ear Of The Beholder). È il 1974, e questo disco sembra la sublimazione di un’idea musicale trasversale, dove regna sovrana l’improvvisazione di Frith alla chitarra.

La tecnica di Frith è discendente diretta degli ascolti propostigli da Tim Hodgkinson – felice di introdurlo al free jazz di Charles Mingus e Ornette Coleman – e dalla matematica, come dimostra l’applicazione del codice Fibonacci nella creazione delle armonie e del tempo in Ruins (seguendo l’esempio di Bela Bartok e dimostrando un notevole bagaglio di formazione musicale).

C’è un passaggio bellissimo nella biografia che Scaruffi dedica agli Henry Cow nel quale immortala – con una stilettata delle sue – la band “La coerenza morale e artistica si paga però in termini di insuccesso economico”, ecco potrei chiudere qui l’articolo…. e invece no.

Cerchiamo di andare un po’ più a fondo (nel tentativo di invogliarvi ad ascoltare questo capolavoro) e capire il perché voglio raccontarvi di questo disco. Prima di tutto Unrest vede la collaborazione di Mike Oldfield in veste di tecnico del suono, in secondo luogo il disco è dedicato a Uli Trepte (ex Guru GuruNeu! e Faust, insomma un peones) e a Robertino Wyatt – da poco incidentato – amico di Frith (che a sua volta ha collaborato a Rock Bottom).

Ok, ho la vostra attenzione?

In Linguaphonie i più attenti scorgeranno un tributo alle idee di Wyatt, i versi infantili, a tratti gutturali, sono sovrapposti e circondati da suoni buffi che affiorano su di una base angosciante, per rendervi l’idea si avvicina molto all’outro di Bike. La gran figata di Unrest è nel lavoro al mixer, tra loop, sovraincisioni e manipolazioni continue di suoni in un puzzle musicale di enorme complessità:

“La lavorazione di Unrest è stata un’esperienza splendida e radicale, nella quale molte situazioni personali hanno avuto un peso specifico consistente nell’insieme, almeno per me. […] Il lavoro in studio ci ha dato la possibilità di produrre dei risultati straordinari come in Deluge, che suona ancora fresca per me.” ricorda Fred Frith, in una recente intervista, e dimostra quanto Unrest fosse un disco soddisfacente in fase di realizzazione, oltre che nel risultato finale.

Spero che questo sia il primo passo verso la riscoperta di una band dalle molte idee che – come tante – poco ha raccolto, rispetto a quanto seminato.

Lol Coxhill – Ear Of Beholder

Lol Coxhill - Ear Of The Beholder

Lo ammetto, con questo disco metto a prova la vostra pazienza.

Se doveste approcciarvi a Ear Of The Beholder ascoltando Hungerford (ovvero la prima traccia che segue l’introduzione) è probabile che io possa ricevere dei vaffanculo tonanti da parte vostra; non esagero. Potreste avere la sensazione di ascoltare un John Zorn pesantemente sotto eroina e buttereste via il disco non appena possibile (mi piace immaginare che qualcuno di voi ancora compri la musica in supporti fisici).

Ok, ok, ok, proseguendo con Deviation Dance la situazione potrebbe non cambiare, andiamo sicuramente su qualcosa di più orecchiabile ma sento la necessità di chiedervi di assettarvi 5 minuti per leggere queste due righe, in modo tale che voi siate preparati ad affrontare questo capolavoro con il quale Lol Coxhill ha esordito come solista.

La domanda che sorge spontanea ai più è “ma chi è Lol Coxhill“?

Ne ho già parlato tempo addietro, ricordate i The Whole World? La band in accompagnamento a Kevin Ayers? In poche parole, è stata una figura di spicco della scena di Canterbury, una sorta di chioccia – data la differenza di età – per i tanti gruppi che sono fioriti in quella città. Il background free jazz è marcato nelle sue composizioni, l’improvvisazione è un obbligo morale che segue senza tregua e segna le sue esibizioni dal vivo, così come il fascino subito da figure come XenakisVarese Stockhausen [offtopic: avete notato come tornano regolarmente a trovarci questi signori? Rispondono presente a quasi tutti i cicli di pubblicazione di Pillole. Diciamo che tutti questi ascolti sono propedeutici per arrivare da loro e John Cage. Vedremo quanto è tortuosa la strada per arrivarci. /offtopic ndr], o da altre band all’epoca contemporanee, come potrete desumere dalla strepitosa cover di I Am The Walrus.

Tutto ciò in favore di una contaminazione di stili e di generi volta ad abbattere il concetto di “genere musicale”, la musica è liquida, attraversa varie fasi e sfaccettature, ingabbiarla all’interno di un genere è “ingeneroso” [perdonate il gioco di parole]. Famoso purtroppo solo nella terra d’Albione e nei Paesi Bassi, non è riuscito ad avere il giusto riconoscimento nel resto del vecchio continente, lasciando comunque ai posteri tante cosette da apprezzare, tra le quali Ear Of Beholder.

Un disco caratterizzato da registrazioni fatte qua e là, in alcuni casi per strada durante le attività da busker di Coxhill per le quali si scuserà con l’ascoltatore per la qualità (un aspetto in comune con Moondog; Lol divenne artista di strada quando lasciò il lavoro di rilegatore di libri), alle registrazioni di alcuni brani prendono parte anche il caro Mike OldfieldKirwin Dear e Robert of Dulwich, altri non sono che gli pseudonimi di Kevin Ayers e Robert Wyatt. Ma in particolare spiccano le collaborazioni con David Bedford – anch’egli ex Whole World – con le quali registra delle versioni di Two Little Pidgeons e Don Alfonso (ri-edita da Oldfield qualche anno dopo).

Tutto questo pippone per dirvi di non lasciarvi spaventare dalle composizioni all’apparenza inaccessibili, date una chance di ascolto a quest’album, magari partendo da qualche brano più semplice, giusto per prendere confidenza con Lol e capire che straccia di musicista era.

Penguin Café Orchestra – Music From The Penguin Cafè

Penguin Cafe Orchestra - Music From The Penguin Cafe

Tutto ha inizio da un sogno, o sarebbe più appropriato dire da un incubo a seguito di un’intossicazione alimentare.  

È il 1972Simon Jeffes si contorce nel letto di un hotel in Francia in preda ai deliri da avvelenamento: “ho avuto un incubo, mi trovavo in un hotel moderno, c’era un occhio elettronico che fissava e scansionava qualsiasi cosa. In una stanza c’era una coppia che scopicchiava ma senza amarsi. In un’altra stanza c’era un musicista che indossa delle cuffie senza ascoltare musica. Nell’altra stanza c’erano persone che interagivano con degli schermi. È stato terribile, un posto squallido”. 

Voi direte ma che minchia c’entra tutto questo con i Penguin 

Questo – perlomeno – il pensiero che mi è saettato nel cervello. Considerando la pigrizia delle mie sinapsi, mi sono lanciato in voli pindarici immaginando che il sogno prevedesse la partecipazione di alcuni pinguini intenti a sorseggiare tè e mangiare biscottini in un giardino inglese. No! Mi sbagliavo! 

La Penguin Cafè Orchestra è la soluzione sulla quale Jeffes ha puntato per debellare l’inedia ed il torpore delle persone che mano a mano ha incontrato nel sogno. È un baluardo a difesa della passione e degli interessi, è la panacea per il corpo e lo spirito di chi la ascolta. Ora cercate di applicare il sogno di Jeffes ai giorni nostri, è deprecabile dirlo ma forse è meglio che non abbia avuto modo di vedere personalmente come tutto quello che ha sognato – in un delirio – si sia poi rivelato tremendamente reale a distanza di quarant’anni.  

La gente è monitorata 24 ore su 24, la pornografia massiva ha abbrutito le relazioni di coppia ed i mass media (così come i social network) hanno lobotomizzato le menti più deboli. Purtroppo i Penguin non possono essere considerati la cura di questi mali [so che è un discorso razzista ma la maggiorparte della ggente non li conosce, e comunque se li conoscesse non li apprezzerebbe ndr], nei quali veniamo intrappolati a giro tutti quanti. Ma di sicuro con la loro musica sono in grado di creare una zona franca che annulla ogni sortilegio moderno.  

Un’oasi di benessere, una SPA depurativa contro il logorio della vita moderna… perché è inutile negarlo, una volta partiti il violoncello e la viola in Penguin Cafe Single non si può fare altro che ascoltare e concentrarsi sulla bellezza della musica. 

Music From The Penguin Cafè oltre a rappresentare l’esordio dell’ensemble un po’ stramba, resta un’eccezione discografica, difatti in Zopf: In A Sydney MotelZopf: Coronation possiamo apprezzare prima le doti canore di Simon Jeffes e poi di Emily Young nelle uniche composizioni – nell’intera discografia dei Penguin – a prevedere la voce.  Emily è l’autrice della copertina nonché compagna di Simon Jeffes e madre di Arthur Jeffes (per intenderci colui che sta portando avanti i Penguin dopo la prematura scomparsa di Simon). Inoltre voci del settore suppongono possa essere stata la musa ispiratrice di Syd Barrett per See Emily Play, ma prendetela molto con le pinze quest’informazione. 

Se dovessi trovare l’aggettivo più appropriato per descrivere questo disco, direi: poetico e disorientante. Una miscela di musica contemporanea e barocca, ben espressa dal piano elettrico di Steve Nye a simulare il clavicembalo che gioca meravigliosamente con la chitarra di Jeffes, e gli archi di Liebmann e Wright a dare corpo alle composizioni. In un disco che trova il proprio compimento dopo 3 anni, sotto l’egida di un interessatissimo Brian Eno in veste di produttore esecutivo. 

Jethro Tull – Aqualung

Jethro Tull - Aqualung

GNI GNI GNI GNI GNI (riff introduttivo di Aqualung)

Non vi metto a conoscenza di quello che credevo comunicasse Aqualung (assolutamente censurabile). Prima che capissi il senso della canzone e delle parole che Anderson ha cantato, ne è passata di aqualung sotto i ponti.

Comunque, Aqualung, non è solo una canzone, non è solo un disco. È un concetto musicale nitido che Ian Anderson in tutta la sua bruttezza è riuscito a riversare su nastro. Una struttura fortemente dal flauto di Iano che ci catapulta in epoche distanti. Ma in generale, cos’è Aqualung?

“Il titolo è un nome irrilevante tanto quanto Jethro Tull. Non credo che i nomi abbiano un grande significato. Aqualung è un titolo che fa da collegamento mentale […] e questo è veramente quello che è. È la tappa a metà tra il pensiero e la parte reale che il pensiero in sé rappresenta… ”, della serie “il nome è tutto e niente” queste sono le parole di Ian Anderson a proposito di Aqualung, parole degne di un tossico che cerca di essere filosofo senza esserlo. Fatto sta che stiamo parlando di un signor album, tanto riconoscibile quanto unico.

Ora, storia vuole che – secondo la maggioranza dei fan – il disco sia un concept album, cosa che Iano ha smentito a più riprese. Perché smentire colui che ha scritto tutte le canzoni di un disco? Fans rassegnatevi all’idea che non è un concept, può sembrarlo per la scelta dei brani, per alcuni collegamenti tra i personaggi, ma Iano ci assicura che non lo è.

Aqualung è l’uomo copertina del disco, il barbone al quale nessuno vuole avvicinarsi per timore, un concetto attuale: la paura del diverso. Il nome – che ne dica Iano – deriva dal rantolo del suo respiro, del tutto simile a quello che fanno i subbbbacquei quando sono sotttacqua.

Aqualung è un uomo patetico, “socialmente degradato” (come puntualizza l’autore), emarginato dalla società perbenista ma accolto dai suoi simili, come Mary. Avevamo già accennato ai collegamenti che intercorrono tra i personaggi cardine di ogni brano, il primo è quello tra Mary la strabica (cross-eyed), la scolaretta che si prostituisce concedendosi solamente ai barboni e agli anziani al solo scopo di renderli felici (ma soprattutto perché difficilmente qualcuno se la filerebbe). Questo tipo di surrealismo grottesco lo ritroviamo in Mother Goose che praticamente ci racconta di 100 studentesse che piangono. La prima parte del disco presenta anche due brevi passaggi come Cheap Day Return, ispirata da un viaggio in treno di andata e ritorno per andare dal padre in ospedale, o Wond’ring Aloud.

Con il secondo lato si porta alla luce il tema religioso – in alcuni casi sacrilego – My God ad esempio nei suoi 7 minuti vuole denunciare l’ipocrisia ecclesiastica e nel concetto di Dio (inteso nella trasversalità del termine). Una critica all’adorazione di default di un dio:

“È molto insoddisfacente per me che i bambini siano portati a seguire lo stesso Dio nel quale credono i genitori. Dio è un’idea astratta che l’uomo sceglie di adorare; non DEVE adorare. Dico che deve solo essere riconosciuto. I bambini vengono portati ad essere ebrei, cattolici o protestanti solo come conseguenza della loro nascita, non per una loro scelta. Penso che sia una cosa presuntuosa e immorale da fare. […] La religione crea una linea di divisione tra gli esseri umani e ciò è errato.”

Concetto molto chiaro e diretto quello di Iano, che torna sul tema della religione anche nei seguenti brani, parlando di morte in Sleepstream e nella stupenda Locomotiv Breath, o di Gesù in Hymn 43. Aqualung è un album che punta veramente in alto andando a discutere di tematiche estremamente delicate e tuttora contemporanee, estremamente presuntuoso nell’intento, ma comunque riuscito.

Creedence Clearwater Revival – Cosmo’s Factory

CCR - Cosmo's Factory

Oggi è con immenso piacere che scrivo dei CCR, meglio conosciuti come il Credito Cooperativo Romagnolo (o Romano, o di Recanati… va be, a seconda di dove vi troviate scegliete la città che inizia con la R più vicina a voi). Il CCR è riuscito negli anni ad offrire dei tassi vantaggiosi per investimenti a breve termine. Ok dopo aver scritto ste cazzate, cominciamo a parlare dei Credenzoni, che vedono in John Fogerty il leader incontrastato della band (il leader è grande, il leader è bello) e in Cosmo’s Factory lo zenith della loro fulgida carriera.

Cosmo’s Factory (il magazzino di Cosmo… non il Fantagenitore) deve il suo nome al magazzino nel quale i Creedence erano soliti provare durante l’inizio della propria carriera. Questo titolo ha creato anche dei siparietti curiosi considerato che il soprannome di Doug Clifford (il batterista dei CCR per chi non lo sapesse) è proprio Cosmo.

Di Cosmo’s Factory mi torna in mente sempre quella copertina sgangherata, scattata da Bob Fogerty – fratello di John e Tom – dove i 4 CCR si trastullano durante un attimo di pausa, mentre vengono immortalati in un’immagine leggendaria dove sembrano tutto fuorché delle star al quinto album. Già… il quinto, forse il più grande, sicuramente il più memorabile tra i fan e non.

La sapiente struttura del disco presenta sia brani che saranno ricordati come classici, che grandi classici sistemati su misura. La scelta delle cover non è inusuale per i Creedence, da Suzie Q e Put A Spell On You – presenti nel primo omonimo disco – c’è sempre stato almeno un brano di altri artisti nelle successive uscite discografiche, fino a Before You Accuse Me (Bo Diddley), Ooby Dooby (scritta per Roy Orbison), My Baby Left Me (di Cudrup e resa famosa successivamente da Elvis) ed I Heard It Through The Grapevine (resa celebre da Marvin Gaye).

Ora 4 brani su 11, sono di altri artisti. Perché allora Cosmo’s Factory riceve tutti questi complimentoni? Voglio dire, posso capire una cover, massimo due. Ma quattro…  il problema è che gli altri sette brani, quelli scritti dal pugno di John, sono esplosivi e giustificano una presenza così massiccia di canzoni extra CCR.

Prendiamo un brano simbolo delle Credenzone, Who’ll Stop The Rain che nasce a Woodstock, quando John Fogerty intento a suonare con i CCR vede il pubblico – parliamo di mezzo milione di persone – completamente zuppo di pioggia e fango cominciare a denudarsi completamente. Ispirato da cotanta nudità, torna a casa e scrive Who’ll Stop The Rain, quindi al contrario di quanto si pensasse in passato non è una canzone con riferimenti al Vietnam o a qualsiasi tipo di guerra, come invece è Run Through The Jungle.

Ecco sì… quel capolavoro di Run Through The Jungle – tra l’altro – è la canzone preferita da fratellone Tom Fogerty “è come un piccolo film, con tutti quegli effetti sonori. Non cambia mai di chiave musicale, ma resta sempre incollato per tutto il tempo. È il sogno di tutti i musicisti. Non cambia mai la chiave ma hai l’illusione che lo faccia.”

Per non parlare dell’apertura con la jam di Ramble Tamble, Travelin’ Band (che si ispira al miglior Little Richards), di Up Around The Band o Lookin’ Out My Back Door. A proposito di quest’ultima, gli scienziati dell’analisi del testo credevano parlasse di droga, mentre il buon John l’ha scritta per il figlio di 3 anni. Evabbè.

Senza che ve la meno ulteriormente, Cosmo’s va veloce, è potente e si spinge oltre: è una fabbrica da hit. Le forti tensioni interne esasperate da un John Fogerty vessatorio contro tutti – e soprattutto verso il fratello maggiore – vengono mascherate da un disco coeso e sapientemente costruito.

Suicide – Suicide

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“Se sei brutto, ti tirano le pietre,

Se sei Alan Vega, ti tirano le asce”

Cantava Antoine nel 1967, anticipando di 11 anni quanto sarebbe successo durante un tour europeo dei Suicide in apertura ai Clash.

Ma perché? Perché c’è questo accanimento verso i Suicide? Perché hanno cominciato al CBGB’s e sono finiti in Europa? Perché? Perché? Perché? (da ripetere in maniera disperata alla Antonio Socci durante la lite con Capezzone in una puntata di Excalibur).

Partiamo dal principio, i Suicide forse non li avete mai sentiti (non è che siano mai stati così celebri nello stivale) ci hanno provato gli Afterhours con Milano Circonvallazione Esterna a farceli apprezzare, ma l’effetto è stato tutt’altro che quello desiderato in principio. Il problema è che se non sei Alan Vega non li puoi fare i suoi urletti, soprattutto se ti prendi troppo sul serio (come gli Afterhours da Non è per Sempre in poi).

Vabè, chiudo la polemica tra me e il sottoscritto.

Alan Vega è famoso per il suo modo di cantare e per il suo trasporto nel canto, simula l’amplesso in ogni canzone del disco d’esordio, per questo si becca insulti da morire negli States. Insieme a Martin Rev – il tappeto sonoro vivente dei Suicide – se ne vanno in Europa ad aprire i concerti dei Clash, dove vengono insultati come accade con Richard Benson, culminando poi nel lancio dell’ascia che sfiora Vega a Glasgow. Un grido lancinante si alza in sala “I NANIIIIII!!!”.

Se fosse stato centrato, la band avrebbe dovuto cambiare nome in Homicide.

“Suppongo fossimo più punk dei punk nella folla. Ci odiavano. Allora li ho provocati: ‘Voi teste di cazzo, dovrete passare sopra di noi prima che suoni la vostra band!’ È stato quello il momento in cui l’ascia ha sfiorato la mia testa per un pelo. È stato surreale. Ho pensato di trovarmi in un film 3-D di John Wayne. Ma non c’era nulla di inusuale. In ogni concerto dei Suicide in quel periodo era come trovarsi nella terza guerra mondiale. Ogni sera credevo che sarei stato ucciso.” Alla fine Alan è campato tanto da potersi ritenere un sopravvissuto, purtroppo però ci è stato portato via da un 2016 che non ha lasciato prigionieri.

I Suicide non sono stati capiti – da quel che avrete capito – ospiti fissi del CBGB’s insieme a Patti Smith, Television, Talking Heads e Ramones, vennero ridicolizzati dalla critica salvo poi – come spesso capita – far dietrofront. La vera fortuna per il duo Vega e Rev è stato quello di incontrarsi a SoHo in un laboratorio artistico: “Abbiamo avuto la stessa fortuna che hanno avuto Jagger e Richards quando si incontrarono” ricorderà il cantante, in principio scultore; uno originario di Brooklyn l’altro del Bronx, avevano in comune una povertà che caratterizzava le loro giornate (un po’ come per Patti Smith e Robert Mapplethorpe quando all’inizio della loro carriera si trovarono a New York).

Rev era in possesso di un Wurlitzer da 10 dollari che sputava suoni strani, e Vega improvvisava sopra quelle emissioni sonore; la vera rivoluzione avvenne nel 1975 quando il duo rimediò una drum machine che ne completava la struttura musicale e ne rafforzava la consapevolezza dei propri mezzi. Sarebbero diventati – da lì in poi – i pionieri della no-wave e del sound anni ‘80 fatto di sintetizzatori e merda elettronica (della peggior specie in molti casi).

I primi concerti sono ricordati per le performance dei due con un Alan Vega più body artist che cantante, capace di procurarsi ferite sul volto con la catena ed il coltello che si portava sempre sul palco. Fortemente forgiato dal rock ‘n’ roll di Gene Vincent, Roy Orbison ed Elvis, Vega riesce ad emulare ed evolvere il loro linguaggio musicale.

Suicide è un album meraviglioso, fonte d’ispirazioni per tanti musicisti, tra i quali Bruce Springsteen – che in Frankie Teardrop vede le origini per la sua State Tropper in Nebraska – o gli R.E.M. veri fanatici di Vega e Rev – celebri sono negli anni le loro interpretazioni di Ghost Rider.

Ah dimenticavo… il nome Suicide è un tributo al soprannome del protagonista nell’omonimo fumetto Ghost RiderSatan Suicide – del quale Rev è un grande ammiratore.